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Aprile/2008 - Contributi
Dietro le
di Enzo Jorfida e Deborah Bruschi

Due anni fa è nato il programma del partito della Rifondazione Comunista di visite all’interno delle caserme, non a caso.
La visita ad una caserma, qualunque caserma, è permessa da pochi anni ( legge 24/6/1998, n. 206 e relativo decreto del 30/6/2000, n. 292) ai soli parlamentari e ai loro accompagnatori, previa debita informativa inviata al Ministro della Difesa almeno 24 ore prima della visita stessa, con l’avvertenza che si esprime la decisione di incontrare il personale e i relativi rappresentanti (Cobar) è buona norma inviare l’informativa ben prima delle 24 ore, poiché tale lasso di tempo non risulta sufficiente per la convocazione dei suddetti Cobar e del personale di quel Reparto. Da allora abbiamo accompagnato in giro per le caserme d’Italia parecchi nostri deputati e senatori: tutti hanno dato la propria disponibilità e tutti, al termine della visita, erano stupefatti e increduli.
Dai Comandi alle Stazioni dei Carabinieri, alle sedi della Marina Militare a quelle dell’Aeronautica, dell’Esercito e della Finanza, da Milano a Catania passando per Taranto, Chieti, Bari, Roma, Ancona, Venzone (Ud), Napoli, Bologna, Parma, Pisa, Lecce e Cagliari: questo è stato (per il momento) il nostro viaggio, incontrando comandanti e personale, Cobar, Coir e Cocer e, soprattutto, parlando con loro, in mezzo a loro, in taluni casi fino a tarda sera. Perché quando si riesce ad aprire un varco in questo settore, quando gli addetti ai lavori iniziano a parlare, diventano un fiume in piena e noi sapevamo bene di cosa volevano parlare: sé stessi, finalmente di sé stessi, come uomini e non come strumenti istituzionali. Inutile negare che dovunque siamo stati inizialmente accolti con sospetto, tanto degli Stati Maggiori (sospetto che in genere, a questi livelli, non si è affatto dileguato), quanto degli addetti ai lavori. In corso d’opera, tra gli addetti ai lavori il sospetto iniziale è stato sostiuito da un’animata sorpresa per le conoscenze del settore che portavamo con noi e dall’informalità con cui abbiamo condotto gli incontri.
Pensiamo, a giudicare dalle esperienze compiute, che tutti si aspettassero niente di più che un bel discorso al personale dall’alto di un palco debitamente allestito. Sia chiaro: non ci interessava e non ci interessa, non abbiamo compiuto questi viaggi e non ne compiremo in futuro per “indottrinare” qualcuno, per fare propaganda politica, per sostenere questo o quel principio. Lo scopo è solo quello di incontrare chi non può - per legge - essere interpellato da alcun partito politico e, poiché sono pochissimi quelli iscritti ai partiti politici - avendo la convinzione che per loro è vietato, invece non lo è - la soluzione era quella di portare legalmente i rappresentanti del Parlamento e del Prc dagli operatori della sicurezza. In pratica, se le montagne non possono andare a Maometto, Maometto è andato alle montagne. A chi se lo dovesse chiedere, vogliamo fornire subito la risposta: non esiste un “copione” degli interventi in queste visite, non c’è nulla di preparato, di costruito, di preventivato. Ogni visita è una storia a sé, che ha un inizio e un epilogo diversi perché diverse sono state le persone che abbiamo incontrato, le loro idee, i loro problemi e, non da ultimo, la disponibilità dei relativi comandanti.
Ci sono state situazioni in cui si è riusciti ben poco ad andare oltre la rigida formalità prevista dai comandanti, altre in cui si sono svolti incontri quasi conviviali, con una partecipazione totale ed attenta, degna della più vivace delle riunioni sindacali. Abbiamo avuto il piacere, quando è stato possibile, di scambiare opinioni, spiegazioni, di trattare argomenti generalmente travisati, di confrontartci e di conoscerci. Perché questo era l’intento: noi, come forza politica, ammettiamo di non conoscervi, voi, storicamente bollati quali sostenitori di idee di destra, avete l’occasione di conoscerci. E non dimenticheremo, al termine di quello stesso incontro, le parole di un maresciallo che, appunto, aveva scelto di non partecipare: “Ci siamo persi un’occasione...”, ci disse. Sì, perché è proprio quella che vi veniva proposta: un’occasione per raccontare chi siete, come vivete e cosa volete e sta solo a voi decidere o meno di partecipare al dialogo.
