Il Consiglio europeo
ha da tempo invitato gli Stati membri
ad autorizzare gli appartenenti alle Forze
Armate ad aderire a associazioni di categoria
e a sindacati. Ma in Italia siamo rimasti fermi
a trent’anni fa, con tutti i governi
Albania, Armenia, Cipro, Grecia, Ungheria, Islanda, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Macedonia, Moldova, Romania, Turkmenistan e Uzbekistan. Cos’hanno in comune con l’Italia questi 13 Paesi, quasi tutti dell’Est europeo? Fanno tutti parte dell’Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Non solo. Tutti e 13, più l’Italia, nel 2006 si sono rifiutati di distribuire al personale delle proprie Forze armate un questionario di 83 domande sui diritti umani e le libertà fondamentali dei militari, per indagare le condizioni di vita e lo stato delle libertà democratiche dei “cittadini con le stellette” in Europa. Il ministro della Difesa del governo di centrosinistra, Arturo Parisi, accogliendo le pressioni degli Stati Maggiori, non ritenne opportuno che quel questionario circolasse fra i nostri militari.
L’esigenza di quell’indagine conoscitiva, era scaturita nel corso di un seminario che la stessa Osce aveva organizzato l’anno precedente, e vi avevano preso parte tutti i Paesi aderenti, per approfondire i temi del controllo democratico delle Forze armate e il codice di condotta relativo agli aspetti politico-militari della sicurezza.
Il questionario doveva essere proposto su base volontaria, ma i comandi dovevano accertarsi che tutti i militari lo avessero ricevuto e fossero messi in condizione di partecipare all’indagine. I risultati furono condensati in una pubblicazione del settembre 2006 (disponibile in inglese nel sito dell’Osce: http://www.osce.org/) intitolata: “Cittadini in uniforme: Implementazione dei diritti umani nelle Forze armate”; un mese dopo, una seconda pubblicazione arricchì quell’indagine: “Le Unioni militari e le Associazioni”. Tutto il lavoro, successivamente, fu utilizzato per scrivere il libro “Manuale sui diritti umani e le libertà fondamentali del personale delle Forze armate” (anche questo in inglese, rintracciabile qui: http://www.dcaf.ch/odihr/_events.cfm).
«Leggendo con sgomento a quali Paesi l’Italia viene accostata nel campo dei diritti umani per i militari, mi sorge spontanea una domanda: quanto dobbiamo aspettare ancora per essere trattati come tutti gli altri?». Un dirigente dei Carabinieri dell’Arma che fa parte dell’Associazione Pastrengo, associazione di carabinieri in servizio (www.associazionecarabinieripastrengo.it), l’unica associazione fra militari italiani riconosciuta dal ministero della Difesa. Almeno fino a pochi mesi fa. Poi il ministro Parisi ha pensato bene di revocargli quell’autorizzazione a causa di una presunta «deriva sindacale» (vedi scheda) rigidamente vietata dall’attuale normativa, che risale al 1978, cioè a trent’anni fa. «Quest’anno la nostra Costituzione celebra il suo 60° anniversario – ricorda il carabiniere –: in 139 articoli racconta l’identità del popolo italiano, i suoi valori, i suoi diritti, che però non possono essere applicati a carabinieri, finanzieri, soldati, avieri e marinai. Perché? Le forze di polizia ad ordinamento militare (carabinieri e finanzieri) sono chiamate a garantire e a far rispettare quei valori e quegli ideali nei confronti di tutti i cittadini italiani, ma quegli stessi valori, quei diritti costituzionali non si applicano a noi miliari!».
