Si prospetta l’assunzione di nuovi compiti
da parte dei militari italiani della missione Isaf
in Afghanitan, dove continua e si estende
una guerra che sei anni fa era stata dichiarata
vittoriosamente conclusa, mentre in Iraq
la situazione resta a un livello
di elevata conflittualità
La visita del presidente George W. Bush a Roma ha coinciso quasi cronometricamente in AfgHanistan con una delle più spettacolari azioni dei talebani: l’assalto alla prigione di Kandahar e la liberazione di 400 miliziani prigionieri, oltre a qualche centinaio di detenuti comuni, dopo aver fatto saltare un muro del carcere e messe fuori combattimento le guardie di custodia. Kandahar, situata nel sud del Paese – la cui provincia è presieduta da Wali Garzai, fratello del presidente Hamid Garzai -, è una delle roccaforti dei guerriglieri islamici. Qualche ora dopo il blitz alla prigione, salve di razzi sono state sparate contro la locale base americana.
La coincidenza sta nello scopo principale che Bush si prefiggeva con la sua tappa romana: ottenere che il governo italiano autorizzasse almeno una parte delle nostre truppe inserite in Isaf, la missione Onu-Nato in Afghanistan, a spostarsi a sud, dove si è ormai stabilizzata una situazione di continui scontri che vede le truppe americane, affiancate da reparti britannici, canadesi e olandesi, in uno stallo prolungato e snervante. Con ricadute inevitabilmente negative, all’approssimarsi delle elezioni presidenziali, su un’opinione pubblica già ulcerata dal conflitto iracheno. In cambio, il presidente avrebbe dovuto garantire l’appoggio alla richiesta di inserire l’Italia nel 5+1, il gruppo di nazioni che gestisce il dossier iraniano: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina, cioè i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, con l’aggiunta della Germania. A rigor di logica non si vede perché se ci sta la Germania non possa starci anche l’Italia (che tra l’altro dell’Iran è uno dei più importanti partner economici), ma Bush ha confermato all’“amico Silvio” che Berlino si oppone decisamente a un ingresso italiano, e che lui, un presidente ormai vicino alla pensione, non era in grado di superare quel “nein”.
Comunque stiano veramente le cose, Bush ha ricevuto quello che chiedeva, e di cui ha bisogno per lasciare un’immagine un poco meno catastrofica dei due conflitti da lui avviati, e mai conclusi, Afghanistan e Iraq: dimostrare che ci sono ancora degli alleati disposti a condividere le sue scelte, e quindi a condividere i rischi, e le perdite, che sono il pane quotidiano dei soldati americani. Al momento attuale – mentre in Iraq si stanno ridefinendo strategie e tattiche politico-militari – il fronte più caldo è quello afgano, ed è lì che da tempo Washington e i suoi alleati britannici chiedono una più “muscolare” partecipazione italiana. Anche con pesanti allusioni sulla stampa, in particolare inglese.
“Non sopportiamo più che si faccia la rappresentazione di un esercito che si tiene nelle retrovie – ha detto il ministro degli Esteri Franco Frattini, alla vigilia dell’arrivo di Bush – Rifiuto di leggere sulla stampa inglese che le truppe italiane sono sempre dietro alle altre. L’opinione pubblica italiana non può accettare che i nostri soldati siano dipinti come quelli che sono disposti nelle zone tranquille, di non fare nulla e di evitare situazioni rischiose. Ne va della dignità delle nostre truppe”. Di qui l’impegno a rendere più flessibili i “caveat” nazionali che impediscono l’impiego dei nostri militari, come a quelli degli altri Paesi membri della missione Isaf, fuori dalla loro area di competenza. Tranne in casi particolari , su richiesta del comando Isaf, e dopo un via libera del governo italiano che ha fino a 72 ore per decidere: ora il tempo di decisione si ridurrebbe a 6 ore.
In realtà non si tratta tanto di qualche ora in più o in meno, quanto di coinvolgere i nostri militari in operazioni belliche che non sono contemplate nella missione Isaf, e che sono invece condotte dal contingente americano della missione Enduring Freedom, appoggiato dai britannici e dagli olandesi.
