Il problema degli immigrati “irregolari”
si inserisce, a volte in forme anomale e devianti, nella richiesta di sicurezza da parte
dei cittadini. Né in Italia né in altri Paesi europei
le soluzioni sono facili, ma non si deve
dimenticare il contributo che questi stranieri
privi di uno status legale danno
alla nostra economia
“Troppo acuti certi toni usati contro i rom, troppo brutti certi episodi, non vogliamo essere usati come capro espiatorio. Gli italiani non sono razzisti, ma in questo Paese c’è una disinformazione dilagante, una mistificazione, una violenza mediatica che va fermata”: lo ha detto ai giornalisti Santino Spinelli, rom italiano, musicista (con il nome d’arte Alexian), due lauree, insegnante, scrittore, fondatore dell’associazione Thèm Romanò, uno degli organizzatori della manifestazione di duemila nomadi a Roma, l’8 giugno scorso, alla quale ha partecipato, in prima fila, l’anziano ebreo Piero Terracina, deportato ad Auschwitz, portando sul bavero della giacca un triangolo nero con la lettera Zeta (Zigeuner, zingaro in tedesco, il segno dei deportati nomadi). Spinelli chiede “lo smantellamento dei campi nomadi che sono pattumiere sociali degradanti, centri di segregazione razziale e emblema della discriminazione”; e nello stesso tempo invoca “la presa d’atto del palese fallimento dell’assistenzialismo delle associazioni di volontariato che si sono arrogate il diritto di rappresentare il nostro popolo, sperperando centinaia di migliaia di euro in progetti di nessun valore per noi rom e sinti”.
Demir Mustafa, rom macedone, dal 1989 in Italia dove lavora regolarmente, vicepresidente della federazione Rom e Sinti insieme, in un’intervista a Beatrice Montini, pubblicata da City, alla domanda sull’“emergenza criminalità” di cui si parla riferendosi ai rom, risponde: “Nessuno nasce ladro o criminale. Il problema per tutti gli immigrati in questo Paese è che quando arrivano trovano solo emarginazione, come ad esempio nei campi, e in queste situazioni è più facile che cadano in episodi di microcriminalità. Anche fra i rom vi sono persone che delinquono. Ma questo vale per tutti: rom, albanesi, marocchini, e italiani. Per questo sono fondamentali le politiche di superamento dei campi, o con l’inserimento nelle case popolari, o con progetti di autorecupero di immobili abbandonati”. E alla domanda se in Italia vi sia un problema di razzismo: “I rom sono la più numerosa minoranza linguistica europea, ma l’Italia non ha una legge in merito e non ci riconosce. Inoltre nel 2006 ci sono stati fondi europei stanziati specificamente per i rom che l’Italia non ha speso. Anche quest’anno verranno stanziati più di 300 milioni di euro per l’integrazione. Noi,come federazione Rom e Sinti insieme, ci batteremo per il riconoscimento dei rom e porteremo avanti la battaglia contro il razzismo”. In un documento del maggio scorso il Consiglio Pontificio per i migranti ha affermato che gli immigrati che lavorano “rappresentano tutti una risorsa per le società in cui lavorano, qualunque sia il loro status legale, ed è loro diritto che venga affrontato il problema della separazione familiare. Affrontando il tema della detenzione nei Cpt, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha ammonito: “Ciò che deve essere temporaneo non diventi troppo prolungato, tantomeno permanente”, e ha aggiunto che le norme riguardanti i clandestini dovranno “salvaguardare la doverosa sicurezza per i cittadini, e lo spirito di accoglienza e solidarietà che ha sempre caratterizzato il popolo italiano”.
