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Maggio-Giugno/2008 - Articoli e Inchieste
Israele/Palestina
Sui cammini di Gerusalemme
di Leandro Abeille

La Striscia di Gaza e la Cisgiordania potevano
costituire uno Stato palestinese dal 1948
se gli arabi avessero accettato la presenza
di Israele, secondo la decisione
dell’Onu. Da allora si sono susseguiti
errori, menzogne, incomprensioni, inganni
da più parti e con finalità diverse

Immaginate di recarvi all’estero per una settimana, immaginate di essere discriminati per la vostra religione e razza, immaginate di essere accusati, senza essere veramente colpevoli di aver ucciso il figlio di Dio. Il rientro nella vostra casa, dove nessuno vi maltratta o accusa, sarebbe la cosa più desiderata al mondo. Israele rappresenta un sogno per milioni di ebrei da centinaia di anni. La terra in cui ritornare ed iniziare a vivere, al di fuori degli sguardi malevoli di nazioni che li hanno ospitati ma mai accettati, un posto dove essere al sicuro dalle razzie, un posto dove nessuno potesse essere discriminato o deportato solo perché circonciso, un posto dove nessuno, in nome della superiorità ariana, faccia morire per fame, stenti o camere a gas sei milioni di persone. Israele è la grande idea di Herzl ma anche il frutto delle piccole idee di tutti e giorni di un popolo laborioso che, dopo secoli di viaggi e di morti, è tornato finalmente a casa. Trovandola occupata.

