Più che a tenere lontani
immigrati e spacciatori, i muri di Padova
sono barriere contro la paura e i pregiudizi
E’ stato innalzato durante le vacanze di Pasqua, al numero 24 di via Monte Santo, Padova. Un muro che dovrebbe dividere la scuola elementare “Diego Valeri” dal “Centro Territoriale Permanente”, dove uomini e donne di diverse nazionalità (dalla Moldova alla Thailandia, dalla Nigeria all’Ucraina) imparano l’italiano, le leggi della nostra Costituzione, studiano per diventare infermiere, elettricisti, cuochi e piastrellisti. In realtà, più che di un muro, si tratta di una recinzione a maglie larghe, alta più o meno due metri, lunga una decina, incerta e traballante (scuotendola per bene, infatti, crollerebbe). Così, dal mese scorso, i bambini delle elementari “Valeri” entrano dal cancello principale alle 8,30. Dopo mezz’ora, è il turno degli immigrati che, scortati dai loro insegnanti, raggiungono le loro aule, qualche metro più in là.
Se alcuni hanno giudicato questa scelta frutto dell’allarmismo e dell’apprensione materna, molti genitori considerano il muro solo un “palliativo” e dichiarano di volersi battere per impedire la presenza contemporanea di bambini e giovani immigrati. L’allarme è scattato quando un ragazzo del Bangladesh è stato sorpreso nel cortile a fotografare un bambino delle elementari. L’atto di un potenziale pedofilo, ha pensato subito un genitore, che non ha perso tempo e ha denunciato subito il fatto alla Polizia. Tre giorni dopo le Forze dell’ordine hanno fatto irruzione nella scuola con i cani antidroga e hanno perquisito tutte le aule in cerca di spacciatori. Dopo giorni di polemiche e di proteste, salta fuori che è tutto un equivoco. Il ragazzo bengalese, interrogato sull’accaduto, ha raccontato di aver scattato la foto solamente per mostrare ai genitori la scuola dove sta imparando l’italiano. E sulla perquisizione, la stessa questura ha affermato che si trattava di una semplice visita di routine.
Ma, dopo l’episodio incriminato, molti genitori hanno iniziato a guardare con sospetto chiunque si avvicinasse alla scuola. Un uomo che distribuiva gadget pubblicitari di giochi per bambini è stato accusato di essere uno spacciatore di “bustine” misteriose. Due cronisti, fermi davanti alla scuola per raccogliere informazioni, sono apparsi così minacciosi da spingere un genitore a chiedere l’intervento dei Carabinieri. Così, sull’onda di angosce e sospetti, amplificati dalla cassa di risonanza mediatica, il sindaco ha deciso di far montare la recinzione, quasi per necessità terapeutica. La rete, infatti, non è certo in grado di separare né di proteggere: chiunque è in grado di scavalcarla. La sua funzione è quella di un farmaco placebo che seda le ansie delle famiglie, alle quali dà l’illusione di sentirsi al sicuro. Il sindaco della città, Flavio Zanzotto (Ulivo), pensa che non ci sia niente di male nell’assecondare il desiderio di genitori che si sentivano in apprensione per i loro figli. «Se non avessi tirato su quella ridicola rete, l’anno prossimo molte di quelle famiglie non avrebbero iscritto più alla “Valeri” i bambini. Questa sarebbe stata una sconfitta che mi sarei rimproverato, non quella rete», ha dichiarato. E tiene a precisare che il suo intento non è quello di creare scuole per i bianchi e scuole per i neri, ma di gettare le basi per un’effettiva integrazione dei figli degli extracomunitari nella popolazione scolastica della città. Chi ha parlato di una Padova segregazionista, xenofoba e tentata dall’apartheid, quindi, è fuori strada. Eppure, a distanza di pochi giorni dalla recinzione della “Valeri”, un altro muro viene su. Questa volta circonda un albergo, l’Hotel Monaco di via Cairoli, appena dietro la stazione. La cancellata, dicono i proprietari, servirà a tenere alla larga spacciatori ed extracomunitari. Il “muro” in questione è una sbarra, di quelle che chiudono l’ingresso dei garage, che rende la via pedonale per impedire che i clienti dei “pusher” (italiani) se la sbrighino troppo comodamente.
In realtà, è dal 2006 che muri e recinzioni spuntano come funghi, a chiudere, segregare e proteggere le strade di Padova e i suoi cittadini. Il primo era stato costruito a via Anelli, nel quartiere della Stanga, dove da ormai 15 anni vivono, in condizioni di assoluto degrado, centinaia di extracomunitari. Povera gente, disposta a pagare affitti esorbitanti per miniappartamenti di 28 metri quadri, nei quali si stringono in dieci. Col tempo, la miseria e il degrado hanno aperto le porte alla criminalità. Spacciatori, prostitute, risse a colpi di machete. E allora si è pensato di rinchiudere questa “feccia” dietro una lunga barriera di ferro rugginoso, lunga 96 metri e alta 3, costata 230mila euro. Tutti gli ingressi sono sorvegliati dalla Polizia, da veri e propri check-point in cemento. Il muro di via Anelli è il più celebre. Protagonista di ben quattro documentari, degli speciali di tv tedesche e croate e di reportage de Le Figaro e dell’International Herald Tribune. Ma è stato solo il primo di una lunga serie. C’è quello in via Galliano, affiancato da un muretto di un metro sul quale si può saltare agevolmente. Quello in via Manara, che dovrebbe isolare due civici, il 37 e il 39, abitati da prostitute. E ora quelli della “Valeri” e dell’hotel Monaco.
Di questo passo, il rischio è quello di scivolare nell’apartheid senza neanche accorgersene. Di trasformare una città bella, colta, patria di una delle prime Università del mondo, in un dedalo di muri e di strade chiuse.
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