Ascoltiamo un’altra voce, almeno altrettanto autorevole, quello del titolare di una tribuna tv definita “il terzo ramo del Parlamento”: Bruno Vespa. Nella sua rubrica su Panorama del 22 maggio, sotto il titolo “Clandestini, è cambiata l’aria”, a proposito dell’ipotesi di risistemare in qualche modo i rom “che non fosse possibile espellere”, Vespa scrive: “Ma attenzione: i cittadini italiani sono molto attenti al trattamento che si riserva ai rom e in genere alle popolazioni extracomunitarie border line. Non sono disposti a vedersi superare nelle graduatorie delle case popolari o degli asili nemmeno dagli extracomunitari regolari. Il rischio di una intolleranza xenofoba è ormai presente nelle fasce sociali più deboli e può avere conseguenze incontrollabili”. E non è tutto: “Altro tema estremamente delicato è quello dei soccorsi in mare. La Grecia e la Spagna sono molto più severe di noi nel respingere le barche. Il nostro spirito umanitario evidentemente è maggiore. Finora siamo andati a soccorrere le barche in difficoltà (sono tutte in difficoltà) parecchie miglia fuori delle nostre acque territoriali. Il soccorso in mare è un dovere. Quali sono i confini del dovere?”. Forse, Vespa, che si è sempre dichiarato un fervente cattolico, dovrebbe rivolgersi a monsignor Bagnasco, la cui risposta sarebbe facilmente prevedibile. E poi, l’omissione di soccorso, oltre che un peccato, è anche un reato. Ma il risvolto di etica marittima è solo un aspetto formale del problema sicurezza affrontato dal “pacchetto” governativo. E il conduttore di Porta a Porta, ritiene che, dietro le dichiarazioni e i decreti tesi a rassicurare l’opinione pubblica, “la vera speranza del nuovo governo è che il cambiamento di clima politico scoraggi i trafficanti di uomini dal considerare l’Italia come la meta privilegiata”.
“Siamo sulla strada giusta”, ha dichiarato, il 5 giugno, il ministro Roberto Maroni, tornando da Lussemburgo, dove si erano riuniti i 27 ministri dell’Interno dell’Unione Europea. Maroni si riferiva alla direttiva sul rimpatrio degli immigrati clandestini, approvata all’unanimità e passata all’esame dell’Europarlamento: le misure, applicabili anche ai minori, prevedono la detenzione di un immigrato fino a 18 mesi prima dell’espulsione, il divieto di rientrare in Europa per cinque anni. Per quanto riguarda il contestatissimo reato di immigrazione clandestina, che il premier Berlusconi aveva definito “inapplicabile”, e da considerare semmai come un’“aggravante” nel caso di altri reati, il responsabile del Viminale si è detto sicuro di poterlo affrontare sul piano fattuale. Mentre il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha suggerito di considerare il reato di immigrazione clandestina come un “deterrente”, unendolo non alla detenzione ma all’espulsione immediata, evitando così l’ingolfamento dei Tribunali e delle carceri. “Si potrebbe punire nell’immediatezza solo l’ingresso o la permanenza – ha rilevato Niccolò Ghedini, estensore della norma sul reato di clandestinità – senza essere registrati, e introdurre come oggettivo la pericolosità del clandestino desunta da elementi di fatto. Un’ipotesi percorribile che potrebbe essere quella indicata da Berlusconi”.
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Collocata – anche in forme improprie – nel lungo e complesso capitolo riguardante la sicurezza, l’immigrazione clandestina in realtà valenze diverse che giocano sia sul piano interno (le attese e le posizioni dell’opinione pubblica, i rapporti tra governo e Vaticano-Chiesa cattolica, e tra maggioranza e opposizione), sia su quello esterno (Unione Europea, e Paesi di provenienza dei clandestini). I due piani sono strettamente legati, perché è chiaro a tutti che, anche varando le misure più restrittive, un governo europeo, qualsiasi governo, non può affrontare il problema da solo. E neppure le regole inter-europee, e gli accordi con Paesi “terzi” servono a molto se mancano i mezzi per applicarli. E, malauguratamente, i mezzi (leggi, i soldi) non abbondano. Venendo all’Europa, la Francia di Nicolas Sarkozy (che dal 1° luglio ha presidenza Ue) ha proposto un “contratto di integrazione” che prevede l’obbligo di apprendere “la lingua e i costumi” del Paese che ospita l’immigrato. Contraria il vice-premier spagnolo Maria Teresa Fernandez de la Vega (“Non siamo favorevoli perché non sappiamo che cosa aggiunga alle leggi già in vigore nei Paesi Ue”), d’accordo invece il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini (“Siamo intenzionati a sostenerlo”). Comunque, al di là dei contrasti marginali – controllare il livello “culturale” di ogni immigrato può anche apparire un fatto positivo, ma certo non è di facile attuazione – Parigi e Madrid stano preparando insieme un testo che propone, dal 2011, l’introduzione dei visti d’ingresso biometrici, e chiede che i Paesi membri non applichino all’immigrazione la regola del condono, con regolarizzazioni di massa.