Palestina: Israele e la Cisgiordania
La Palestina è un luogo dove per secoli gli uomini sono morti, per disperdere i seguaci dell’unico Dio come fecero i Romani nel 70 d.C. o per conquistare il luogo più santo di tre religioni, come fecero i crociati o il Saladino, non per accaparrarsi ricchezze ma per il simbolo: dominare il luogo di mille rivelazioni divine.
La Palestina è stata per duemila anni una regione e mai una nazione, parte di un vasto impero come quello ottomano o di un’amministrazione fiduciaria come quella inglese. Sempre dominata, mai libera. E’ il ritorno degli ebrei a Sion che fa, di una parte della Palestina, una terra libera, una nazione che prende il nome di Israele. Quello che resta della Palestina diventa Giordania ed Egitto. La Palestina rimane solo come un’idea, neanche più una regione. Corre l’anno 1948.
Immaginate di rientrare in casa e di trovarla occupata, non solo, neanche il tempo per sdraiarsi sul divano che i vostri vicini tentano di ricacciarvi via. Questa è la storia d’Israele e dei vicini arabi che, dal 1948 al 1973, hanno tentato di ricacciare gli ebrei nel mare da dove erano venuti.
Una volta che i governi arabi hanno capito che Israele era un osso troppo duro, hanno tirato i remi in barca dal punto di vista militare ed hanno aiutato i palestinesi nella loro lotta politico-terroristica. Alla fine anche i più scettici, i palestinesi, hanno capito che gli israeliani non si sarebbero mossi e forse sarebbe stato meglio riconoscerne lo Stato e la presenza. Dal 1948 a questa presa di coscienza sono passati più o meno 50 anni. Anni in cui Israele è diventato, grazie alle conquiste militari, molto più grande di quello che le Nazioni Unite avevano stabilito. Si estende dal Libano all’Egitto e la capitale è a Gerusalemme, la città di re David e di suo figlio Salomone.
Tra le guerre ed un mondo arabo che non smette di essere razzista ed antisemita, sono rimasti i palestinesi gli unici ad aver perso veramente qualcosa. Un popolo di profughi, di contadini e allevatori, terroristi e di disperati che vorrebbero solo starsene in pace a casa loro. Casa che non esiste più e forse non è mai esistita. A nessuno importa di loro, sono sempre stati sottomessi. Quello che oggi chiamiamo “Cisgiordania” è stata dal 1948 al 1967 annessa alla Giordania della monarchia Hashemita, la quale, in 19 anni di dominazione si è ben guardata da concedere l’indipendenza ai palestinesi. Quella che oggi chiamiamo “Striscia di Gaza”, sempre dal 1948 al 1967 era annessa all’Egitto, il quale, non ha mai concesso nessuna autonomia ai palestinesi. Tra il 1948 ad oggi i Palestinesi sono assorbiti all’interno di nazioni amiche, almeno a parole, sbandati, senza la possibilità per farsi sentire: profughi.
E’ stato talmente forte lo shock di “al-naqba” (la catastrofe), l’arrivo degli ebrei in Palestina, con la successiva presa di alcuni territori non a loro assegnati e la guerra del 1948, che i palestinesi non hanno neanche avuto la forza di capire che i loro ex padroni arabi li stavano prendendo in giro. Preparavano la guerra ad Israele senza nessuna intenzione di concedere una vera nazione al popolo palestinese. La priorità per la gente di Palestina era di ricacciare indietro il nemico, e per farlo non disponendo di un esercito, di comandanti e nemmeno di illuminati politici, si sono rivolti a coloro che consideravano fratelli, ma questi, conoscevano già l’appartenenza nazionale ed il significato di “interesse nazionale”.
La Striscia di Gaza e la Cisgiordania potevano essere palestinesi con tanto di Stato e Costituzione dal 1948 se solo gli arabi avessero voluto ed accettato lo “Stato d’Israele” al fianco di uno Stato arabo-palestinese, non si sarebbero combattute tre guerre (quella per il canale di Suez non fu una vera guerra), e forse il terrorismo non avrebbe provocato tante morti. Anche bin Laden, ora, avrebbe molto meno di cui s-parlare.
Nessuno ha mai voluto realmente risolvere la “causa palestinese”, e nel 2008, a 60 anni dalla fondazione d’Israele, i palestinesi non hanno ancora uno Stato.
Dal 1948 al 1967 la società palestinese si è ristrutturata, i deportati, i rifugiati e gli espatriati hanno iniziato a studiare, girando per il mondo hanno acquisito nuove idee e nuova coscienza di sé. Hanno capito di essere da soli.
Combattono una guerra senza esclusione di colpi contro Israele, con la guerriglia ed il terrorismo di stampo politico ma senza sortire effetti territoriali. Alla fine, dopo il crollo del muro di Berlino, qualcosa cambia, i due nemici iniziano a riconoscersi e dopo migliaia di lutti gli uni accettano Israele e gli altri la Palestina. Sembra pace fatta e ad Oslo iniziano dei delicati accordi di pace.
Neanche il tempo per tirare il fiato che qualcuno inizia a seminare morte in Israele con attacchi suicidi a ripetizione. Gli attacchi sono messi a segno da chi, un tempo, era considerato quasi positivamente dagli israeliani, quando era una spina nel fianco del partito di Arafat, al-Fatah, ma si sa le spine pungono chiunque ed Hamas da entità caritatevole era diventata terroristica.
L’esercito israeliano invade le città palestinesi mentre, tra uno shaid e l’altro, accordi di Oslo e la “Road map”, scoppiano due “intifada”.
Ancora una volta, lutti tra la popolazione civile, omicidi mirati e i soliti “danni collaterali”, Israele decide per una soluzione finale: proteggersi dietro ad un muro alto 5 metri con una torretta ogni 200, pieno di telecamere e con pochi varchi, guardati da centinai di soldati armati. Dove non c’è il muro c’è una doppia recinzione, la seconda è mortalmente elettrificata.

