“Nelle vicende del Medio-Oriente mi sono sempre attenuto alle richieste di due cari amici, purtroppo scomparsi da tempo: Peretz Merchav (ebreo, israeliano, sionista e socialista) e Abdel Zwaiter (palestinese, poeta, comunista e rappresentante dell’Olp in Italia). Tutti e due dicevano che non avevano bisogno di alleati acritici e fanatici, ma di amici in grado di far da ponte tra israeliani e palestinesi con l’obiettivo prima della pace e poi della convivenza tra i due popoli. Questo ruolo lo assegnavano naturalmente alla sinistra perché antifascista e antirazzista, e impegnata a fianco delle lotte di liberazione dei popoli per la difesa dei diritti. Non siamo stati all’alteza del compito se si aggrediscono nei cortei del 25 aprile chi porta le bandiere della Jewish Brigade e i reduci dei campi di concentramento, si bruciano le bandiere di Israele e si organizzano convegni nei quali la criticabilissima politica israeliana in Gaza e Cisgiordania è qualificata come pulizia etnica, quasi che fossimo in Bosnia, in Cecenia o nel Darfur”.
Quello riportato è un brano di un articolo scritto per “Sinistra per Israele” da Felice Besostri. Considerazioni lucide e amare, ampiamente condivisibili, anche nel suo risvolto autocritico. Un antico detto sentenzia che “la Verità è figlia del Tempo”, ma non sembra che sia sempre così, o comunque non nel caso Israele/Palestina. Anzi, si direbbe che con il passare degli anni i fatti accaduti, le posizioni, le dichiarazioni, elementi concreti e concretamente documentati, siano andati deformandosi fino a costituire una verità parallela che ormai è la sola presa in considerazione, a volte anche a livelli altamente qualificati. Certo, ha ragione Besostri quando dice “non siamo stati all’altezza del compito”, e questo riguarda chi la verità la conosce, l’ha sempre manifestata, probabilmente con non sufficiente forza e chiarezza. Però altri, che la verità la conoscevano, e la conoscono, altrettanto bene, sono stati perfettamente all’altezza del compito che si erano dati, cioè fare prima della presenza ebraica in Palestina, e poi dell’esistenza di Israele, il capro espiatorio e la valvola di sfogo di tensioni, frustrazioni, spirito di rivolta, causate dagli interessi delle caste mediorientali (tradizionalmente feudali o più modernamente dittatoriali), e di potenze esterne, interessi solo marginalmente strategici, e in maniera molto più sostanziosa economici: leggi, petrolio. Le deformazioni della verità odierne sono le (spesso inconsapevoli) eredi di quelle del passato.
Israele sarebbe un corpo estraneo creato artificiosamente quale avamposto dell’“imperialismo”, occupando manu militari una terra che era la patria dei “palestinesi”: è la tesi gridata dai giovani con la kefiah che bruciano le bandiere con la stella di David, e sentenziosamente sostenuta, con varie gradazioni, da politici e intellettuali uniti in una generica visione terzomondista.
Ebbene, questo stereotipo è del tutto falso, ed è all’origine dell’equivoco disastroso che ancora perdura sul filo dell’odio alimentato dall’ignoranza. La nascita, nel 1897, per iniziativa del giornalista austro-ungarico Theodor Herzl, del movimento sionista, fu seguita agli inizi del 1900 dall’emigrazione individuale verso la Palestina di migliaia di ebrei che lasciavano l’Europa dei pogrom e dell’antisemitismo. Per quegli immigrati era il ritorno in patria, la conclusione di una diaspora che durante i secoli aveva visto gli ebrei perseguitati, discriminati, massacrati.
Va detto che in quella terra, malgrado la diaspora, una presenza ebraica si era sempre mantenuta: nel 1880 la maggioranza della popolazione di Gerusalemme era ebrea. In quegli anni, fino al 1918, la Palestina apparteneva all’impero Ottomano: il sultano di Istambul consentì l’arrivo di quegli immigranti, e i proprietari arabi furono ben lieti di vendere loro le terre più aride a un prezzo venti volte superiore (venti sterline al dunam invece di una) a quello usuale. Gli ebrei, che nella diaspora non avevano avuto modo di praticare l’agricoltura, divennero contadini, si crearono i kibbutz, le fattorie collettive (il sionismo era nato con una forte impronta socialista) che avrebbero creato dei modelli di produttività.