«Sì, perché noi militari siamo buoni per difendere i diritti e la democrazia dei Paesi in cui siamo impegnati con le missioni umanitarie, non a godere di quegli stessi diritti che dobbiamo difendere», gli fa eco Emilio Ammiraglia, maresciallo dell’Aeronautica in pensione e presidente di Assodipro (www.assodipro.org), la più grande associazione italiana fra militari, non riconosciuta dal ministero della Difesa, ma da quello del Lavoro, che l’ha inclusa nell’elenco delle associazioni di promozione sociale che possono percepire il 5x1000. Assodipro, inoltre, gode di grande prestigio in Europa, in quanto parte di Euromil, associazione continentale di militari che si batte con successo affinché i vari Paesi e la Ue riconoscano i diritti costituzionali ai “cittadini in divisa”. «Il lavoro di lobbing di Euromil – precisa Ammiraglia – in Europa funziona, in Italia no».
Prima di andare avanti nel racconto del malessere che circola nelle nostre Forze armate e nei Corpi di polizia a ordinamento militare, malessere aumentato dopo l’abolizione della leva obbligatoria e la professionalizzazione, facciamo un passo indietro.
L’11 luglio 1978, cioè trent’anni fa, il Parlamento italiano vara la legge 382, “Norme di principio sulla disciplina militare”, che, all’articolo 18, istituisce «gli organi della rappresentanza militare»: Cocer, Coir e Cobar. Il Cocer è l’organo centrale, a carattere nazionale e interforze, articolato in sezioni di forza armata o di corpo armato (Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri e Guardia di finanza); il Coir è un organo intermedio presso gli alti comandi; il Cobar l’organo di base. I militari di ciascun corpo eleggono i Cobar, che eleggono i Coir i quali, a loro volta, eleggono i singoli Cocer. Organi di rappresentanza che, sebbene eletti, ricalcano il sistema gerarchico militare e, infatti, la presidenza di ciascun organismo spetta al più alto in grado, spingendo molti, oggi, a definire la rappresentanza «un sindacato giallo». La legge, inoltre, all’articolo 8, dispone che «I militari non possono esercitare il diritto di sciopero, costituire associazioni professionali a carattere sindacale, aderire ad altre associazioni sindacali». Un articolo che oggi quasi tutti i militari (non gli Stati Maggiori) vorrebbero cancellare, mentre trent’anni fa pesava meno, in considerazione del fatto che si era passati dal nulla a qualcosa di nuovo che, comunque, vedeva i militari protagonisti, per la prima volta titolari di scampoli di diritti e di democrazia, che si erano conquistati mentre si arrivava alla smilitarizzazione della Polizia di Stato. Erano i frutti delle spinte verso il cambiamento che venivano dal ’68; voglia di cambiamento che era entrata anche nelle caserme dove erano nati movimenti democratici che rivendicavano più diritti, più democrazia, più libertà per i cittadini con le stellette.
«La libertà di poter esprimere pubblicamente le proprie idee – continua l’iscritto alla Pastrengo –, di poter scrivere un articolo o un libro, di poter manifestare pacificamente: sono tutte vietate per legge ordinaria, che alcuni giudici costituzionali (per inciso, nominati dal Parlamento) hanno fatto diventare legittimamente costituzionali, dichiarando non ammissibili tutti i ricorsi presentati».
Quella cui fa riferimento è la sentenza 449/1999 (vedi: http://www.forzearmate.org/sentenza_tar_sindacato.htm) della Consulta, che rigetta il ricorso del maresciallo dei carabinieri Ernesto Pallotta sull’anticostituzionalità dell’articolo 8 della legge 382/1978. Pallotta era il fondatore di Unarma, associazione di carabinieri sciolta perché ritenuta «a carattere sindacale».
Una sentenza che anche Ammiraglia non esita a definire «politica», e ricorda che, poco prima della sentenza, Valdo Spini, allora presidente della commissione Difesa della Camera, «aveva mostrato delle aperture verso la sindacalizzazione che si rimangiò dopo quel pronunciamento della Consulta».