Il muro
Gli europei e persino la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, hanno tutti un’idea univoca sul muro: è illegale. Nessuno lo vuole e tutti ricordano il muro di Berlino. Nessun berlinese però faceva attentati suicidi a Bruxelles, mentre il sangue degli attentati terroristici, bagna ancora le strade israeliane. Il muro di difesa è un argomento scottante, tutti dicono tutto ed il suo contrario. Frequentandolo, anche se da giornalista, rimane particolarmente antipatico.
Un muro di apartheid, così viene percepito dalla popolazione palestinese, un muro di sicurezza invece per la gente d’Israele. Per gli israeliani il muro funziona, dalla sua costruzione gli attentati dei kamikaze che facevano strage nelle strade di Tel Aviv o Gerusalemme, sono scesi vertiginosamente di numero, anche se non si sa se per cambio di strategia dei terroristi o per reale efficacia della costruzione. Per i palestinesi è un muro che divide, non con gli odiati nemici, ma con le proprie famiglie ed amicizie che sono rimaste dall’“altra parte”, famiglie intere (le famiglie arabe sono molto allargate) non si frequentano da anni, perché una parte vive ad esempio a Gerusalemme e l’altra a Betlemme: 12 chilometri di distanza. Il muro divide da un territorio, Israele, che i palestinesi sentono ancora proprio. L’accesso nel territorio ebraico è permesso solo ai palestinesi con un permesso di lavoro israeliano, mentre per i cittadini con la stella di David, ad esclusione dei coloni, la Palestina è off-limits. Il muro spesso taglia le città in due ed i cittadini non possono passare dall’altra parte. Per nessun motivo e senza eccezioni.
Un bambino nato prematuro, trasportato dall’Ospedale dell’Ordine di Malta di Betlemme, presso un ospedale di Gerusalemme, è arrivato fino al muro con l’ambulanza dell’Ordine, trasportato con tutta l’incubatrice sull’ambulanza israeliana e con quella è arrivato sano e salvo a Gerusalemme. In un caso opposto, il trasporto da un mezzo all’altro, è stato fatto senza incubatrice. I medici dell’Ordine di Malta hanno preso il bambino (prematuro) dall’ambulanza israeliana facendo, in inverno, il cambio d’incubatrice praticamente all’aperto. Il tutto sotto lo sguardo dei militari israeliani. Bambini o vecchi, per passare il muro, le file sono lunghe, i controlli meticolosi ed i soldati non sempre gentilissimi. Verso le 4 o le 5 di mattina ci sono le code più lunghe, a causa dei lavoratori palestinesi che si recano in Israele.
Girando intorno al confine, dopo qualche giorno, si capisce che il muro è un problema per i palestinesi, non tanto per la visita l’anno che avrebbero potuto fare ai parenti lontani, neanche per il senso di “apartheid” che ispira, quanto per l’ostacolo che rappresenta al libero commercio con Israele e per il passaggio della manodopera. In buona sostanza il “crimine” addossato al muro non è quello di dividere le popolazioni ma di bloccare l’economia palestinese che vive anche in funzione di quella israeliana. In Palestina non c’è lavoro mentre in Israele non manca, tanto che è diventato un Paese di immigrazione (non dai Paesi arabi ma dall’Oriente, filippine in testa). In Palestina la disoccupazione è stabilmente intorno al 20% il tasso di crescita è in negativo (-8%) e il reddito pro-capite è di circa 2.000 dollari l’anno, in Israele la disoccupazione è intorno al 7%, il tasso di crescita del 6% circa e il reddito pro-capite è di 30.000 dollari annui. Un poliziotto palestinese guadagna 1500 sheckel al mese, uno israeliano 8.000, un muratore palestinese guadagna 150 sheckel al giorno, uno che lavora in Israele non meno di 300. In queste condizioni molti più lavoratori palestinesi, rispetto a quelli autorizzati dal governo israeliano, vorrebbero lavorare in Israele, ma il muro è, per loro, impenetrabile.
Tra Betlemme e Ramallah molte persone, in strada, mi dichiarano che se gli israeliani si fossero costruiti il muro intorno a Tel Aviv loro non avrebbero avuto nessun problema ad aiutarli. Spiegazioni diverse dai politici e il motivo più verosimile tra quelli addotti per il rifiuto del muro è che esso non sia nei “giusti” confini, in quanto non sono ancora mai stati, con precisione, discussi in nessun trattato.

