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Maggio-Giugno/2008 - Contributi
La potestà disciplinare nella Polizia di Stato
di Giovanni Battista Prosperini della Polizia di Stato

La sempre problematica attualità del tentativo di cercare la soluzione delle controversie nei rapporti tra il datore di lavoro (superiore gerarchico) ed il lavoratore (subordinato), l’emergere del fenomeno social-lavorativo del mobbing (vedi G.B. Prosperini Mobbing! origini, filosofie, giurisprudenza e Polizia di Stato, in “Solidarietà di Polizia”, mensile di informazioni, attualità e cultura, Euroedizioni S.r.l., n. 3 aprile 2007) e l’avvenuta promulgazione della legge n. 3 del 2003, la quale all’art. 40, “Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica Amministrazione”, dava delega al governo dell’importante iniziativa di promulgare uno o più decreti legislativi per aggiornare, modificare o riformulare in “toto” il fondamentale (per gli appartenenti alla Polizia di Stato) d.p.r. 737 del 25 ottobre 1981, “Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza e la regolamentazione dei relativi procedimenti” (le bozze dei lavori legislativi presentate non sono mai risultate “soddisfacenti” alle aspettative delle organizzazioni sindacali di categoria ed allo Stato i tempi previsti dalla legge delega sono oramai scaduti da molto, perdendosi così un occasione per tutti ed attesa da tempo per riordinare la materia), fa sorgere la necessità di un momento di riflessione comune sulle origini, i principi e le prospettive future del potere disciplinare in quell’Amministrazione civile però con ordinamento speciale, quale è la Polizia di Stato.
Nei tormentati anni ’80, in attuazione della delega conferita dal legislatore con l’art. 70 della legge 1 aprile 1981, n. 121, “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza” che recitava: “Il governo della Repubblica è delegato a provvedere, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, con decreto avente vigore di legge ordinaria, alla determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale della Amministrazione della pubblica sicurezza e la regolazione del relativo procedimento…”, normativa che abrogava il previgente Regio decreto 30 novembre 1930 n. 1629 (rimasto comunque in vigore per un periodo transitorio e sempre fonte di riferimento per la stessa l. 121/81), il governo provvide ad emanare il d.p.r. 25 ottobre 1981 n. 737, decreto mirato a disciplinare le “Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza e la regolamentazione dei relativi procedimenti”.
Il d.p.r. promulgato, tuttora vigente e mai modificato, risultò composto da quattro titoli: titolo I “Disciplina”; titolo II “Procedimento disciplinare”, titolo III “Procedura per la riapertura del procedimento disciplinare” e titolo IV “Norme transitorie”, per un totale di 31 articoli (le rappresentanze sindacali o del personale, comunque formalmente inesistenti fino alla riforma del 1981, rimasero sostanzialmente estranee alla preparazione del dettato normativo che quindi fu emanato d’imperio dall’esecutivo).
E’ necessario ricordarsi sempre che, a differenza di quanto avviene per le “fonti contrattuali” del restante pubblico impiego, decise con le rappresentanze sindacali e con quelle di categoria, Il decreto del Presidente della Repubblica 737/1981 rientra a pieno titolo tra le fonti primarie del sistema di diritto italiano e può essere modificato solo con atto normativo di pari valenza, non quindi con “semplici” ed evidentemente più facilmente realizzabili accordi di categoria. La sua applicazione però, e proprio per questa sua “rigidità”, dovrebbe avvenire tenendo sempre presente il ricco evolversi legislativo d’interpretazione dell’ultimo ventennio, la numerosa giurisprudenza di settore dei Tribunali amministrativi regionali, nonché del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale. Cosa dire poi del mutato contesto socio-culturare in cui si vive? Sembra ancora attuale per la mera perdita di una tessera di riconoscimento la contestazione della deplorazione come usano fare numerosi organi disciplinari?
L’Amministrazione procedente, inoltre, non si dovrebbe mai dimenticare che la potestà disciplinare nella Polizia di Stato, anche se viene posta in essere a mezzo di un procedimento a tutti gli effetti amministrativo, essendo un contenzioso che viene a ledere delle situazioni giuridiche soggettive che godono di particolare tutela (il lavoratore è da sempre considerato “parte debole” rispetto al datore di lavoro) é ispirata anche dai principi processualpenalistici dell’ordinamento, principi che dovrebbero sempre essere considerati, risulta quindi fondamentale richiamare il principio di legalità, di tassatività delle norme, nonché la valutazione del dolo o colpa nella commissione dei fatti (in merito si richiama Andrea Nannini, Disciplina Illegittima, in “Solidarietà di Polizia”, mensile di informazioni, attualità e cultura, Euroedizioni S.r.l., n. 9 dicembre 2007).
Spesso nelle more dei procedimenti disciplinari vengono dimenticate le cause di giustificazione o scriminanti del singolo incolpato. La forza maggiore o lo stato di necessità, naturalmente dovrebbero escludere qualsiasi responsabilità disciplinare così come l’assenza di dolo (in determinate fattispecie) o di qualsiasi colpa. Ugualmente la mancata attuazione da parte del datore di lavoro (Amministrazione) di quanto necessario (almeno nel minimo) per attuare un certa attività, dovrebbe escludere qualsiasi responsabilità in capo al singolo.