Ormai da quattro legislature il Parlamento tenta di modificare la legge 382, ma tutte le proposte si sono arenate per la forte opposizione di Cocer e associazioni, che hanno sempre bollato come «peggiorativi» i vari testi unificati proposti nel corso degli anni; testi che, di fatto, avrebbero accresciuto il potere di controllo degli Stati Maggiori sulle rappresentanze, riducendone poteri e autonomia. In problema della riforma si riproporrà nella legislatura appena iniziata.
«La base, cioè volontari e sottufficiali, vuole il sindacato, il solo strumento che può garantire più democrazia e più diritti», sottolinea il maresciallo Pino Pesciaioli, già membro nel Cocer Esercito e oggi rappresentante Cobar. Pesciaioli, come tanti suoi colleghi, nel corso degli anni è stato sommerso da provvedimenti disciplinari per la sua attività a favore dei militari e per le sue idee espresse sui siti internet di diverse associazioni, ché la libertà di parola, per i militari, non è ammessa. Pesciaioli, come altri, se l’è conquistata ricorrendo contro ogni procedimento nei suoi confronti. Conquiste che dovrebbero essere di tutti, ma ogni volta che qualcuno rompe la consegna del silenzio, la vicenda si ripete, sempre uguale a se stessa. «Non è ipotizzabile che in questa legislatura si possa ottenere il sindacato – Continua l’esponente del Cobar Esercito –, anche se in passato la Lega si è espressa in tale direzione, con un apposito disegno di legge. Non so se ora che sono in maggioranza manterranno lo stesso orientamento. Anche Di Pietro, in passato, si è espresso a favore del sindacato. Secondo me, se con lo spauracchio del sindacato riuscissimo a ottenere un miglioramento della legge sulla rappresentanza militare sarebbe un buon risultato, visto che nelle ultime quattro legislature – cioè con maggioranze diverse, di centrodestra e di centrosinistra – i vari disegni di legge unificati erano sempre peggiorativi dell’attuale normativa».
«Noi – gli fa eco il presidente di Assodipro – siamo da sempre per il sindacato, anche se questa maggioranza, che ha già governato, non va certo in questa direzione. Dubito che la Lega possa essere il grimaldello che ci aiuterà nella conquista dei diritti che ci vengono negati, penso che la loro sia stata una battaglia di facciata. Comunque, la legislatura è appena cominciata e, dunque, c’è tempo per vedere se alle parole seguiranno i fatti. Secondo me, già sarebbe tanto riuscire a marcare una differenza col passato. Certo – aggiunge Ammiraglia –, la maggioranza uscente non si farà rimpiangere. Basti pensare che il ministro della Difesa ha revocato l’autorizzazione all’associazione Pastrengo per una presunta “deriva sindacale”. È la storia di Pallotta che si ripete».
Una storia che altri non vogliono ripetere, così un delegato del Coir dell’Esercito accetta di parlare a patto che gli garantiamo l’anonimato: «Alla sindacalizzazione si può rinunciare con una rappresentanza che abbia una forte valenza, che sia autonoma dalle gerarchie e che abbia il potere di concertazione. Non solo: c’è bisogno della valorizzazione dell’organo intermedio (il Coir, ndr), ché il Cocer è troppo malleabile; e c’è bisogno di staccare le categorie: volontari (ricattabili, perché precari), soldati e sottufficiali, ufficiali, perché abbiamo problemi diversi. Organismi diversificati – precisa il nostro interlocutore – perché abbiamo interessi diversi».
