Gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari
colpiscono anche i componenti di uno “stile”
nel nutrirsi considerato tradizionalmente
italiano. A farne ingiustamente le spese
sembra essere proprio il suo prodotto
emblematico, la pasta
A scoprirla era stato un americano, Ancel Keys, scienziato originario del Minnesota, che per quarant’anni aveva studiato le abitudini alimentari in Italia, Finlandia, Olanda, Giappone, Grecia, Stati Uniti, Jugoslavia, traendone delle conclusioni in rapporto all’incidenza nei rispettivi Paesi di malattie cardiache, arteriosclerosi, cancro, obesità. Era il 1957, e lo studio di Keys lanciò in tutto il mondo la “dieta mediterranea”: povera di grassi saturi (burro, strutto e altri grassi animali), ricca di olio di oliva (con prevalenza di acidi insaturi), era tradizionalmente basata sul consumo quotidiano di verdure, legumi, frutta, formaggi, riso, pane, e, (soprattutto in Italia) pasta. Pesci, carni bianche e uova, una volta la settimana, invece delle carni rosse. Tra i Paesi esaminati, quelli privilegiati apparivano l’Italia, la Grecia, e la costa adriatica delle Jugoslavia (che all’epoca esisteva ancora). Però, per una sorta di imperialismo gastronomico “dieta mediterranea” divenne sinonimo di dieta all’italiana, tanto che vi si aggiunse d’ufficio anche la pizza.
Questo tipo di alimentazione ebbe successo in modo particolare in America, patria dei fast food alla MacDonald: hamburger, hot-dog, e patatine fritte, il tutto prodotto come in una catena di montaggio. Un modello esecrabile, malsano, causa delle succitate malattie e di una diffusa obesità, ma che surrettiziamente conquistava nuovi spazi ovunque, anche nelle nostre contrade benedette invano dalla magica dieta. Il fast food diventava l’insegna alimentare della modernità, della rapidità, conquistava, fino dalla più tenera età, i giovani affascinati dai colori e dagli odori di queste Disneyland del cibo. E il fenomeno si allargava fino a minare le basi del “sacro” olio di oliva, il frutto dell’albero divino che i nostri padri antichi ci avevano trasmesso: al suo posto venivano propagandati condimenti prodotti industrialmente, millantati come “più leggeri”. Per dire che la “dieta mediterranea” anche in quella che si vantava di essere la sua terra di elezione è andata nel corso degli anni perdendo terreno. Sempre di più a vantaggio di quello che gli americani, nella loro onesta sincerità, chiamano “junk food”, cibo spazzatura, accortamente confezionato e propagandato.
A resistere, per ragioni di gusto, affettive, o per semplice abitudine, erano il pane e la sempiterna pasta. Fino alle attuali impennate dei prezzi, per le quali sono stati emblematicamente segnalati proprio questi due prodotti. A registrare l’allarme sono stati degli analisti americani, e nel giugno scorso il Wall Street Journal, giornale che usualmente si occupa più di quotazioni Borsa che di mode alimentari, titolava, commentando il vertice romano della Fao, “Arrivederci (in italiano, n.d.r.) penne? I rincari degli alimenti penalizzano la dieta degli italiani”. E, nel testo dell’articolo, si aggiungeva: “I continui rincari dei generi alimentari costringono anche gli inventori della dieta mediterranea a ridurla drasticamente, a favore di cibi-spazzatura ricchi di grassi, zuccheri, sale. Ormai, i più poveri tra gli italiani si alimentano sempre di più come gli americani poveri”.
Non sappiamo esattamente come mangino gli americani poveri, ma considerando come mangiano quelli che poveri non sono possiamo farcene un’idea. Ed è vero che noi italiani da anni stiamo avanzando su quella strada: lo prova l’aumento dei bambini soprappeso, delle malattie cardiovascolari, del diabete, dell’arteriosclerosi. E, per tornare alla pasta, il suo consumo è andato calando, arrivando a una media di 28 chilogrammi annui pro capite, dai quasi 40 degli anni ’70. Detto ciò, siamo ancora il Paese con il più alto consumo: al secondo posto, molto distanziato, c’è il Venezuela, con 13 chilogrammi, e poi la Tunisia, la Grecia, la Svizzera, e la Francia che ne consuma solo 7 chilogrammi e mezzo, ma contrasta le malattie cardiovascolari con flavonoidi (enzimi) contenuti nel vino rosso.
Ora, un’ulteriore riduzione del consumo di pasta sarebbe dovuta ai rincari, strettamente legati – per motivi di globalizzazione dei mercati del grano – a quelli del petrolio. Ma, fanno notare alcuni esperti del settore alimentare, per quanto riguarda la “dieta mediterranea” i rincari colpiscono in misura molto maggiore le verdure fresche, la frutta, i formaggi, il pesce, l’olio di oliva extravergine (nettamente preferibile per il rapporto qualità-prezzo). Aumenti di gran lunga più consistenti di quelli della pasta, che partendo da prezzi al chilogrammo tra 1,18 e 1,66 euro (e considerando che una porzione giustamente dosata di pasta dovrebbe essere di 80 grammi) incidono per pochi centesimi. Se ne dovrebbe dedurre che la rinuncia sia dovuta a una reazione psicologica, ancora una volta a una “percezione” dovuta all’enfasi con cui il tema viene presentato. Il carovita è una dura realtà, ma non è sicuramente risolvibile rinunciando agli spaghetti. O alle penne.
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