Finora si può dire che, sul problema immigrati, l’Unione Europea navighi a vista. Nel senso che ogni governo tende a valutare la situazione dal suo punto di vista, tenendo conto soprattutto delle ricadute sul bilancio nazionale e sul consenso elettorale interno. Si tratta di condividere i costi inevitabili per rendere meno permeabili frontiere lontane, quanto, ad esempio, il Mediterraneo dalla Scandinavia, il che rischia di suscitare il malumore dei contribuenti in Paesi che già hanno normalmente un grado elevato di pressione fiscale. Eppure, nell’Europa della libera circolazione interna, se si lascia facilmente apribile una porta è come non averne chiusa nessuna. Certo, è più semplice mettere sulla carta leggi e decreti severi che approntare delle buone serrature. In fondo tutti sanno, anche se pochi lo dicono, che si tratta essenzialmente di tranquillizzare le opinioni pubbliche dei vari Paesi, che in proposito hanno idee diverse, mutevoli, e comunque confuse da un alternarsi di allarmi, informazioni parziali, polemiche tra gli schieramenti politici.
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Per la sua conformazione geografica e la sua posizione nel Mediterraneo, l’Italia è oggettivamente il Paese più vulnerabile. In passato lo era per il contrabbando di sigarette, e le rotte almeno in parte coincidono. La non-frontiera orientale con la Slovenia consente l’ingresso via terra sia ai neo comunitari (è da lì che arrivano rom e romeni) che in partenza clandestini non sono, ma lo diventano prolungando il loro soggiorno senza avere i requisiti necessari, sia extracomunitari di lontana provenienza, fino alla Cina, totalmente clandestini, nascosti a bordo di Tir e altri mezzi di trasporto, con l’eccezione dei più sofisticati che usufruiscono di passaporti falsi. La costa dell’Adriatico è sotto il tiro degli scafisti montenegrini e albanesi che traghettano un po’ di tutto in quanto a etnie, valendosi alla partenza della complice cecità delle autorità locali, e, sulle nostre rive, della compartecipazione interessata delle cosche. Sul versante mediterraneo, dalla costa nordafricana si svolgono a un ritmo regolare i viaggi della disperazione verso Lampedusa e la Sicilia, con l’altrettanto regolare stillicidio di naufragi e morti annegati. A tutti questi si aggiungono gli immigrati che arrivano dall’America latina con regolare visto turistico, e, una volta in Italia, si dissolvono nella clandestinità.
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Le espulsioni, com’è noto, sono più facili da codificare che da realizzare: in molti casi diviene ardua l’identificazione dei soggetti, e dei loro Paesi di origine. Una soluzione, almeno parziale, è quella di ridurre gli arrivi. Si parla di controllare le coste libiche tramite un sistema satellitare che integri il pattugliamento (con unità navali della GdF cedute temporaneamente a Tripoli) previsto dal protocollo firmato da Giuliano Amato, ministro dell’Interno nel precedente governo.