Giuseppe Fortuna, tenente colonnello in congedo della Guardia di finanza, è il presidente di Ficiesse (www.ficiesse.it), la principale associazione di finanzieri e cittadini delle Fiamme gialle che, dopo avere superato lo scoglio degli ostracismi delle alte gerarchie militari – anche loro sono stati accusati di attività sindacali, ma sono stati assolti –, dal 1999 sono punto di riferimento di finanzieri e di altri militari. «Negli ultimi tre anni – spiega Fortuna – il nostro sito ha avuto circa tre milioni di contatti e, dopo che abbiamo vinto la nostra battaglia per l’esistenza come associazione, sono sempre più i militari che intervengono firmandosi con nome e cognome; prima, invece, usavano pseudonimi o le sole iniziali. L’informazione – chiarisce Fortuna – dev’essere uno degli elementi qualificanti della riforma: oggi, ad esempio, Coir e Cobar possono solo affiggere in bacheca le delibere, senza alcuna informazione ulteriore sul dibattito che ha portato a quella decisione. Altri elementi qualificanti – aggiunge Fortuna – devono essere la possibilità di costituire sindacati e associazioni professionali, anche se fanno paura agli Stati Maggiori, ché le associazioni producono idee e minerebbero il monopolio delle idee che oggi essi detengono. Inoltre, deve cambiare il sistema elettorale: a differenza di oggi – la base elegge i Cobar, che eleggono i Coir, che eleggono i Cocer –, devono essere le assemblee dei Cobar ad eleggere i Cocer, in modo da allargare la base elettorale ed evitare, come avviene, che possano esserci rappresentanti nazionali eletti con meno voti delle dita di una mano. Irrinunciabile, inoltre, che agli organi di rappresentanza sia riconosciuto il potere di contrattazione di primo e secondo livello. Infine – conclude il presidente di Ficiesse –, specie se resta questa forma di rappresentanza, bisogna evitare la rieleggibilità dei delegati, ché si rischia di istituire la categoria del “sindacalista giallo a tempo pieno”».
Gli eletti delle Fiamme gialle sono stati i soli ad essere autorizzati del comando generale a tenere un’assemblea di tutti i Cobar, Coir e Cocer, proprio sulla spinta di un’iniziativa di Ficiesse; dai due giorni di assemblea, a L’Aquila, è scaturito un documento che chiede la sindacalizzazione, votato da 270 dei 300 delegati. Maurizio Dori, maresciallo della Finanza e delegato Cocer al secondo mandato, parla con orgoglio di questa assemblea e sottolinea che «non accetteremo ciò che non è in linea con il nostro mandato, perché anche i “lavoratori con le stellette” devono potere godere dei fondamentali diritti costituzionali riconosciuti a ogni cittadino. Nel nostro mandato – ricorda – c’è anche l’indicazione a uscire dal comparto Difesa per passare a quello dell’Economia: la Difesa si occupa di guerre, noi finanzieri no», chiarisce Dori.
Il maresciallo Salvatore Rullo, ex Cocer dell’Aeronautica, oggi membro del Cobar, si dice «preoccupato perché non sono state rielette Elettra Deiana e Silvana Pisa (due parlamentari di Rifondazione comunista, ndr), che in questi anni sono stete le più vicine alle esigenze della base, presentando disegni di legge che andavano nella direzione auspicata da noi militari e presentando numerose interrogazioni sui problemi del personale delle Forze armate. Da questo Parlamento – aggiunge – mi aspetto solo peggioramenti: sarebbe meglio che non ci mettessero mano. Ma se proprio devono, che ci riconoscano almeno la contrattazione di secondo livello».
Contrattazione. Oggi i Cocer hanno un potere che somiglia alla concertazione sindacale: possono esprimere un parere sul contratto nazionale, parere ininfluente, ché, anche quando dicono di no, al loro posto firmano gli Stati Maggiori, i soli ad avere titolo a trattare col governo; mentre non hanno alcuna voce in capitolo sulla distribuzione delle risorse, sugli straordinari e su tutto ciò che, nel pubblico impiego, viene deciso su scala regionale o aziendale (contrattazione di secondo livello): tutto viene deciso dalle gerarchie, persino gli straordinari. E ci vuole poco a capire che gli straordinari il più delle volte non siano svolti (e percepiti) equamente, ma che siano avvantaggiati i “fedeli alla linea” di chi decide.
