In Nicaragua abortire è un reato. Anche
quando la vita di una donna è in pericolo
o la gravidanza è il frutto
di uno stupro. La chiesa esulta, le femministe
protestano. E puntano il dito contro
Daniel Ortega, l’ex rivoluzionario sandinista
che, per ottenere la presidenza, si è
reinventato fervente cattolico
Per arrotondare il suo stipendio, Maria de Jesus Gonzalez prendeva ogni due o tre mesi un pullman e si recava a Managua, dove restava per una settimana lavando e stirando abiti. Questo lavoro, svolto in condizioni di semischiavitù, le rendeva il triplo in più del normale, circa 5,20 dollari al giorno. Durante uno di questi soggiorni nella capitale, Maria ha avuto un malore e si è recata subito al pronto soccorso. I medici le hanno dato una notizia sconvolgente: era incinta. Purtroppo, però, la gravidanza era extrauterina, quindi non vi era nessuna possibilità di salvare il bambino. Appresa la notizia, Maria ha preso il primo autobus ed è tornata al suo villaggio. Qui si è rivolta a due “guaritrici” che, senza alcun tipo di anestesia né di strumenti appropriati, hanno tentato di farla abortire nella sua capanna. L’ “intervento” ha provocato una grave emorragia e, dopo una lunghissima agonia, Maria è morta.
Quella di Maria (come di moltissime donne nicaraguensi) può sembrare una scelta assurda e azzardata. Ma non lo è, se si considera che in Nicaragua abortire è un reato. Anche in caso di stupro, incesto, gravi malformazioni del feto o patologie che mettano in serio pericolo la vita della madre. Lo ha stabilito una legge entrata in vigore lo scorso novembre, approvata quasi all’unanimità dal Parlamento, che sancisce pene detentive di due o tre anni non solo per la donna che interrompe la gravidanza, ma anche per il medico che l’assiste.
In pochi mesi, le conseguenze di questo provvedimento hanno assunto proporzioni preoccupanti. Da una parte, le donne nicaraguensi hanno paura di chiedere assistenza medica in caso di complicazioni legate alla gravidanza, perché temono di essere accusare di aver indotto volontariamente l’aborto. I medici, dall’altra, piuttosto che rischiare di andare in tribunale o di perdere la licenza, preferiscono lasciarle morire. Un recente report di Human Rights Watch racconta la tragica storia di una donna alla quale i medici, nonostante una gravissima emorragia, hanno negato le cure necessarie poiché il feto era ancora vivo. Né la mamma né il bambino sono riusciti a salvarsi e la figlioletta di tre anni è rimasta sola, affidata alla nonna che vive in condizioni di assoluta indigenza.
Nel mondo le nazioni antiabortiste sono 69, ma 34 di queste (tra cui l’Irlanda e gli Emirati Arabi) prevedono eccezioni in caso di rischio di vita. Altri 32 paesi, fra cui l’Iran, permettono un’ “interpretazione” della legge, che consente l’aborto terapeutico almeno nei casi più gravi. Il Nicaragua, invece, come il Cile e El Salvador, vieta l’interruzione di gravidanza anche quando questa è a rischio o è frutto di uno stupro. Questo divieto categorico ha fatto sì che la maternità sia diventata la prima causa di morte per le donne nicaraguensi. In realtà, la regolamentazione è poco chiara. Lo scorso dicembre, infatti, il ministero della Sanità ha diffuso dei protocolli da cui è emerso che l’interruzione di gravidanza extrauterina è una pratica legale, poiché il feto non è situato all’interno dell’utero. La maggior parte dei medici, però, in preda al timore e alla confusione, ignora questi protocolli, preferendo astenersi da ogni tipo di intervento per non correre rischi con la legge.
Vietare l’aborto nelle strutture ospedaliere ha spinto molte donne a rivolgersi altrove. Ma, mentre quelle più ricche e meglio informate prendono un volo per Miami o ripiegano sulle numerose (e costosissime) strutture non autorizzate di Managua, le più povere muoiono in qualche capanna in seguito alle mutilazioni di medici improvvisati e guaritori. E, anche quando l’interruzione di gravidanza non comporta complicazioni mortali, le ferite che queste donne portano dentro non si rimarginano tanto facilmente. «E’ un dolore che ti accompagna ovunque. E la cosa terribile è che non puoi parlarne con nessuno, perché abortire è un crimine» racconta ai medici di Human Rights Watch Mariana S., una donna gravemente malata che, quando ha scoperto di essere incinta, ha dovuto sospendere le cure. In pochi giorni, le sue condizioni di salute sono peggiorate in maniera preoccupante: se avesse continuato a non prendere le sue medicine, sarebbe morta tra atroci sofferenze nell’arco di poco tempo. Mariana, già madre di due bambini, ha deciso allora di interrompere la gravidanza, per essere in grado di prendersi cura dei figli che aveva già messo al mondo. Dopo aver provato ad avere un aborto ingerendo una massiccia dose di pillole, Mariana è stata ricoverata in una clinica dove ha superato l’intervento senza alcuna complicazione. In questo caso, l’aborto non solo ha salvato la vita di una madre, ma anche di due figli piccoli che altrimenti sarebbero rimasti orfani.
Sofia M., una ragazza di 20 anni affetta da una grave infermità mentale, ha avuto un’esperienza simile a quella di Mariana. Molti anni prima le era stato diagnosticato un disturbo psichico che, se non curato, si manifestava con incontrollabili episodi di violenza. Lo scorso dicembre, quando ha scoperto di essere incinta, Sofia sapeva bene che non poteva portare a termine la gravidanza: come poteva mettere al mondo un figlio quando non era neanche in grado di prendersi cura di sé stessa? Così è iniziato il suo pellegrinaggio da una clinica all’altra. Nessun medico, però, ha voluto rischiare di finire in tribunale e Sofia è stata costretta a rivolgersi a una struttura non autorizzata, dove alcuni medici praticano illegalmente l’interruzione di gravidanza. Il suo intervento, fortunatamente, è andato a buon fine.