Ecco, dei modelli. Per chi ? Per gli altri ebrei, ovviamente, o almeno per quelli disposti ad affrontare la vita – libera ma dura – delle fattorie collettive. Ma anche per i vicini arabi, per gli abitanti dei villaggi abituati da sempre a vivere poveri e sottomessi, privi di diritti e di un’identità nazionale. E questo era visto con sospetto. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, i possedimenti ottomani in Medioriente erano stati suddivisi in una serie di Stati più o meno indipendenti: la Palestina era stata posta sotto protettorato britannico. E dopo la dichiarazione Balfour del novembre 1917 prevedeva la creazione in Palestina di un “Focolaio ebraico” – l’Inghilterra alimentava una campagna tendente a indirizzare verso gli ebrei di Palestina tutti i motivi del malcontento popolare arabo.
Dal 1937, con il Libro bianco, la Gran Bretagna bloccava l’immigrazione ebraica in Palestina, proprio quando Hitler - che i propagandisti arabi, come il Gran Mufti di Gerusalemme, consideravano un eroe, e chiamavano Abu Ali – intensificava la persecuzione antisemita. I fuggiaschi che cercavano di raggiungere la Palestina a bordo di vecchie carrette erano affrontati dalle navi da guerra inglesi, che non esitavano a mitragliarle: i morti erano stati migliaia. All’inizio della seconda guerra mondiale la maggioranza dei Paesi arabi non avevano nascosto le loro simpatie per la Germania nazista, spingendosi fino ad aperte forme di collaborazione; l’Haganah - la struttura militare clandestina ebraica - mise a disposizione degli inglesi una Brigata Ebraica, che combatté in Siria, contro i petainisti, in Libia e in Italia.
Finita la guerra, l’ostracismo britannico si fece ancora più duro, e fra ebrei e inglesi fu guerra aperta. Il governo di Londra, laburista, aveva in Palestina 100mila soldati che non riuscivano a fiaccare i militanti dell’Haganah, in numero molto inferiore e sommariamente armati. Nel 1947 gli inglesi dovettero chiedere una decisione delle Nazioni Unite, che in novembre (29 sì, tra cui Stati Uniti e Unione Sovietica, 12 no, 14 astensioni) stabilirono la divisione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, dei quali furono definiti i confini, con Gerusalemme e Betlemme sotto statuto internazionale. Il mandato britannico sarebbe scaduto il 15 maggio 1948.
I Paesi arabi, uniti in una Lega sponsorizzata dagli inglesi, rifiutarono nettamente la divisione e ai confini della zona ebraica si schierarono gli eserciti di Egitto, Transgiordania (la famosa Legione comandata da ufficiali britannici), Siria, Libano: di fronte a queste truppe bene armate e motorizzate, dotate di navi, aerei e artiglieria, l’Haganah disponeva soprattutto di armi leggere, residuati bellici clandestinamente trasportati in Palestina sfidando il blocco delle navi inglesi.L’offensiva araba coincise, la sera del 14 maggio 1948, con la dichiarazione a Tel Aviv della nascita dello Stato d’Israele. Gli Stati Uniti, che avevano già stabilito accordi petroliferi con i Paesi arabi, annunciarono che non avrebbero fornito “armi a nessuna delle due parti antagoniste”. Cioè non le avrebbero fornite a Israele, agli altri avevano già provveduto gli inglesi. Dopo un primo armistizio tra l’11 giugno e il 9 luglio, Israele riceveva armi pesanti e qualche aereo dalla Cecoslovacchia, per conto dell’Unione sovietica. L’Haganah respingeva gli eserciti arabi combattendo simultaneamente su tre fronti, e alla firma dell’armistizio del 7 gennaio 1949, le Nazioni Unite decretavano che i confini d’Israele sarebbero stati quelli raggiunti dai suoi soldati.
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