Il voto che designerà il nuovo
“inquilino” della Casa Bianca vede
due contendenti molto diversi tra loro, ma
entrambi con problemi di immagine dei quali
è difficile prevedere il peso
Ora si prepara la vera sfida. Dopo la lunga contesa con Hillary Clinton per la nomination democratica, Barack Hussein Obama dovrà affrontare le elezioni del 4 novembre per decidere chi sarà dei due a entrare alla Casa Bianca come Mr President, ad assumere il ruolo di “uomo più potente del pianeta”. Il 4 novembre il senatore dell’Illinois avrà compiuto 47 anni, il suo avversario repubblicano, John McCain, senatore dell’Arizona, 72. Giusto o sbagliato che sia, in politica il dato anagrafico conta, e in America conta più che altrove, soprattutto per il presidente, che deve sempre mostrarsi in forma, scattante, sorridente, insomma “giovanile”. Sotto questo aspetto Obama appare perfetto. Per di più è uno straordinario oratore, usa con disinvoltura lo stile predicatorio dei pastori che hanno tanto successo nelle chiese protestanti del “paese di Dio”, e anche in televisione. Quando parla in pubblico si muove come un rapper, il che inevitabilmente piace ai giovani, e a quelli che gradiscono considerarsi tali.
Obama ha carisma, e se ne serve per trasmettere un messaggio di “cambiamento” che gli americani attendono, incerti tra fiducia e scetticismo, dopo otto anni di presidenza Bush. In un certo senso è stato George W. a fornirgli i punti forti della sua campagna elettorale: l’economia (calo del reddito reale delle famiglie medie americane, e un debito enorme), l’Iraq (“Dovremo essere tanto accorti nell’uscire dall’Iraq, quanto poco accorti siamo stati nell’entrarvi”), il terrorismo (“E’ tempo di tornare a concentrare i nostri sforzi sui vertici di al-Qaeda e sull’Afghanistan”), i mutamenti climatici, la crisi energetica. Obama ha anche stigmatizzato “quel genere di politica che usa la religione come un elemento di divisione e il patriottismo come una clava”, chiara allusione ai frequenti riferimenti mistici di Bush quando vuole giustificare le sue scelte.
La nomination di Barack Obama è stata salutata da tutti come una “pietra miliare” nella storia americana. Questo perché il senatore dell’Illinois ha la pelle scura, un dato somatico che gli viene da un padre africano, e rende la sua candidatura una novità assoluta, e non di poco peso in una nazione dove la schiavitù fu abolita nel 1865, ma la segregazione razziale è stata definitivamente cancellata solo nel 1954. L’unico a non aver mai fatto allusione a questo epico successo degli afroamericani è stato lui, Obama. Eppure il reverendo Jesse Jackson, leader storico delle battaglie per l’eguaglianza razziale, erede di Martin Luther King, ha proclamato che “la candidatura di Barack è nella tradizione del movimento per i diritti civili”, e “la sua lotta per la nomination è costruita su decenni di lotta e, alla fine, di progresso”. Il regista Spike Lee ha confidato a Antonio Monda di La Repubblica di aver pensato (all’annuncio della nomina) “che gli antenati di Obama erano schiavi, come i miei e quelli di milioni di afro-americani”, e che “non avrebbero mai sperato di vedere un giorno in cui un nero sarebbe stato candidato per la presidenza degli Stati Uniti”. Il silenzio di Obama sulla questione razziale significa ovviamente che non vuole essere in nessun modo il candidato degli afro-americani, né il simbolo del loro riscatto, ma solo il candidato di tutti i democratici. Del resto, il senatore non è un afro-americano nel senso usuale del termine.
Certo, quando era avvocato, e poi senatore, Barack ha difeso i diritti civili, come d’altra parte hanno fatto moltissimi bianchi. Ma i suoi antenati, malgrado l’entusiasmo di Spike Lee, non sono mai stati schiavi. Obama è nato a Honolulu, nel 1961, dal cittadino del Kenia Hussein Barack Obama, e da Ann Dunham, originaria del Kansas, entrambi studenti all’Università delle Hawaii. Lei americana bianca, lui straniero nero. Nel 1963 i due avevano divorziato, Obama padre era andato a laurearsi ad Harvard, ed era tornato in Kenia, dove è morto nel 1982 in un incidente stradale. Il futuro candidato alla presidenza era sempre vissuto con la madre e con la nonna, Madelyn Dunham (alla quale ora ha dedicato la sua vittoria), si era laureato in scienze politiche e in legge, e nel 1992 aveva sposato Michelle Robison, anche lei avvocato. Michelle sì afro-americana in piena regola, energica, combattiva, molto polemica nei confronti dell’establishment bianco. Qualcuno si chiede che tipo di First Lady potrebbe essere.
I sondaggi dicono che un 15% di elettori democratici non sarebbero disposti a votare Obama perché pensano che la sua connotazione razziale non lo renda affidabile. Gli esperti, tenendo conto del fatto che molti esitano per pudore a manifestare i loro pregiudizi, ritengono che la percentuale sia più alta. Il senatore dell’Illinois ha conquistato le fasce medio-alte, alle quali lui appartiene, molti industriali, gli intellettuali, gli artisti, buona parte dei giovani, ma gli resta da convincere, o da “sedurre”, lo zoccolo duro delle comunità rurali, i “blue collar”, gli operai delle grandi città che dei neri conoscono in una contiguità vissuta con disagio le popolazioni dei ghetti, quei quartieri periferici che producono galeotti, spacciatori, magnaccia, piccoli gangster.
Obama non sfiora neppure la questione razziale, e anche John McCain se ne tiene lontano, guardandosi bene dall’alludere al colore della pelle del suo avversario, che definisce un “formidabile” competitore. Semmai lo accusa di “ingenuità”, di scarsa esperienza, di proporre dei “cambiamenti” sbagliati, addirittura di voler sperperare i soldi dei contribuenti come ha fatto… Bush. Un colpo basso? Sì e no. McCain, avvicinandosi la scadenza del voto, ha un bisogno estremo di sganciarsi quanto possibile dall’immagine del presidente in carica. A suo tempo votò a favore dell’intervento in Iraq, ma afferma che la guerra è stata condotta malissimo. Ex pilota dell’aviazione di Marina, un nonno e un padre ammiragli, eroe della guerra in Vietnam vanta delle posizioni liberali, l’interesse per i temi ambientali, rapporti amichevoli con i latinos, e – senza dirlo – probabilmente non esclude di poter raccogliere una parte dei voti che nelle primarie democratiche sono andati alla sconfitta Hillary Clinton. Da lui pubblicamente elogiata: “Una mia amica che si è saputa guadagnare un grande rispetto”.
Tutto questo naturalmente Barack Obama lo sa benissimo. Ma sa anche che in fondo se il colore della sua pelle può creargli dei problemi, è stato anche l’elemento che lo ha messo maggiormente in luce, che lo ha fatto apparire un candidato del tutto inedito.
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