Al Cobar Lombardia rivolgiamo qui un caro saluto: quel primo momento è stato solo l’inizio di una bella serie di ulteriori incontri ufficiali.
La scorsa primavera, una telefonata dal ministero della Difesa, preposto a fornire le risposte per queste visite, ci apostrofava scherzosamente chiedendoci se i parlamentari di Rifondazione non avessero altro da fare che andarsene in giro per caserme. In realtà “da fare” ce n’è davvero tanto, motivo per cui avere la disponibilità richiesta dai parlamentari per “andare in giro per caserme” era davvero un bel risultato. Evidentemente, il livello e il tenore di questo progetto aveva suscitato parecchio interesse in ogni direzione.
Il punto è che nessuno, noi compresi, avevamo mai pensato a ciò che avevamo davanti agli occhi: dentro ad una divisa c’è un uomo, o una donna, che vuole fare onestamente il proprio lavoro nel rispetto dei termini di sicurezza e garanzia che ogni contratto di lavoro dovrebbe fornire. Ma qui, nelle caserme, non è così: uno dei primi elementi che balza all’occhio tra gli operatori del Comparto è la quasi totale mancanza di informazione sul proprio contratto, nel senso che l’unica notizia che passa a riguardo è l’aumento salariale. Ben poco si sà invece della parte normativa, effettivamente piuttosto misera se confrontata a qualsiasi altro contratto collettivo nazionale, mentre di certo si sà che a portare a casa qualche risultato per tutti sono i sindacati di Polizia, visto che agli organi di rappresentanza militare non è dato potere negoziale, il che significa non possedere nessuna chance di rivendicazione contrattuale.
Gli addetti alla sicurezza che abbiamo incontrato ci hanno parlato di condizioni di lavoro difficili, ci hanno mostrato radio che non funzionano, siamo saliti su auto cigolanti, abbiamo parlato con carabinieri di quartiere dotati di palmari inutilizzabili e costretti ad usare il proprio cellulare per servizio. Abbiamo ascoltato storie di mobbing, procedimenti disciplinari intentati per i più banali motivi, trasferimenti negati a famiglie con più figli handicappati, visite mediche non eseguite, controlli sanitari rimandati a date da destinarsi, malattie in servizio, mancanza di personale, orari di lavoro estenuanti e non pagati.
Abbiamo visitato Stazioni prive di norme di sicurezza, con telecamere non funzionanti, cancellate ormai rese inutili dall’usura del tempo, bagni non praticabili, alloggi fatiscenti, parchi auto con troppi chilometri, poca benzina e mancanza di pezzi di ricambio (che vengono, se si può, reperiti sottraendoli a qualche altra auto destinata allo sfascio, buon riparo ne frattempo per topi e altri animali).
E abbiamo parlato di affitti salatissimi da pagare per chi fa servizio - nelle grandi città - soprattutto con un solo stipendio per la carenza di alloggi di servizio, di mancanza di posti negli asili nido, di separazioni matrimoniali e applicazioni della legge sui trasferimenti per familiari con handicap grave, delle difficoltà ad essere padre o madre, marito o moglie, e contemporaneamente lavorare in divisa, delle ferie e dei riposi che saltano per esigenze di servizio, degli straordinari non pagati, della mancanza di tutela giuridica tanto degli addetti quanto dei loro rappresentanti militari, della necessità di riforma della stessa rappresentanza, dei Codici di disciplina militare, dei Tribunali militari, della disapplicazione della legge 626, della nomina dei rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori. E non basterebbe un’enciclopedia per enumerare sommariamente tutti i temi che ci sono stati posti.
Sono temi comuni ad altri lavoratori? No. Il Comparto Sicurezza e nello specifico quello militare paga un’arretratezza normativa almeno trentennale, acuitasi nel momento in cui le Forze di polizia sono state smilitarizzate e parzialmente sindacalizzate. Da quel momento, se la Polizia di Stato, la Polizia Penitenziaria e il Corpo Forestale dello Stato hanno cercato di colmare il divario che li separava, in termini di tutela, da tutti gli altri lavoratori, la parte rimasta militare ha continuato ad accumulare un debito di arretratezza nei confronti del moderno mondo del lavoro che, allo stato attuale, si è cronicizzato in un’anacronismo fisiologico al buon funzionamento del Comparto stesso. Detto in altre parole, l’esistenza stessa di una rigida gerarchia assicurerebbe, come taluni comandanti sostengono, il mantenimento dell’efficienza e dell’efficacia del servizio. Innanzitutto non è vero e poi, sulla pelle di chi, ci chiediamo?