I Coloni
Arrivando in Israele ero convinto che lo Stato di David finisse dopo il muro, che lo stesso fosse stato costruito usando criteri un po’ “partigiani” come il tiro della pallina nel calcio-balilla, ma che alla fine fosse un confine. Non lo è. Un confine è stabile, il muro no. Sembra la fortificazione che si usa in “Age of Empires”, c’è una risorsa? La acquisisci costruendogli attorno la tua barriera difensiva. Nei pressi del muro, al valico di Betlemme, c’è un edificio dei Cavalieri di Malta: quando fu acquisito dall’Ordine si trovava in Palestina, adesso è dietro il muro: in Israele.
Concedere dei piccoli pezzi di territorio in cambio della libertà non sarebbe un problema per nessuno se da una parte ci fossero i palestinesi e dall’altra gli israeliani, la condizione economica si potrebbe risolvere, sarebbero divisi e nessuno tenterebbe più di ammazzare l’altro: purtroppo non è così. Uno sparuto gruppo di ebrei, perlopiù religiosi, seguaci dell’antico regno di Israele, ha deciso, di costruire degli insediamenti in pieno territorio palestinese. I “settlers” vivono nella terra d’Israele storica, quella dei tempi del vecchio testamento biblico. I circa 200.000 coloni sostengono di aver comprato la terra dai palestinesi, quest’ultimi sostengono che la terra sia stata illegalmente occupata. La cosa più probabile è che i coloni abbiano pagato la terra a quei palestinesi che avevano la documentazione catastale di proprietà, mentre abbiano semplicemente occupato dove la documentazione non esisteva. Dall’altro canto, i palestinesi da millenni hanno venduto ed acquistato terre con i sistemi tradizionali, un accordo tra famiglie con testimonianza del notabile del paese, senza alcuna variazione al catasto che in certi posti neanche esiste. Tuttavia se i coloni avessero comprato tutta la terra che abitano, questa non la promuoverebbe automaticamente terra d’Israele, rimarrebbe Palestina. Invece sta succedendo il contrario, a causa della presenza dei coloni, il muro, ancora in costruzione, annette ampie fette di territorio palestinese. Tuttavia un “ecomostro” da 3.000.000 di dollari al chilometro non può arrivare ovunque e lascia il compito di garantire la sicurezza all’esercito israeliano che controlla le zone degli insediamenti e le vie di comunicazione da un insediamento all’altro. Ovviamente i palestinesi non sono contenti di avere coloni ed esercito israeliano, e quando possono compiono attentati. Per tutta risposta Israele prende il controllo delle strade e moltiplica i check-point dove normalmente un palestinese trascorre già un paio di ore al giorno.
Per mantenere la sicurezza, gli israeliani hanno costruito basi e strade tra i diversi insediamenti in tutta la Cisgiordania, che controllano attraverso centinaia di check-point militari. Neanche a dirlo, la fila a questi check-point è sempre lunga, e ad aspettare sono sempre e solo palestinesi, in quanto i coloni utilizzano perlopiù i circa 300 km di strade a scorrimento veloce, costruite dal governo israeliano, che permettono di arrivare (senza interruzioni) in altri insediamenti o in Israele. Per gli automobilisti palestinesi, uno spostamento di qualche chilometro può durare anche 4 ore, troppe, in casa propria. I soldati israeliani, ragazzi poco più che teen-ager, sono gli onnipotenti padroni della viabilità palestinese, sono così famosi (e famigerati) che le giustificazioni per i ritardi agli appuntamenti che, una volta, i palestinesi trovavano in vari modi, ora sono monotematici: la colpa è sempre dei i check-point. Con il check-point di mezzo, a volte si arriva in ritardo ad un appuntamento, a volte non si arriva proprio, perché magari l’esercito israeliano decidere di chiudere una strada e l’unica soluzione è tornare al punto di partenza.Gli automobilisti palestinesi sono diventati famosi per le “allungatoie” ,prendono delle strade secondarie che li portano a destinazione “solo” facendo una ventina di chilometri in più: trenta anziché dieci”.