Anche dal Cocer Carabinieri arrivano spinte verso la sindacalizzazione, come ricorda Alessandro Rumore, delegato al secondo mandato che si batte «per la rieleggibilità piena». In origine, la legge vietava la rieleggibilità, poi estesa a due mandati. Rumore non teme la possibile nascita di una nuova casta, paventata da molti, e ricorda che alle ultime elezioni «solo il 30 per cento dei vecchi delegati è stato riconfermato, segno che se non rispetti il mandato non vieni rieletto». Anche il rappresentante dell’Arma chiede la contrattazione di primo e secondo livello e rivendica «la tutela del delegato». Cioè? «Da noi non circola informazione: per avere aperto un sito internet (alessandrorumore.sitonline.it/) sono stato preso di mira e ho subito diversi procedimenti disciplinari. Ho fatto ricorso, ho vinto, e mi sono guadagnato la possibilità di dire la mia. La nuova legge, se verrà, deve prevedere la libertà d’informazione e di opinione dei delegati. Non solo: dovrà prevedere anche la possibilità di partecipare a riunioni sindacali; vogliamo le stesse prerogative della Polizia, senza ripetere il fenomeno della frammentazione che li riguarda. Inoltre, il presidente non dovrà essere imposto (il più alto in grado, ndr), ma essere eletto all’interno dell’organismo». Rumore, inoltre, chiede che le rappresentanze siano elette «sulla base di liste concorrenti e che siano i Cobar a eleggere i Cocer».
Antonello Ciavarelli è capo di prima classe della Guardia costiera e membro del Cocer Marina: «L’obiettivo principale è una maggiore giustizia sociale, è paradossale che non ci vengano riconosciuti i diritti fondamentali di cui godono tutti i cittadini. La rappresentanza deve avere un ruolo negoziale riconosciuto dalla legge, primo passo verso più proficua partecipazione alla vita militare e a una maggiore efficienza. L’avere riconosciuto un ruolo negoziale ci garantirebbe un confronto costruttivo con i vertici, ci farebbe essere come un arco teso, cosa che oggi non è; oggi l’arco è lento e non raggiunge gli obiettivi. Io penso che affinché quest’arco abbia la giusta tensione occorre il sindacato. Il governo si deve esprimere su queste cose: è mai possibile che ci siano armi micidiali per fare la guerra e ci negano le armi per stipulare un contratto? Di che hanno paura? E poi c’è bisogno della libertà di associazione – continua Ciavarelli –, dato che le associazioni fanno cultura: non siamo burattini né mercenari, ma cittadini che rivendicano diritti per essere più vicini alle istituzioni. Il Cocer Marina, anche se con una maggioranza risicata, ha votato per avere sindacato e associazioni, solo così potremo lavorare meglio».
Il luogotenente Salvatore Trix, del Cocer Gdf, teme che «le associazioni culturali possano allontanare dall’obiettivo, cioè le associazioni professionali e sindacali. Se sindacato dev’essere, dev’essere libero, magari mettendo dei paletti, uno sbarramento che serva a evitare la frammentazione che si è avuta con i sindacati di Polizia. Però il militare non dev’essere privato dei diritti costituzionali». Trix, inoltre, apre un altro fronte, quello dello status militare della Guardia di finanza: «Durante il settimo mandato votammo provocatoriamente per la smilitarizzazione, che, comunque, è un’evoluzione naturale, è un’esigenza del Paese. Però, se lo dici, diventi sovversivo. Prima o poi, comunque, ce lo imporrà la Ue». In effetti, non esistono altri esempi di corpi tributari a carattere militare. Così come non ha senso – e questo la Gdf lo chiede a ogni livello – che all’Agenzia delle entrate venga riconosciuto un premio (il due per mille) sull’evasione recuperata e che, invece, la Finanza, cioè chi individua e denuncia gli evasori, non abbia un analogo riconoscimento. Lo chiedono, indistintamente, alti comandi, rappresentanze militari e assocazioni, ma il governo, finora, è stato sordo. «Non riusciamo a “sfondare” con la politica, sia essa di destra o di sinistra – sostiene Trix – perché la politica è lontana dai cittadini. Così come il Cocer, così com’è oggi, è lontano dalla base. Affinché la rappresentanza sia efficace c’è bisogno di organismi esterni all’amministrazione». Invece oggi sono interni anche fisicamente, nel senso che le sedi delle rappresentanze coincidono con quelle dei comandi. Infine, Trix esterna il suo pessimismo: «La riforma, almeno come la vorremmo noi, non me l’aspetto né da Ramponi né da Speciale». Cioè da due ex comandanti generali della Gdf eletti nel centrodestra.
