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Aprile/2008 - Articoli e Inchieste
Immigrati
La seconda generazione
di Giada Valdannini

Un autentico melting pot
sta prendendo piede nel nostro Paese: secondo una ricerca
della Fondazione Basso
nelle scuole italiane sono presenti
192 nazionalità. All’Onu sono
poco più di duecento


Passano senza esitazione dal wolof al napoletano, dal francese al siciliano. Se li incontri per strada, non sospetteresti mai che si tratti di italiani. Parlano il dialetto romano ma in casa è d’obbligo il punjabi. In tv guardano film indiani o filippini, ma poi comprano i cd di Tiziano Ferro e Vasco Rossi. Sono i nuovi adolescenti. I figli dei migranti. Né portenti né disadattati: semplicemente giovani in bilico tra due mondi. Quello originario dei genitori e quello, più ruspante, della metropoli che gli appartiene. La cronaca e la legislazione li chiamano seconde generazioni ma loro si sentono più semplicemente italiani. Pur discendendo da famiglie di diversa provenienza, infatti, sono nati e cresciuti nel nostro Paese fino ad assumerne usi, costumi e, perché no, i difetti. Ormai, come si evince da una lunga ricerca della Fondazione Agnelli partita nel 2003 e ancora in corso, le seconde generazioni sono in rilevante crescita e pongono alla società una serie di questioni, sostanzialmente diverse da quelle relative agli immigrati di prima generazione. I numeri parlano chiaro: oggi sono circa quattrocentomila ma, nell’arco di un decennio, raggiungeranno il milione.
Per non parlare dei ricongiungimenti familiari che parlano di 40mila minorenni ricongiunti ai genitori nel solo 2006 mentre nel 1982 erano appena tremila. Ma il nodo è uno: questi ragazzi sono o no un’occasione per la collettività? I più rispondono positivamente mentre qualcuno dissente e per strada dice: “Che ben vengano, a patto che si sappiano trovare le misure per fare loro ‘spazio’ - sociale, economico, culturale, politico-istituzionale, gestendo le tensioni che inevitabilmente un tale processo tende a generare”. Questi ragazzi, venuti alla luce nel Bel Paese o cresciutici, di patrie lontane hanno giusto il ricordo. Il ricordo di vacanze passate in famiglia o visite fatte ai nonni rimasti in quelle terre. Secondo lo studio della Fondazione Agnelli, già solo a Torino, i dati raccolti parlano di circa 900 ragazzi sui 7.600 di varie nazionalità tra i 12 e i 21 anni: marocchina, rumena, cinese, albanese, peruviana. Il 60% di essi è nato in Italia da genitori stranieri e si sente italiano a tutti gli effetti come anche il 50% dei coetanei approdati nei primi cinque anni di vita e che la pensano alla stessa maniera. Nel 2006 il 30% dei nati erano figli di immigrati o di matrimoni misti, mentre nella fascia di età considerata solo il 13% dei ragazzi è nata in Italia.
Ma l’altro volto dei numeri sono storie di integrazione e talvolta di disagio, espressione della difficoltà di convivere in una società multiculturale, ancora poco consapevole di esserlo. A concorrere alla formazione di una sensibilità collettiva in materia, s’attiva talvolta la cultura, capace di sfornare autentiche perle di civiltà. E’ il caso della fiction radiofonica “Seconda generazione”, andata in onda sulla Rai e firmata da una giovane e talentuosa Lidia Riviello. Una poetessa prestata alla radio, attiva da anni nell’ambito dell’intercultura; non solo grazie alla sua penna ma anche ai corsi d’italiano che tiene per gli immigrati. Un’esperienza ben presente nella fiction di cinque puntate che - ambiziosamente – racconta la storia di una famiglia tunisina. Famiglia, per altro, realmente conosciuta e che Lidia Riviello ha restituito agli ascoltatori in tutta la sua veridicità. Si tratta dei Mansour - Amina e Mohamed - che vivono in Italia da vent’anni, impegnati come sono a lavorare, lei in un asilo e lui in un ristorante. A loro si uniscono le voci, frizzanti e critiche, dei figli: Farida, sveglia e simpaticissima, alle prese con l’amore per un ragazzo italiano, e Salah che sta per compiere diciotto anni. Lui, più scanzonato, sogna di fare il cantante mentre la sorella non ha occhi che per la sua fiamma.
Improvvisa e inaspettata una notizia che gela i ragazzi. Dopo anni di fatiche e sacrifici i Mansour ce la fanno: hanno messo da parte un gruzzolo sufficiente per comprare casa. Solo che - e lì lo shock - la casa dei sogni per i genitori è in Tunisia mentre i ragazzi vogliono restare a Roma. Si sentono italiani e non vogliono uscire dal raccordo anulare mentre per Amina e Mohamed, i loro figli sono tunisini, perché la tradizione e l’origine contano più del nascere in un altroPaese. Hai voglia a farlo capire ai ragazzi! Loro non ci stanno. E, nell’andirivieni di conversazioni sempre più accese, la famiglia Mansour si trova alle prese con un autentico scontro generazionale che metterà a dura prova il rapporto tra i quattro.
