Lo Yad Vashem è più di un semplice museo: è un insegnamento. E’ la prova del nove della nostra ignoranza e della nostra superficialità.
Prima di entrare nei suoi percorsi, si pensa di sapere cosa è stato l’olocausto per gli ebrei, si pensa di poter immaginare, almeno in linea teorica, la sofferenza di quegli sfortunati che hanno visto l’occupazione nazista. Lo Yad Vashem insegna che ci sbagliamo; bisogna visitarlo prima di capire. Non sono i monumenti celebrativi all’esterno che fanno la differenza e neanche la valle dei giusti, (tutti quelli che hanno aiutato gli ebrei durante la Shoah), forse neanche la carrozza bestiame che portava le persone nei campi di sterminio, ci aiutano a comprendere.
Il museo non ospita cose antiche o preziose, ma utensili di tutti i giorni, non pitture di grandi artisti, ma foto sbiadite di fotografi improvvisati. Il museo mostra la sofferenza. La sofferenza di uomini, donne e bambini, esseri umani che, come noi, avevano sogni, aspirazioni, desideri. Gente che amava, odiava, pregava, mangiava, faceva sport o insegnava. Gente che, come noi, aveva braccia, gambe, occhi, fegato, polmoni, cuore che vestiva alla moda o a gusto personale. Quei soggetti che tanto assomigliano ai nostri parenti lontani, ai nonni e ai bisnonni che abbiamo imparato a conoscere tramite vecchie immagini color seppia.
A guardarli bene quelle persone siamo noi. Fino a che qualcuno non ha deciso che fossero una razza inferiore, sporchi ebrei dalle gambe storte (definite in questo modo sul Mein Kampf), e meritassero lo sterminio. Improvvisamente quella gente era diversa, un cancro da asportare, non più una parte vitale dell’organismo sociale ma un corpo estraneo. Persone da misurare secondo standard “ariani”, da usare per esperimenti di “aviazione”, da far lavorare fino alla morte o semplicemente uccidere perché inutili. Persone da odiare, anche se erano fanciulli che non potevano far male a nessuno.
Un odio che non arrivava inaspettato, da secoli gli europei “tolleravano” gli ebrei, come si tollera un paio di scarpe strette. Ad un certo punto quel dolorino è stato individuato e le scarpe sono volate via, con un sospiro di sollievo.
In Europa (per non parlare del mondo arabo) c’era (e c’è ancora) gente che credeva sul serio nel progetto di dominio del mondo da parte dei giudei, della loro avidità, dei sacrifici di sangue, del potere economico occulto, della messa a morte di Gesù (e per questo il Marchese del Grillo era ancora arrabbiato). Gli ebrei: quelli da accusare quando le cose andavano male, il capro espiatorio. Gente da confinare nei ghetti. Solo entrando allo Yad Vashem ci si rende conto che in quei ghetti ci poteva essere chiunque di noi, i nostri figli o i nostri amici. L’ebreo è l’icona di quanto la presunzione di diversità può essere presa a pretesto, per trovare il colpevole a tutti i costi, il pericolo che inquina il nostro ambiente.
I volti delle persone ritratte nelle foto ci dicono il contrario, una religione, una pelle più pigmentata o l’occhio di diversa forma, non fanno di una persona un “diverso” che diventa automaticamente cattivo.
Lo Yad Vashem insegna quanto le costruzioni propagandistiche, la stupidità e l’odio siano pericolosi e quanto possano colpire ognuno di noi, a seconda dei luoghi e delle culture. Essere un Wasp (White anglo saxon protestant) non ci salva dal razzismo degli afroamericani di Harlem ed essere nord o centro-africano non ci risparmia dal razzismo dei sudafricani neri. Essere bianchi ed europei non ci ha salvato dal razzismo dei belgi.
Lo Yad Vashem ci spiega di come parliamo con troppa sufficienza dell’Olocausto, dello Stato d’Israele e del comportamento degli israeliani. Lo Yad Vashem ci dice anche di come speculare sulle sofferenze degli altri per avvantaggiarsi nella propria posizione, sia sbagliato. Lo Yad Vashem ci insegna che l’olocausto è stato sofferto dagli ebrei, ma deve essere pianto da tutta l’umanità come icona dei propri orrori, e di quest’ultima ne costituisce un patrimonio inscindibile se vogliamo progredire nel nostro percorso di vita.
Lo Yad Vashem insegna quanto gli ebrei si siano sentiti ospiti, e se l’ospite è come il pesce, puzza dopo tre giorni, dopo duemila anni gli europei gli hanno fatto capire quanto erano di “troppo”. Lo Yad Vashem insegna quanto lo Stato d’Israele significhi per il popolo ebraico, non solo come madrepatria ma come unico luogo dove nessuno li “tolleri”. Lo Yad Vashem ci insegna che dentro di noi c’è un ebreo, e chi nel corridoio delle luci (ogni luce rappresenta un minore deceduto), non piange i bambini morti nella Shoah come fossero i propri, vuol dire che ancora non l’ha capito.
[Una presentazione delle foto del reportage da Israele è disponibile su Youtube]
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Ringraziamenti
Colgo l’occasione di ringraziare per la disponibilità e per l’aiuto ricevuto l’Ambasciata Palestinese di Roma, l’Ambasciata Israeliana presso lo Stato Italiano, l’Ufficio Comunicazione dell’Ordine di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, le sezioni Italiana e Israeliana dell’International Police Association, l’Ufficio Stampa del museo Yad Vashem, la chiesa francescana e quella siro-ortodossa di Gerusalemme, il dott. Ahmad Salami Kabaha di Ramallah, l’ingegner Nabil Attal di Dura al-Khalil, il dott. Jawad Seyyed di Hebron, Khalid al-Zeer il mio taxi driver di Betlemme.
E’ auspicabile che a questo reportage, che ovviamente non pretende di esaurire l’argomento Israele/Palestina, ma ne tocca solo alcuni aspetti, seguano commenti, anche molto critici, e comunque spunti di riflessione su un conflitto che dura da troppo tempo.
Chi vuole, scriva a: redazione@poliziaedemocrazia .it oppure a Leandro_wasp@yahoo.com
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