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Luglio/2008 - Analisi
Unione Europea: prendere o lasciare?
di (a cura di Emilio Belfiore)

Dialogo fra Optimus e Parvus,
cittadini europei
convinti ma delusi


Optimus – Ma è il signor Parvus quello che vedo avvicinarsi! Sempre assorto nelle sue riflessioni, che non mi sembrano liete… Ricorda il nostro ultimo incontro? Subito dopo il vertice dell’Unione Europea del 2007… Se non sbaglio, lei era piuttosto pessimista, sfiduciato. E ora, dopo la brutta sorpresa del “no” irlandese?
Parvus – Brutta senz’altro, sorpresa fino a un certo punto.
O. – Vuole dire che dovevamo aspettarcelo dagli irlandesi?
P. – Inutile prendersela con gli irlandesi. Quel referendum è stato l’esempio di come sia squilibrato il meccanismo del consenso nell’Unione.
O. – Cioè?
P. – In un Paese di 4 milioni di abitanti, il 53% dei 3 milioni di elettori ha partecipato a un referendum nel quale il 53,6% dei votanti ha respinto il Trattato europeo. E questo è stato sufficiente a mettere in crisi l’Ue.
O. – Ebbene, è la democrazia.
P. – Apparentemente. Lo sarebbe se i votanti irlandesi avessero deciso un qualcosa che riguardava solo l’Irlanda. Ma in questo caso hanno deciso anche per altri 400 milioni di europei. Detto questo, ripeto, la responsabilità primaria non è degli irlandesi, bensì di una mancanza di chiarezza iniziale.
O. – Ma non sarebbe utile esaminare anche i motivi del “no” irlandese? Se non altro, per cercare di trarne un insegnamento.
P. – L’Irlanda è tra i Paesi dell’Unione quello che ne ha tratto i maggiori vantaggi, dal 1992 al 2006, 35 miliardi di euro in sussidi. In quindici anni, da terra di emigrazione cronica, ha conosciuto la più forte crescita economica in Europa. Per il Prodotto interno lordo è al secondo posto. Ma è bastata una campagna guidata da un certo Delan Ganley, un miliardario che si è dato alla politica, a suscitare il vento populista del rifiuto.
O. – Se è per questo, anche i nazionalisti erano contro.
P. – Già, il Sinn Fein, il partito dell’annessione dell’Ulster. E i cattolici più integralisti, che temono il contagio del “laicismo” continentale. Figurarsi! E, ancora, conservatori e pacifisti, agricoltori no global e ecologisti. In fondo gli irlandesi non si sono dimostrati molto diversi da altri europei.
O. – Già. Ho letto che in Italia la Lega Nord, che fa parte di un governo favorevole al Trattato, ha salutato con soddisfazione il voto irlandese.
P. – Solidarietà “celtica”, immagino. Del resto, un plauso al “no” di Dublino è venuto anche dall’estrema sinistra italiana. Ma non è questo il punto. Quello che manca è una chiara posizione nei confronti di chi accetta i vantaggi e rifiuta ogni concessione, di chi pensa di poter remare contro e restare egualmente nella barca.
O. – Non è un discorso nuovo.
P. – Certo che non è nuovo. Ma il difetto sta, per così dire, nel manico. Nelle strettoie di un unanimismo obbligato.
O. – Questo significa forse che i cittadini di ogni Paese dell’Unione non avrebbero il diritto di esprimere il loro parere?
P. – Un diritto sacrosanto. Ma dovrebbero anche sapere quali conseguenze produrranno le loro scelte. Questa è democrazia, ed è anche logica. E’ la frammentazione del consenso, per cui 4 vale più di 400, a rendere ingestibile la situazione. Però, va sottolineato che l’Unione si sta sbiadendo, sta perdendo buona parte della sua carica iniziale.
O. – Per colpa, o a causa di chi?