Mohamed ripete a Salah, intraprendente e volitivo, che non basta essere nati in Italia per considerarsi italiani. Ma ai i ragazzi basta eccome. Hanno amici, sogni e progetti e immaginano il futuro nella città in cui sono cresciuti. L’epilogo, ardito e conciliante, si concretizzerà in un ulteriore sforzo per i coniugi Mansour. Uno sforzo concettuale, per comprendere i ragazzi, ed economico, per intraprendere la strada che hanno scelto. Amina e Mohamed torneranno in Tunisia ma lasceranno ai figli la possibilità di proseguire la loro vita nella città cui si sentono di appartenere. Li sosterranno a distanza negli studi e nel futuro impiego, rispettando la loro volontà di non lasciare l’Italia. Un lavoro sulle radici, quindi, culturali o sociali che siano. Un’occasione, tramite una fiction, di riflettere sul complesso mondo della migrazione. Ma anche un’opportunità, quella di indagare i sogni e i bisogni di due generazioni a confronto.
Due realtà ben diverse – come racconta la fiction di Lidia Riviello – emblema di un autentico melting pot che sta prendendo piede nel nostro Paese. Secondo una ricerca della Fondazione Lelio Basso, nelle nostre scuole ci sono 192 nazionalità mentre nelle Nazioni Unite sono poco più di duecento. Per lo più sono albanesi, marocchini, egiziani, tunisini, cinesi, romeni, asiatici con una netta maggioranza di religione musulmana. Eppure a occuparsi della cosiddetta G2 – Seconda generazione – non sono solo gli istituti di ricerca. Anche l’Università fa il suo. Il fenomeno è stato infatti osservato anche dal Dipartimento di Statistica dell’Ateneo di Padova in collaborazione con numerosi altri istituti italiani e l’Ismu (Iniziative e studi della multietnicità di Milano). Il tutto in uno studio coordinato dal professor Gianpiero Dalla Zuanna svolto su 48 province, tutte con la caratteristica di avere scuole con alte percentuali di studenti immigrati. “Il campione prescelto - si legge in una sua recente dichiarazione - riguarda diecimila ragazzi d’origine straniera e altrettanti italiani, un campione misto per misurare veramente sul campo il livello di integrazione. Ci siamo poi concentrati sui tre anni delle medie inferiori perché riteniamo sia in questa fascia d’età che si possa ancora intervenire. Oltre è già troppo tardi”. L'indagine sul campo è durata sei mesi. A colpire è il fatto che la percezione della differenza e gli elementi di disagio siano forti pur tra ragazzini così piccoli anche in apparenza integrati nella scuola, negli abiti, nei sogni. Alla domanda se il colore della pelle conta – racconta il docente – “la netta maggioranza dei ragazzini risponde sì. E spiegano di avvertire forte il disagio legato a questo tipo di differenza in un’età, tra l’altro, cruciale per la scoperta del corpo”. Sorpresa della ricerca, il fatto che l’integrazione è molto più compiuta a livello economico che non culturale. Ad esempio la forbice tra la percezione della propria ricchezza che hanno i ragazzi figli di immigrati rispetto a quelli italiani è minima: il 29,9 per cento dei primi si sente, diciamo così, ricca e agiata mentre la percentuale degli italiani è del 35,6 per cento.
Una differenza, appunto, minima. Comune a tutti i figli dei migranti, la sezione dedicata ai sogni e alle speranze. “La voglia di riscatto e di crescita sociale è molto forte - spiega Dalla Zuanna - dietro ci sono genitori che vedono nei figli una possibilità di riscatto personale”. Eppure di ostacoli ce ne sono. Secondo lo studio dell’ Università di Padova, sarebbero la lingua e la percezione diffusa tra i ragazzini italiani che gli stranieri portino via lavoro e ricchezza. Per il 70 per cento dei G2 intervistati quello della lingua resta “un ostacolo effettivo per l'integrazione”: non lo parlano bene loro e spesso non lo parlano affatto in famiglia.
A tal proposito l’indagine condotta nelle scuole medie-inferiori di Bologna dal Comune in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna e l'Ufficio scolastico regionale, evidenzia che, rispetto agli adolescenti albanesi, tunisini e marocchini - più abituati a parlare l’italiano anche tra le mura domestiche - quelli cinesi, indiani e pakistani faticano più ad apprendere la lingua e a stringere rapporti di amicizia con i coetanei italiani. L'indagine, che ha interessato un campione di 3.801 ragazzi tra i 12 e i 14 anni, ha preso in esame aspetti legati alle reti amicali e agli stili di vita, alla percezione di sé e alla percezione di come si sentono trattati rispetto ai coetanei italiani, alla competenza linguistica, alla struttura familiare e alle condizioni economiche.
Quel che è certo è che sono un mondo in continua crescita che farà molto parlare di sé, anche in rapporto all’importanza nello siluppo sociale del nostro Paese. Amara Lakhous, scrittore algerino, ormai noto anche in Italia, ha spesso sottolineato quanto i problemi delle seconde generazioni non siano esistenziali ma di vita reale. A partire, talvolta, dal riconoscimento del diritto di cittadinanza per finire col disagio di alcuni ad accettare la propria molteplicità. Come Omar, figlio di egiziani che, con lo sguardo triste, in un incontro a scuola con Amara Lakhous, ha confessato: “A Roma mi chiamano l’egiziano.
In Egitto, l’italiano”. Ecco perché - sottolinea Paula Baudet Vivanco, giovane giornalista italocilena, intervistata in un recente incontro - sarebbe bene lavorare assiduamente sul piano della comunicazione. E’ inesatto definire immigrate le seconde generazioni. Questi ragazzi - come me per altro - sono italiani a tutti gli effetti ed è giusto che possano sentirsi tali, sia dal punto di vista culturale sia della cittadinanza”.

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