Farà sorridere per la banalità ma, portando un esempio, un forte ed improvviso colpo di vento che fa volare il copricapo d’ordinanza del dipendente o la mancata fornitura degli idonei capi della divisa non può far insorgere un procedimento disciplinare a carico dell’impiegato manchevole nella tenuta dell’uniforme di servizio così come previsto dai regolamenti del Corpo ed estremizzando, una recente sentenza del giudice del lavoro ha scolpito il principio per il quale il dipendente non può essere perseguito se non ha mantenuto l’obbligo contrattualmente preso con il datore del lavoro se il fatto avrebbe messo a rischio la sua incolumità fisica. Ma per un poliziotto?
Anche l’applicazione delle norme disciplinari nel tempo deve rispettare i principi del diritto penale. Nessuno può essere punito per un fatto, che secondo la legge vigente all’epoca della commissione non era considerato illecito disciplinare, nullum crimen, nulla poena sine lege (in merito si richiamano anche interpretazioni contrarie: Il Foro Friulano, rivista dell’Ordine degli Avvocati di Udine, n.4, Udine, 2007), né nessuno può essere punito per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce illecito disciplinare.
Quando le due norme, succedendosi nel tempo, mantengono ferma l’esistenza dell’illecito disciplinare ma differiscono per quanto riguarda il contenuto si deve applicare quella più favorevole all’incolpato, principio del favor rei (Tar Veneto, sent. 379 del 1 giugno 1985).
Importante é anche ricordare che se un dipendente é in quiescenza non può più essere considerato responsabile disciplinarmente o sanzionabile, a meno che il procedimento non sia nato quando era regolarmente in servizio, in questo caso il procedimento potrà-dovrà concludersi, come dovrà concludersi se vi sono ancora dei rapporti economici da valutarsi (ad esempio un periodo di sospensione).
L’articolo 31 del decreto del Presidente della Repubblica 737/81, clausola di chiusura della normativa, prevede che: “Per quanto non previsto dal presente decreto in materia di disciplina e di procedura, si applicano in quanto compatibili, le corrispondenti norme contenute nel Testo Unico degli impiegati civili dello Stato, approvato con d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3.” Analogamente anche il d.p.r. n. 335/82 (Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia) al titolo II (Nome particolari di Stato), art. 47 (Diritti e doveri), tra i doveri previsti per il personale della Polizia di Stato, impone quelli generali del “Testo Unico degli impiegati civili dello Stato”.
Con questi richiami, il legislatore, timidamente, parrebbe aver voluto mantenere un legame ed una disciplina di base comune tra il personale della Polizia ed il restante pubblico impiego, come a sottolinearne l’appartenenza allo stesso insieme, intento però rimasto formale o disatteso in peius , sia per la differenza tra i due “sistemi di lavoratori” sia con le successive riforme che hanno privatizzato il pubblico impiego in genere.
Concludendo, la potestà disciplinare dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza deve quindi rapportarsi quotidianamente con un coacervo di fonti normative: il Regio decreto 30 novembre 1930 n. 1629 (ispiratore); il d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3 o “Testo Unico degli impiegati civili dello Stato”; la legge 1 aprile 1981 n. 121 “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza” e successive modifiche (come da ultima il d.lgs. 28 febbraio 2001, n. 53); ild.p.r. n. 335/82 “Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia”; il d.p.r. 28 ottobre 1985, n. 782 “Approvazione del regolamento di servizio dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza” nonché leggi speciali, Codice Penale e di Procedura Penale (da segnalare la particolare dipendenza disciplinare degli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria prevista dal vigente C.p.p.) ed il fondamentale prodotto giurisprudenziale sia della giustizia amministrativa che di quella del lavoro.
Un insieme di normative di base, come sollevato da più parti, basate su concetti oramai datati, necessarie di un aggiornamento e coordinamento ed in alcuni casi di dubbia legittimità costituzionale, pertanto inadeguate rispetto alle realtà ed esigenze di una moderna organizzazione di uomini e mezzi quale la Polizia di Stato, organismo che bisogna precisare, non ha neppure un codice deontologico proprio (in merito si veda G. B. Prosperini, Codice etico per una polizia democratica, “Polizia e Democrazia”, mensile d’attualità e informazione per i problemi dell’ordine e della giustizia, Editrice d.D.E., 2005) e per il quale (previsione normativa) non può applicarsi quello dei pubblici dipendenti (art. 1 D.p.c.m. 28 aprile 2000).
La mancata promulgazione dei decreti legislativi riformatori da parte del governo della passata legislatura ha fatto sì che si venisse a perdere un’importante occasione per l’attuazione delle riforme necessarie, riforme nel concreto ed a grandi linee, potrebbero prendere due indirizzi: il primo é quello di una reale valutazione delle necessità-esigenze e quindi caratteristiche della Polizia di Stato, quale Amministrazione “diversa” dal restante comparto Ministeri, con una disciplina a sé stante (ma con, necessariamente, un riconoscimento di fatto della specialità del tipo d’attività ed obblighi derivanti), l’altra (forse più attuabile) con l’applicazione dei riti ordinari (conciliazione e giudice del lavoro) come per la restante parte dei dipendenti pubblici (fatte salve alcune categorie rimaste escluse dalla privatizzazione), tenendo sempre presente che la Polizia di Stato è Forza di polizia civile e democratica e non più organismo militare.

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