Il processo di pace
Israelo-palestinese: i problemi
irrisolti
In Palestina è stata attuata una politica cieca, fatta di veti e di atti unilaterali. Al terrorismo si è risposto con campagne militari, ai fatti con le parole, sempre più spesso vuote. Nel mondo si è pro o contro Israele, come se fosse un derby di calcio, dove l’importante è vincere anche per un rigore inesistente. La gente è morta, muore e morirà per l’incompetenza delle Nazioni Unite, i veti Usa e le vuote dichiarazioni dell’Unione Europea, più attenta al contenuto di diossina delle bufale che alle sofferenze di israeliani e palestinesi. Tutti vogliono la pace, a parole. Nessuno scende in campo per negoziare seriamente ed in maniera definitiva. I punti salienti vengono sempre rimandati. I nodi del processo di pace sono semplici quanto stringenti, probabilmente sarà il caso di affrontarli se non si vuole che il popolo palestinese rimanga chiuso, stretto tra il muro e l’occupazione, in “riserve” piene solo di miseria e terroristi.
I punti salienti sono cinque: l’economia, i profughi, gli insediamenti, l’occupazione e il muro. La prima si può sviluppare, bastano i soldi: quelli che i ricchi Paesi arabi scialacquano, salvo poi ricordarsi dei “fratelli” palestinesi quando devono fare demagogia. Ai palestinesi serve un’economia autoctona, non a rimorchio degli israeliani: è importante che la Palestina diventi uno stato libero anche economicamente.

Profughi
I profughi della guerra del 1948 sono diventati circa 5.000.000, sono poveri, ostaggi delle mafie interne e dei terroristi, creano problemi ovunque siano, c’è da ricordare gli scontri di un anno fa in Libano e non ritorneranno mai nelle proprie case. Questi profughi provengono tutti dai territori che sono da 60 anni israeliani ed in nessun caso, lo Stato d’Israele permetterà il loro rientro. Gli israeliani sono meno di 7.000.000, di cui un milione sono arabi, se 5.000.000 di profughi tornassero in Israele, lo Stato ebraico non esisterebbe più. Spesso, al di fuori dell’ufficialità, i palestinesi tirano fuori l’argomento crescita demografica, gli israeliani hanno un indice di natalità di 2,38 figli per donna (le israeliane arabe alzano un po’ la media), per le donne palestinesi l’indice è di 4,17. Dovranno aspettare – dicono – molto meno di quanto hanno aspettato gli ebrei per ritornare, prima di vedere un Israele quasi completamente arabo. E loro sanno aspettare, aggiungono maliziosamente.

Insediamenti
Il problema degli insediamenti forse è il più complesso: i coloni non abbandoneranno mai le loro case. Seguono l’Israele storico-religioso, gli insediamenti sono ben costruiti e all’interno ci si vive bene. Sono supportati dai partiti religiosi all’interno del sistema politico israeliano ed anche da molti conservatori.
Israele è un Paese democratico ed è estremamente difficile che un governo abbia mai la forza di far smobilitare i coloni; è più facile che gli italiani paghino tutti le tasse, piuttosto che questi retrocedano. Gli insediamenti continueranno a svilupparsi, portandosi dietro tutta la macchina di sicurezza israeliana.