Anche la figlia ventiduenne di Angela M. fu respinta dall’ospedale di Managua, quando si presentò con una grave emorragia. I dottori le dissero di non preoccuparsi, perché non aveva nulla, e l’hanno lasciata sanguinare nella sala d’attesa, per ore ed ore, finché non si è accasciata sulla sua sedia. «Era tutta viola, irriconoscibile. Non somigliava neanche più a mia figlia», ha raccontato Angela M. ai dottori di Human Rights Watch.
Episodi come questi continuano a ripetersi ogni giorno. Eppure, la fazione degli antiabortisti è in preda all’euforia. La legge che vieta l’interruzione di gravidanza, infatti, è un punto di riferimento nella lotta per il diritto alla vita. Anche Papa Benedetto XVI ha accolto favorevolmente il bando, pur precisando che le donne non dovrebbero soffrire o perdere la vita a causa delle nuove disposizioni. Purtroppo, però, sono pochi i dottori disposti a compiere un atto illegale pur di salvare la vita di una donna.
Anche tra i poliziotti c’è chi manifesta qualche dubbio su questa legge. A Bluefields, l’ispettrice Martylee Ingram racconta il caso di una ragazzina di 11 anni, Vera, che è stata stuprata e oggi è incinta di 27 settimane. Quando i volontari di Human Rights Watch le chiedono se, a suo parere, Vera dovrebbe tenere il bambino, esita per qualche istante. La legge dice di sì, e lei ha il compito di farla applicare. Ma poi confessa: «Come donna e come poliziotta direi di no. Penso che non dovrebbe averlo. Una bambina che mette al mondo un bambino...Rischierebbe di perdere la vita».
Oggi il Nicaragua è al centro di una battaglia globale in difesa del diritto all’aborto. Impedendo alle donne di accedere ai servizi sanitari che potrebbero salvare loro la vita, il bando viola gli obblighi previsti dalla legge internazionale sui diritti civili. La libertà di religione è un diritto innegabile, ma il governo nicaraguense non dovrebbe usarla come pretesto per violare i diritti fondamentali delle donne e mettere in serio pericolo la loro vita.
In realtà, alla base di questa legge c’è ben più di una fervente convinzione religiosa. Il motivo sta tutto in un intrico di politica e potere ordito dal governo sandinista, movimento in cui, un tempo, si riconoscevano le femministe e i sostenitori dell’aborto. Negli anni Ottanta, infatti, i sandinisti seguivano i principi del marxismo ed erano impegnati in una sanguinosa lotta contro i contras, sostenuti dagli Stati Uniti. Dopo la fine del conflitto, però, il loro leader Daniel Ortega ha perso la presidenza. Durante la corsa alle elezioni dello scorso novembre, il cardinale Obando y Bravo, arcivescovo di Managua, ha promosso una martellante campagna antiabortista. Nel tentativo di riconquistare il potere, Ortega ha chiesto ai sandinisti di appoggiarlo e ha contribuito a far sì che la legge entrasse in vigore pochi giorni prima del voto. Reinventatosi fervente cattolico, l’ex rivoluzionario ha ottenuto la presidenza.
Molti ex funzionari si dicono disgustati dal comportamento del leader e hanno lasciato il partito, ma la loro protesta non è valsa a nulla. Inutile anche quella di alcune delle femministe più accese dell’America centrale, che hanno interrotto la celebrazione della messa nella cattedrale di Managua. Sul piano legale, la loro strategia prevede il ricorso alla Corte suprema, affinché dichiari la legge incostituzionale. Difficile che questo accada, considerando che la maggior parte dei membri sostiene il governo sandinista. Probabilmente, per vedere dei risultati, l’unico modo è coinvolgere le Nazioni Unite e i tribunali internazionali, che si occupano della tutela dei diritti umani.
Più che il frutto di una reale preoccupazione per la vita di chi nasce, questa legge è stata il debito che Ortega ha dovuto pagare per la sua elezione. Un orrore non solo morale, perché non lascia spazio alla libertà dei cittadini, ma anche politico, perché la vita di molte donne è stata usata come merce di scambio. Esperienze in altri Paesi (Italia compresa) hanno dimostrato che vietare l’interruzione di gravidanza non solo non risolve il problema, ma ne crea ulteriori, come la moltiplicazione dei luoghi illegali dove l’aborto viene comunque praticato. Un’adeguata politica sociale dovrebbe prevenire le gravidanze indesiderate, favorendo la possibilità che ogni bambino sia il frutto di una scelta e le condizioni che permettano una maternità responsabile e consapevole.
Del resto, mettere al mondo un figlio non è sempre una scelta facile e indolore. Il governo del Nicaragua si nasconde dietro lo stereotipo della donna che ricorre all’aborto come metodo contraccettivo, senza scrupoli e capace di pensare solo a se stessa, che non sa cogliere la bellezza di una vita che nasce. Ma ci si dimentica, forse, che quelle donne sono, nella maggior parte dei casi, vittime di violenze. Spesso sono solo delle bambine, costrette a mettere al mondo altri bambini e a condannarli a una vita misera e dolorosa. Sono donne che decidono di non far nascere un figlio non voluto, donne che, malate, rischiano di dare alla luce figli malati. Donne che desiderano per i propri figli salute e una vita serena.
Donne che, per questo, vengono additate come la personificazione della colpa contro l’umanità.
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