In effetti, quando si parla di “forza multinazionale” in Afghanistan, spesso si trascura, da parte sia degli “interventisti” che dei “pacifisti”, di precisare di quale missione si tratti, dato che le due presenti in campo sono molto diverse tra loro. L’Italia è in Afghanistan, con circa 2.300 militari, dal gennaio 2002, nel quadro della missione internazionale Isaf (International Security Assistance Forse), autorizzata, il 20 dicembre 2001, dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La missione Onu arriva in Afghanistan mentre sono ancora in corso le operazioni di Enduring Freedom, l’offensiva del corpo di spedizione americano e britannico che con l’appoggio dei Signori della guerra del nord, ha scacciato i talebani e il loro alleato terrorista Osama bin Laden, da Kabul e dalle principali città. A Isaf, che non ha partecipato ai combattimenti, l’Onu affida un compito di ricostruzione, assistenza sanitaria, addestramento di Esercito e Polizia: la missione non è attrezzata per combattere, né i suoi regolamenti prevedono che lo faccia. Del resto Bush e il suo staff affermano che la guerra è stata vinta, e già si preparano a ridurre il contingente in Afghanistan per dare inizio al conflitto in Iraq.
Però la guerra era stata quasi vinta. Nel sud, alla frontiera con il Pakistan, i talebani si riorganizzavano, anche con l’aiuto degli infidi servizi segreti di Islamabad, e Enduring Freedom, a ranghi ridotti, riprendeva a dar loro la caccia, con risultati mediocri: i guerriglieri islamici non solo resistevano e contrattaccavano, ma riuscivano a infiltrarsi anche in altre zone. E questo, naturalmente, causava dei seri problemi a Isaf e alla sua opera di ricostruzione. L’11 agosto 2003 la missione Onu era stata affidata alla guida della Nato, il che si accompagnava ad altri problemi, poiché il comando dell’Alleanza atlantica elaborava una strategia accuratamente articolata, che aveva il difetto di essere valida solo sulla carta.
Per realizzare il programma di Isaf ci si proponeva di mettere in atto una fase di espansione in quattro tempi, procedendo in senso antiorario da nord, a ovest, a sud, e a est entro la fine del 2006. Seguendo questo programma, in ogni zona i Provincial Reconstruction Team (Prt) dovevano essere i centri dinamici per creare una situazione stabile attraverso un processo di ricostruzione socio-economica dell’area. Il procedere dei vari tempi doveva coincidere con una “pacificazione” attuata da Enduring Freedom, che si supponeva avrebbe rispettato le scadenze previste.
Si deve premettere che i Prt, come quello di Herat affidato agli italiani e agli spagnoli, hanno funzionato al meglio, assolvendo subito con efficienza i loro compiti, sia pure con un largo dispendio di mezzi militari, indispensabili ad assicurare la sicurezza della zona. In difesa, non in attacco: quest’ultima era, e rimane, la strategia di Enduring Freedom. Del resto i Prt devono essere protetti non solo contro i guerriglieri islamici: gli atti ostili, le imboscate, gli attentati con Ied (Improvised Esplosive Device) o mine artigianali, possono venire dai narcotrafficanti, da contadini che vedono minacciate le coltivazioni di papaveri, da estemporanee impennate dei Signori della guerra, dalla criminalità comune.
Il programma di Isaf sulla carta si era svolto regolarmente, tanto che il 9 ottobre 2006 lo si dichiarava completato. Inoltre, si decideva che anche Enduring Freedom sarebbe passata dalla guida Usa a quella della Nato. Un comando unico per due missioni molto diverse tra loro. Nei fatti Enduring Freedom è rimasta sotto il controllo del Pentagono, anzi gli americani hanno cominciato a chiedere ai contingenti di Isaf di staccarsi dai Prt per andare a combattere con loro, dato che ormai si trovavano tutti nella stessa barca.