Occupazione
La Palestina è ancora divisa in zone: “A” sotto il totale controllo palestinese come a Ramallah (attuale capitale), “B” a controllo misto (militare israeliano e civile palestinese) e “C” sotto il totale controllo israeliano (civile e militare) come Hebron. Nelle zone “C” non si muove foglia che Israele non voglia, anche per costruire una stalla ci vuole il permesso delle autorità con la stella di David.
Gli israeliani non si fidano della sicurezza palestinesi, per questo motivo sono in Cisgiordania e a Gaza, per imporre con l’esercito la sicurezza dei cittadini che vivono vicino al confine. Se nei confronti di Gaza non hanno tutti i torti, visto che i razzi arrivano sulle città di confine quotidianamente, per la Cisgiordania il discorso è diverso. Nessun razzo è mai arrivato da Nablus contro Tel Aviv e nemmeno dalla Hebron palestinese contro quella israeliana. Il ritiro dell’esercito dai territori occupati esporrebbe i coloni al pericolo, nonostante i proclami, né la Polizia né l’esercito di Abù Mazen sembrano in grado di assicurare la sicurezza di un israeliano in Palestina.

Il Muro
E’ stato appena costruito, una parte è ancora in costruzione difficilmente, per usare un eufemismo, verrà abbattuto. Non ci sono i presupposti alla sua inutilità, dal punto di vista della sicurezza funziona e gli israeliani non rinunceranno ad un grammo di sicurezza, solo per facilitare il libero passaggio di lavoratori palestinesi.

Le Nazioni Unite?
Le Nazioni Unite non sono un problema. Neanche una soluzione, a pensarci bene. Non sono e basta. I palestinesi si lamentano che l’Unrwa non fa abbastanza, impiegata dal 1948, a fornire assistenzialismo ma nessun concreto futuro ai profughi, che invece avrebbero bisogno di una riforma agraria, di edilizia popolare di investimenti sul lavoro. Gli israeliani si lamentano perché sarebbe un rifugio per i terroristi. I report del Middle East Media Research Institute fanno riferimento ai libri usati nelle scuole palestinesi pieni di richiami al Jihad e con lezioni distorte di geografia e storia. Israeliani e palestinesi sono d’accordo nel giudicare gli stipendi dei dirigenti Unrwa comunque troppo alti.

Come si è arrivati a questo punto?
La sconfitta militare araba ha fatto dei palestinesi un popolo. Prima del 1967 i palestinesi erano semplicemente arabi, più istruiti della media, con una maggior concentrazione di persone di religione cristiana, ma sostanzialmente arabi. Erano palestinesi allo stesso modo di come oggi gli abitanti di Bergamo sono padani. Avevano sicuramente una coscienza regionale ma non un’identità nazionale come la si intende in Europa. Il loro obiettivo è stato per anni ricacciare gli ebrei in mare, con la forza delle armi e con l’aiuto dei fratelli arabi, e non l’avere una nazione. Con il passare del tempo hanno dovuto riconoscere, per forza, lo Stato d’Israele, non avevano più i vecchi alleati, la guerriglia ed il terrorismo politico avevano fallito, l’Urss la grande amica, era collassata, gli arabi evaporati, ed hanno capito che non c’era alternativa alla presenza ebraica.
Negli anni hanno sbagliato tutte le alleanze, amici dei nazisti durante la Seconda guerra Mondiale, amici del patto di Varsavia durante la guerra fredda, amici di Saddam durante la guerra del Golfo. Non ne hanno azzeccata una. Israele ha sempre sfruttato a proprio vantaggio gli errori politici dei palestinesi, le due intifada hanno permesso agli israeliani di invadere la Cisgiordania e Gaza, l’elezione di Hamas che ha messo in discussione gli accordi presi da al-Fatah hanno permesso agli israeliani di continuare con la politica degli insediamenti, gli attacchi suicidi hanno permesso di tirar fuori la soluzione del muro.
Girando per le strade della Cisgiordania e parlando con la gente si scopre che l’idea di “buon vicinato” che hanno i politici non è la stessa che ha la gente comune. I palestinesi odiano gli ebrei ed è anche comprensibile (ma non condivisibile), gli israeliani non vedono l’ora di toglierseli da torno, ed anche questo è comprensibile (ma non condivisibile).
In più la politica palestinese è divisa, in due maggiori partiti, al-Fatah ed Hamas, sostenitori di due differenti visioni degli accordi con Israele, sono più vicini allo scontro di quanto si pensi. Mentre ero a Ramallah, nel super blindato quartiere dei ministeri, per aver scattato una foto ad un’auto dell’esercito che sfrecciava in sirena, sono stato arrestato ed interrogato. L’ufficiale che mi ha interrogato, scusandosi per l’accaduto, ha ammesso che erano in allarme perché temono un attentato ad Abù Mazen da parte di frange estreme di Hamas. Potrebbe essere una scusa, ma in questo caso, perché mettere coppie di soldati armati ogni 50 metri e perché portare in caserma un giornalista italiano che ha solo scattato una foto?

