Mahmoud è un “ragazzo” della mia età, una “testa calda”, passionale e convinto della serietà della lotta palestinese contro gli israeliani. Non è di molte parole, ma si fida a parlare con me. In paese lo conoscono tutti, e lo rispettano, è un eroe dell’intifada, uno che ha passato gli ultimi 50 mesi in una prigione israeliana. Sostiene di essere stato umiliato verbalmente, privato del cibo e torturato.
Hai combattuto l’intifada?
Entrambe, sia quella dell’87, sia quella di al-Aqsa.
Come è iniziata la prima?
Degli operai provenienti dalla Striscia di Gaza furono investiti da un colono israeliano mentre andavano a lavorare, delle persone hanno iniziato a lanciare sassi e l’esercito israeliano ha risposto con le pallottole.
Cosa è stata l’intifada per te?
Resistenza. Contro l’esercito israeliano che continuamente minacciava noi, le nostre famiglie, la nostra sicurezza e il modo di vivere.
Avevi paura?
Mi aspettavo di essere ammazzato ogni momento, ma non avevo paura di morire.
Cosa ti dicevano i tuoi genitori?
A loro dispiaceva quando tornavo a casa ferito, però mi sostenevano nella lotta e mi incoraggiavano ogni giorno.
Ti hanno ferito?
Mi è andata bene mi hanno ferito solo tre volte, con proiettili di gomma, fanno male ma non uccidono.
Ti hanno mai sparato con proiettili veri?
Forse sì, ma non mi hanno preso.
La lotta era organizzata?
All’inizio no, ci mettevamo d’accordo la sera per la mattina sul punto dove colpire.
E se non trovavate nessuno?
Basta innalzare la bandiera palestinese e i soldati israeliani arrivavano subito.
Come vi sentivate durante i combattimenti?
Frustrati. Non avevamo vere armi per combattere, solo i sassi.
Spesso ai soldati israeliani urlavamo di mettere giù i fucili e di combattere da uomini ad armi pari. Non l’hanno mai fatto, rispondevano sparandoci.
C’era qualcuno che non partecipava?
No, eravamo tutti in strada a combattere.
Le ragazze, vi ammiravano?
Non solo ci ammiravano, erano con noi a lanciare pietre.
Cosa è mancato?
Non avevamo mezzi di trasporto, comunicazioni, neanche le scarpe giuste per correre. Non avevamo soldi neanche per acquistare la stoffa per fare le bandiere.
Dall’estero non arrivavano soldi?
Non che io sappia, è stata una battaglia tutta palestinese, a volte per strada la gente ci riconosceva e ci dava dei soldi per finanziarci.
Eri parte di un gruppo?
Sì
Quale?
Non posso dirtelo.
Eravate organizzati?
I primi due anni no, poi abbiamo iniziato a coordinarci con altri gruppi, si sono formati i responsabili delle varie zone e la lotta è stata molto più efficace.
Un episodio particolare?
Ci stavamo cambiando i vestiti per andare a combattere, eravamo in strada ed avevamo messo una vedetta per avvisarci nel caso arrivassero i soldati israeliani. Ad un certo punto la nostra vedetta ci urla e due camionette piombano su di noi, iniziamo a scappare in ogni direzione praticamente in mutande e per tutto il paese. Quando ci siamo ritrovati al sicuro tutti ancora svestiti e con i pantaloni in mano, abbiamo riso fino a sentirci male.
Alla fine chi ha vinto?
Noi, almeno la prima intifada, abbiamo dimostrato al nemico che non abbiamo paura di loro.
Se scoppiasse una nuova intifada cosa faresti?
Adesso aiuterei, coordinerei le battaglie, sosterrei chi scende in strada, li aiuterei con la mia esperienza nel miglior modo possibile.
Cosa diresti a tuo figlio che scende a combattere l’intifada?
Lo lascerei fare. Gli direi solo di stare attento a non farsi prendere e di essere un miglior combattente di quanto non sia stato io. Vorrei che continuasse fino alla liberazione di tutta la Palestina.
Ci ripensi mai?
(Sorride come chi pensa alle gesta di cui è orgoglioso) Ci ripenso sempre e sono contento di quello che ho fatto anche se sono triste perché la Palestina non è ancora libera. Poi ripenso a tutti i martiri uccisi in battaglia e ai prigionieri degli israeliani e ci sto male.
Cosa diresti al soldato israeliano che ti ha ferito?
Tra di noi non ci sarà mai pace, dovete lasciare la Palestina.
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