I talebani ormai si erano riorganizzati, avevano ingrossato i loro ranghi con nuovi reclutamenti, offrendo una paga superiore a quella dell’Esercito e della Polizia del debolissimo governo di Garzai (soprannominato “il sindaco di Kabul”, e nemmeno di tutta la città). Anche se il fronte più caldo era concentrato nelle zone meridionali, diventava sempre più difficile evitare le contraddizioni fra le due missioni occidentali. Già nel giugno 2006, il generale Fabio Mini, che nel 2002 aveva guidato le operazioni di pace in Kosovo, rilevava che “il problema nasce dall’inserimento di ISAF in un contesto artificiosamente dichiarato post-bellico, e dalla sottovalutazione della capacità dei guerriglieri talebani di costituire un’aperta minaccia nei riguardi delle forze Usa, del governo di Kabul e di chiunque lo appoggi. La cosa peggiore che possa succedere è che si assumano nuovi impegni e nuovi rischi mantenendo i vecchi criteri d’impiego, e le ipocrisie di sempre: fingendo che la situazione sia “normale, ignorando o negando la sovrapposizione di Isaf a Enduring Freedom, spacciando per ricognitori dei campi d’oppio dei cacciabombardieri, per missionari di pace degli incursori e sabotatori superaddestrati all’infiltrazione in territorio ostile e alla guerra asimmetrica”.
Dopo due anni da queste considerazioni, il problema si è semmai aggravato, passando da un governo di centro-destra a uno di centro-sinistra, per poi tornare a un altro di centro-destra. Ora si parla di “più flessibilità” ma senza “un cambio di strategia”. E’ davvero possibile? Comunque, dovrebbe essere chiarito in forma netta e definitiva che in Afghanistan i soldati italiani si sono comportati sempre egregiamente, da professionisti seri, e non da Rambo robotizzati: hanno sempre affrontato, pagandone il prezzo, tutti i rischi che sono impliciti nella loro missione. Le allusioni dei giornali britannici, o altri, possono essere tranquillamente respinte al mittente. Però andrebbe anche detto, ai militari e all’opinione pubblica in patria, senza infingimenti e giri di parole, qual è il fine concreto, realizzabile – se possibile, non parlando ancora genericamente di “lotta al terrorismo” – di quella missione italiana.
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Sempre a proposito di missioni militari, sembra rientrata, almeno per ora, l’intenzione di aumentare il numero degli istruttori italiani in Iraq che – dopo il ritiro del contingente da Nassiriya – operano a Bagdad nel quadro della missione Nato Training Mission (Ntm-I). Si tratta di 30 ufficiali e sottufficiali, inseriti in una missione di 200 militari di 17 Paesi, stanziata nella “green zone” di Bagdad, che ha il compito di fornire alle Forze di sicurezza del governo iracheno (Esercito e Polizia) un sostegno nel campo dell’addestramento e dell’equipaggiamento. Su Rivista militare, il generale di Brigata Leonardo Prizzi, che ha partecipato alla Ntm-I sottolinea il fatto che “il personale della Ntm-I, pur non partecipando direttamente alle operazioni” si trova “immerso” in un ambiente di scontri bellici. E logicamente si pone il quesito non semplice su chi, fra le diverse fazioni irachene, si sta addestrando ed equipaggiando.
Se nelle intenzioni dei partecipanti alla missione, la sua attività dovrebbe concorrere a fornire alle autorità di Bagdad la garanzia di reparti armati efficienti, la situazione rimane fluida per quanto riguarda i rapporti di forza tra l’Armata sciita radicale di Moqtada al Sadr, le milizie sunnite, e un governo non compattissimo al suo interno. E proprio mentre, avvicinandosi la scadenza del suo mandato presidenziale, George W. tenta di mascherare il disastro iracheno cercando nuove solidarietà, e magari un colpo fortunato da esibire (come la cattura o l’eliminazione di Osama bin Laden), l’Intelligence Committee del Senato americano, dopo una lunga inchiesta, ha reso noto un documento secondo cui tutte le affermazioni fatte dal presidente e dai suoi collaboratori sull’Iraq di Saddam Hussein erano infondate, e non rispondevano neppure ai rapporti dei servizi segreti Usa: Saddam non aveva in cantiere armi nucleari, chimiche, o biologiche, né aveva rapporti di alcun tipo con al-Qaeda o altri gruppi terroristi. Nel documento del Senato americano si accusa la Casa Bianca di aver reso “la nostra gente e i nostri alleati ostaggi di un ricatto”. Ecco, forse è una considerazione della quale vale la pena di tenere conto venendo da una fonte insospettabile, e altamente qualificata.
FOTO: Militari italiani in Afghanistan per la missione Isaf - aprile 2007
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