La Spagna ha affrontato, dal 2002, lo stesso problema con il Sive – iniziato dal popolare Aznar e ampliato dal socialista Zapatero -, un sistema tecnologicamente molto avanzato di radar fissi e mobili, dotati di sensori termici e strumenti optometrici, che copre le Canarie, l’Andalusia, le Baleari, e la regione di Valencia e Murcia, mentre le vedette sorvegliano la costa atlantica africana fino alla Guinea. Inoltre, il sistema Api (Advanced passenger information) raccoglie dalle compagnie aeree e marittime i dati dei passeggeri non comunitari prima del loro arrivo: risultato, lo scorso anno sono state respinte 24.355 persone. Quanto ai rimpatri degli immigrati espulsi, nel periodo 2004-2007 sono stati il 43,3% in più del precedente quadriennio, e gli arrivi dall’Africa sono diminuiti del 53%. E da aprile 2007 gli extracomunitari che vogliono entrare in Spagna devono avere almeno 500 euro a testa e il biglietto di ritorno pagato.
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E in Italia? “Non vogliamo perseguire singole etnie. Per noi è essenziale la sicurezza del cittadino italiano, e l’Italia ha bisogno dell’immigrazione. Il razzismo è la stupidità dell’anima”, ha detto il ministro delle Politiche Comunitarie Andrea Ronchi, in visita di lavoro a Bucarest nel giugno scorso. “Chi delinque non ha passaporto”, ha concordato il responsabile degli Esteri romeno Lozar Comanescu. Giusto, e eticamente corretto. Resta però il fatto che l’aspetto “sicurezza” ormai viene usualmente coniugato con la caccia al clandestino. Anche se, in realtà, queste persone teoricamente immerse nelle nebbie dell’illegalità le incontriamo tutti i giorni alla luce del sole, dalle colf e le badanti ai venditori di borse e cd, per non parlare della massa dei lavoratori in nero nell’industria, l’agricoltura, l’edilizia, l’abbigliamento, e tanti altri settori produttivi.
Secondo i dati di Unioncamere, i 2,5 milioni di immigrati “in regola” contribuiscono al Pil per il 9,2%. Nel 2007 le domande di regolarizzazione sono state 724.000, ma a questi si devono aggiungere un numero imprecisato di stranieri che non sono stati in grado di presentare quella domanda, ma continua a svolgere un’attività lavorativa. Gli studiosi della Cgia di Mestre, calcolando che i 724.000 ufficialmente censiti producano in proporzione quanto i “regolari”, hanno concluso che il loro lavoro vale almeno il 2% del Pil, circa 30 miliardi di euro, una cifra equivalente all’introito del turismo. Il gettito Irpef e contributivo, senza la quota a carico delle aziende, sarebbe di un miliardo di euro. Una cifra che le rilevazioni del Sole 24 ore, basate su dati Inps, Ismu, Istat e Caritas, fanno salire a circa 2,5 miliardi.
Allora? Allora la conclusione è che il problema è ampio, complesso, e, come dire, ha due corni. Uno riguarda l’utilità, anzi la necessità degli immigrati, di questi stranieri che fatichiamo ancora a capire come dobbiamo vederli, e trattarli. Il secondo corno è il rischio rappresentato da quella percentuale, complessivamente bassa ma ben visibile, che delinque, per bisogno, o per scelta. Su questo piano si scivola quasi inevitabilmente in distinzioni per forza di cose approssimative: i rom, i romeni… E la “percezione” del rischio pesa più del rischio stesso, perché il cittadino, che non è né xenofobo né razzista, ha già i suoi problemi a cui pensare, ed è frastornato dalle voci contrastanti di opposti integralismi. A tale proposito, i “colpevolismi” e i “buonismi” indiscriminati sono egualmente degli ostacoli a una razionale e serena analisi della situazione. Altrimenti avranno sempre più libero corso persino le proposte di soluzioni estemporanee che, anche con le migliori intenzioni, finiscono col generare ulteriore confusione. Per garantire la sicurezza non servono le ronde, nemmeno quelle “democratiche”. E’ invece essenziale – e certo non solo a causa dei clandestini – dotare le Forze dell’ordine dei mezzi adeguati, e questo, beninteso, ha un costo. Se vogliamo parlare seriamente di cose concrete.
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