Come abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere, riteniamo che nessun lavoratore privo di diritti possa venire a difendere quelli degli altri. Ogni intervento, sia esso routinario o straordinario, necessita di una pianificazione che presume una formazione e un’adeguata preparazione degli operatori ed è assolutamente fuori discussione pensare che “per motivi di servizio” chi ha già sulle spalle i doppi turni di un lavoro delicato, quanto quello di pattuglia per fare un esempio, possa essere in grado di garantire la propria efficienza ulteriormente per un numero indeterminato di ore (quando lo fanno, anche in altri settori, aumenta l’incidenza degli infortuni).
E’ impensabile che per un ordine pubblico allo stadio venga inviato il personale la mattina presto per la sera, siano lasciati tutti senza pranzo o una cena decenti e in servizio continuato per 24 ore. Tanto più quando l’unica compagnia disponibile è quella di un’arma.
Se ciò che davvero manca a questo Comparto, e soprattutto ai suoi componenti, è la democratizzazione, dobbiamo allora iniziare a fornire per legge quegli strumenti che permettano loro di poter essere ascoltati. Le loro rappresentanze militari non devono rivestire più ruoli consultivi ma fattivi, per la contrattazione reale di stipendi, indennità, ma soprattutto diritti. Perché è questo che la base ci ha indicato: se i soldi sono pochi, i diritti mancano totalmente. Il diritto al riposo, al tempo per la famiglia, alla salute, alla casa. E le elezioni di questi rappresentanti devono anch’esse fornire, per quanto possibile, garanzie di democraticità e di partecipazione volontaria totale, attraverso una revisione delle regole elettorali che fino ad oggi hanno premiato solo alcune regioni a scapito di altre.
Ma intanto i reati non aspettano, i criminali neanche. Verissimo. E allora?
Allora personale a sufficienza per garantire il servizio 24 ore al giorno nei termini delle 6 ore istituzionali di turno, auto efficienti a disposizione del servizio su strada e non solo dei servizi di rappresentanza, trasparenza nel pagamento degli straordinari e nelle valutazioni del personale da parte dei superiori, pianificazione almeno settimanale dei turni, divise consone ai ruoli ricoperti con ricambi annuali delle forniture, corsi di formazione continua e pranzi e cene adeguate ad un essere umano.
Richieste scontate? Ovvie sicuramente, ma non scontate in questo settore. Perché qui è già stato importante arrivare alla formulazione di queste stesse richieste, che non domandano certo l’impossibile. O forse sì, viste le resistenze politiche che, nel sostenere le nostre idee, abbiamo incontrato.
L’intenzione è quella di riprendere al più presto gli incontri con il personale in divisa, in Italia e all’estero. Di continuare ad impegnare i nostri parlamentari nella riforma della rappresentanza militare, per cui più di una proposta di legge è stata presentata in Parlamento, di arrivare alla discussione del riordino delle carriere militari, in giacenza da più legislature, di sopprimere i Tribunali militari e di riuscire finalmente a chiarire l’enigma del bilancio della Difesa: dove vanno a finire gli accrediti che vengono previsti dalle Finanziarie e che, almeno su carta, crescono ogni anno ma guarda caso non finiscono mai in benzina, mezzi di servizio, acquisto delle divise o del materiale d’ufficio?
Perché si continua ad acquistare armi moderne e sofisticate a prezzi esorbitanti, a chi dobbiamo fare la guerra? E ancora: perché non viene formalizzata la separazione del Comparto Sicurezza da quello Difesa con relativi bilanci al seguito?
Questi, in sostanza, i macro temi su cui prendiamo l’impegno di continuare a prestare la nostra attenzione e i nostri sforzi, senza, per quanto possibile, trascurare di continuare ad ascoltare la base nei suoi luoghi di lavoro, attraverso tutte le visite che potremmo mettere in calendario.
Perché è fondamentale questo che vogliamo: continuare a mantenere vivo il dialogo che abbiamo costruito e che tante soddisfazioni ci ha dato, permettendoci di sentire le voci della base, non solo dei comandanti, delle periferie e non solo della Capitale, degli addetti ai lavori, di quelli che sono effettivamente impegnati con il lato peggiore della società ogni giorno e non solo di chi sta dietro ad una scrivania.
Tanto volevamo e tanto abbiamo ottenuto, grazie a loro.

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