P. – A causa dei tempi, e degli uomini, ovviamente. I tempi, come è loro abitudine, sono cambiati, la globalizzazione, i nuovi poli produttivi, i prezzi delle materie prime, un mercato finanziario fuori controllo, la proliferazione dei conflitti, e tutto il resto. Gli uomini, beh, diciamo che, a essere benevoli, non sono all’altezza dei padri fondatori.
O. – Rimpiange il passato?
P. – Rimpiango il futuro che rischiamo di non vedere. E di assistere invece alla rinuncia dell’unità politica, autentica, dell’Europa, al rinchiudersi nuovamente in se stessi dei vari Paesi.
O. – Unità politica… Forse un progetto troppo ambizioso, utopistico?
P. – No, realistico. Ma, a partire da un certo momento, affrontato con poco senno. Rivediamo il corso degli eventi. Nel 1957, Francia, Italia, Repubblica federale tedesca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, si uniscono della Comunità economica europea, la Cee. Nel 1973 la Cee si apre a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, nel 1981 alla Grecia, nel 1986 a Spagna e Portogallo. Nel 1979 era nato lo Sme, il Sistema monetario europeo, con un euro ancora virtuale. Nel 1992 i 12 Paesi della Cee, con il trattato di Maastricht, decidono la nascita dell’Unione Europea, effettiva dal 1° novembre 1993.
O. – Una decisione storica.
P. – Soprattutto inedita, mai esistita prima. Quando nasce, l’Unione Europea non è una federazione di Stati, come gli Stati Uniti d’America, ma un organismo al quale gli Stati delegano parte della loro sovranità nazionale. Quanta parte? Ecco quello che dovrebbe essere definito rapidamente, in una Carta costituzionale concordata, senza la quale un nuovo soggetto politico non può esistere. Quando ci si mette insieme si stabilisce subito un reciproco contratto.
O. – Fra i dodici di Maastricht.
P. – Esatto, fra i dodici. Una Carta costituzionale che dicesse: questi sono i princìpi dell’Unione Europea, un’entità che nasce da un patto fra dodici Paesi del vecchio continente che vogliono unire le loro forze e le loro speranze, e lo fanno a queste condizioni. Se in seguito altri Paesi europei vorranno entrare nell’Unione, saranno i benvenuti, ovviamente accettando le condizioni stabilite nella Costituzione.
O. – Ma non è stato così.
P. – No, alcuni membri dell’Unione nutrivano in proposito delle riserve, spesso sottaciute. Si potrebbe quasi pensare che avessero aderito al progetto per avere il modo di impedire che si realizzasse pienamente. Così, prima ancora che le regole siano definite, che l’Unione Europea sia solidamente strutturata su basi sicure, si aprono le porte a nuove adesioni, aumentando il numero dei pareri, dei distinguo, dei dubbi su questo e su quello. L’Unione appare sempre di più una complicata macchina burocratica priva di identità. Non a caso tra i cittadini aumenta il numero degli euroscettici, o degli indifferenti.
O. – E adesso che cosa resta da fare?
P. – Se ne riparlerà al vertice di ottobre, e intanto le ratifiche del Trattato proseguiranno. Probabilmente sorgeranno altri intoppi, del resto prevedibili visto il clima politico da pollaio con tanti galli che cantano da mane a sera.
O. – Le sembra praticabile l’ipotesi di un’Unione Europea a due velocità?
P. – Potrebbe esserlo, se fosse un primo passo verso un’integrazione concreta di chi crede fortemente al progetto. Se si andasse verso una Ue veramente unita, solidale, che non dimentichi l’aspetto sociale delle convivenza, che dia a tutti i suoi cittadini la sensazione di essere difesi. Altrimenti, l’incertezza sarà ancora maggiore, e l’Unione avrà sempre di più la fisionomia gelidamente severa, e a volte punitiva, della Banca centrale. Ammettiamolo, come immagine non è il massimo.

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