Emilio Ammiraglia, presidente di Assodipro, dal canto suo, sottolinea che «l’indifferenza della politica fa male alla democrazia». E aggiunge: «Non capisco perché una forza politica che viene dal Pci continui a essere contraria al sindacato. Ci siamo fermati alle conquiste del movimento che si sono concretizzate nella legge del 1978. Però sono passati trent’anni. E noi siamo fermi a trent’anni fa. Io vado spesso in Austria: lì i militari hanno persino il diritto di sciopero. Non chiediamo tanto, ma più diritti, quelli sì».
«Questa forte limitazione degli interessi e dei diritti dei militari – gli fa eco il rappresentante dell’Arma – viola la Costituzione, e non si conforma affatto allo spirito democratico della Repubblica, ma per tutto questo tempo ha fatto comodo così. E che importa se il Parlamento europeo ha più volte invitato l’Italia ad adeguarsi agli altri Paesi comunitari, che già da tempo hanno concesso il sindacato alle loro Forze di polizia militari!»
L’ultima «raccomandazione» del Consiglio europeo è la 1742 del 2006, prende spunto dalla fine della leva obbligatoria e dalla professionalizzazione delle Forze armate in molti Paesi dell’Unione, e precisa: «Non ci si può aspettare che gli appartenenti alle Forze armate nelle loro operazioni rispettino le leggi umanitarie e i diritti dell’uomo se il rispetto degli stessi diritti non sia garantito anche all’interno della truppa dell’Esercito». Basti ricordarsi le torture che i militari Usa infliggevano agli iracheni catturati. E fra i soldati a stelle e strisce, di diritti ne circolano ancora meno che da noi.
La raccomandazione 1742, inoltre, invita gli Stati membri ad «autorizzare gli appartenenti alle Forze Armate ad aderire ad associazioni professionali di categoria o a sindacati autorizzati al fine di negoziare gli argomenti connessi alla retribuzione, alle condizioni di arruolamento (all’impiego) e ad installare organi consultivi a tutti i livelli che possano coinvolgere le suddette associazioni o i sindacati, e che rappresentino tutte le categorie del personale». E qualora «tale funzione non esista già», di introdurre anche la figura del «Difensore civico militare».
In Italia non esiste niente di tutto ciò. E all’estero? Ce lo dice Vincenzo Fraricciardi, rappresentante di Amid, una delle sigle storiche dell’associazionismo italiano “con le stellette”, anch’essa aderente a Euromil: «I più evoluti sono i Paesi del nord Europa: in Belgio il sindacato esiste da cento anni; la Germania è uno dei simboli di Euromil – il 90% dei militari tedeschi è iscritto all’associazione –, tanto che persino il primo ministro, Angela Merkel, ha elogiato il ruolo positivo che l’associazione ha avuto nell’unificazione della Germania. C’è il sindacato anche in Olanda, Finlandia, in Danimarca e Gran Bretagna, c’è in Spagna. In Portogallo è consentita la libertà d’associazione. Molti Paesi dell’Est europeo godono di libertà sindacali e/o associative. In parte è dovuto alla forte influenza che i militari avevano nei vecchi regimi dell’Est, prima della caduta del Muro. In Italia sono ammesse solo le associazioni miste, di militari e cittadini».