Una soluzione
Continuando con la politica dei veti, delle richieste assurde (il rientro dei profughi in Israele) e dei razzi Qassam, i palestinesi non andranno da nessuna parte, alla fine Israele riuscirà a chiuderli in riserve controllate dall’esercito, condannati a morire di fame. La politica israeliana è semplice quanto efficace, ad ogni attacco risponde con l’esercito, che vuol dire chiusura dei territori, morti e distruzione, e costruendo un insediamento in più. Ovviamente se l’attacco proviene dalla striscia di Gaza controllata da Hamas, le ripercussioni si sentono anche sulla Cisgiordania controllata da al-Fatah.
La soluzione immediata, ma soprattutto possibile, è quella di far arretrare l’esercito israeliano dietro il muro, senza sperare che in tempi brevi venga abbattuto ed inviare, a sostituirlo, una forza ingente di Polizia europea con compiti esecutivi che assicuri la sicurezza nei territori e dei confini, con l’assoluto impegno di far in modo che i palestinesi non lancino neanche un singolo petardo nel giardino degli israeliani. Dovrebbe essere presente anche una forza militare, ovviamente Nato, per proteggere gli insediamenti ed assicurare la copertura alla Polizia. Si arretrerebbe così il raggio d’azione dei militari israeliani, rendendo più accettabile il controllo del territorio da parte dei palestinesi.
A seguire, si dovrebbe investire in Palestina, sia per creare lavoro e far partire l’economia, sia per le infrastrutture che serviranno ad assicurare le vie di comunicazione riservate degli insediamenti verso Israele e dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania. Il rientro dei profughi dovrebbe avvenire nei soli territori palestinesi, con la stessa velocità della crescita economica e delle infrastrutture.
La soluzione è semplice ma costerebbe ai Paesi occidentali una cifra difficilmente sostenibile, forse meno di 60 anni di assistenzialismo dell’Onu ma comunque ci vorrebbero miliardi di euro immediatamente disponibile, e non dilazionati nel tempo. I Paesi arabi potrebbero partecipare economicamente e sarebbero sicuramente preziosi.
Costerebbe anche un notevole numero di morti, perché probabilmente a qualcuno l’occupazione “occidentale” andrebbe stretta come quella israeliana, ma alla fine con dei veri risultati, la popolazione accetterebbe il fastidio arrecato. Dovrebbe essere una missione a termine, non più di 5-10 anni il tempo di isolare le teste calde da una parte e dall’altra, e far in modo che i palestinesi non abbiano bisogno degli israeliani per sopravvivere.
Una missione che, in pratica, non si farà mai. E’ quasi impossibile… sempre meno difficile di sperare che israeliani e palestinesi facciano la pace (vera) con accordi come quelli realizzati fino ad ora.


FOTO: Il muro di sicurezza che divide Israele e Cisgiordania

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