Ammesse, non riconosciute. Possono esistere, ma i loro pareri, per le istituzioni, non contano nulla. Anzi, quando diventano punto di riferimento per tanti militari, vengono perseguite a colpi di carta bollata, dagli Stati maggiori. Con il consenso del ministro della Difesa di turno. E l’Italia resta in compagnia di Albania, Cipro, Grecia e Romania.
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Per la “Pastrengo” minaccia di revoca
L’Associazione di carabinieri in servizio “Pastrengo” è l’unica associazione fra militari riconosciuta dal ministero della Difesa, in base all’articolo 8 della legge 382/1978. Anzi era, visto che la scorsa estate l’allora ministro Parisi ha revocato l’assenso del ministero, su richiesta del Comando generale dell’Arma, a causa di una «possibile deriva sindacale». Una vicenda non ancora conclusa ma che ricorda analoghe iniziative ministeriali nei confronti di altre associazioni fra militari e cittadini, accusate di «deriva sindacale», mente i militari non possono esercitare attività sindacale. In passato, solo Unarma, altra associazione di carabinieri, si è vista respingere il proprio ricorso da Tar e Consiglio di Stato, mentre altre hanno sempre vinto, come la stessa Associazione Pastrengo. C’è da chiarire che le altre associazioni non sono riconosciute dal ministero ma sono ugualmente legali in quanto costituite fra militari e cittadini. A quaste associazioni è consentito di fare attività culturale, ma non di tutelare i diritti dei militari.
Secondo il ministero, la Pastrengo avrebbe tenuto comportamenti «che hanno leso l’onore ed il decoro dell’Arma dei carabinieri», riassunti in quattro punti: 1) debiti rilevanti; 2) incapacità di mantenere gli impegni assunti col Comando generale; 3) incertezza sulla titolarità dell’associazione, a causa di una scissione; 4) una presunta deriva sindacale individuata nell’esito di una riunione del 2005, a Brescia, di una sezione periferica dell’associazione che rivendicava «uno strumento democratico di rappresentanza militare realmente efficace» e nella pubblicazione di una rivista che si propone di «aiutare i carabinieri che non hanno un sindacato».
Con un articolato ricorso al Tar Lombardia, l’associazione è riuscita a dimostrare che i rilievi mossi «non appaiono corroborati da documentazione in atti» e che, anzi, ha sancito il Tar lo scorso mese di novembre, la presunta incertezza sulla titolarità dell’associazione, in seguito alla scissione, è stata risolta dal Tribunale di Padova, già nel 2006; l’incapacità di onorare gli impegni assunti con l’Arma «appare determinata dalla condotta della stessa Amministrazione che non ha provveduto a corrispondere all’associazione le trattenute mensili operate sulle buste paga degli iscritti quali quote associative»; la “deriva sindacale” è basata su episodi «che non appaiono significativi»; che i debiti sono stati contratti da una persona che non fa parte dell’associazione «nei confronti del quale pende procedimento penale a seguito di querela» presentata dalla stessa Pastrengo.
Insomma, anche se i giudici del Tar non lo scrivono, le motivazioni addotte dal Comando generale dell’Arma e dal ministro, per revocare l’autorizzazione all’associazione, sarebbero pretestuose.
Ma la vicenda non si è certo conclusa con la pronuncia del Tar Lombardia, poiché i vertici dell’Arma e il ministero sono ricorsi al Consiglio di Stato che, lo scorso mese di febbraio, ha annullato la sentenza per incompetenza del Tar Lombardia: la competenza – ha sancito il Consiglio di Stato – è del Tar Lazio. La contesa, dunque, torna al punto di partenza, cioè al decreto dell’ex ministro Parisi. Ora toccherà al nuovo ministro La Russa assecondare le posizioni dei vertici dell’Arma e continuare la battaglia legale per la revoca dell’autorizzazione all’Associazione Pastrengo.
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