L’impossibilità di domare la resistenza
dei ribelli, e soprattutto i timori suscitati,
anche negli alleati Sauditi, dal potere assunto
dagli sciiti, ideologicamente legati
all’Iran, ha convinto l’amministrazione Bush
a cercare un rapporto con le milizie
sunnite: una manovra quasi obbligata,
che però non manca di incognite
Il 19 marzo 2003, alle 22.16 ora di Washington, George W.Bush annunciava che “forze militari americane e della coalizione hanno cominciato operazioni militari per disarmare l’Iraq, liberare il suo popolo e difendere il mondo da un pericolo grave”. Il discorso del presidente era preceduto dalle accuse rivolte a Saddam Hussein di essersi dotato di micidiali armi di distruzione di massa, e di sostenere i terroristi di al-Qaeda. Accuse sostenute fino all’ultimo, con l’avallo del governo britannico, allora diretto da Tony Blair, e persino il sostegno di un dossier (rivelatosi integralmente falso) di origine italiana, sulla cui paternità non si è mai andati veramente a fondo.
Comunque la guerra era cominciata, con molti massicci bombardamenti, e un’invasione da parte delle truppe americane e britanniche contrastata in poche battaglie nelle quali l’esercito iracheno venne rapidamente sconfitto, a riprova che non solo Saddam Hussein non era in possesso di armi di distruzione di massa, ma era anche piuttosto scarso in quelle convenzionali. Il 9 aprile gli americani entrarono a Baghdad, abbatterono le statue del dittatore (che amava diffondere ovunque la sua immagine), e – lasciando la capitale in mano ai saccheggiatori, in prevalenza sciiti dei quartieri popolari – si limitarono a presidiare il ministero del petrolio.
Il petrolio, del quale l’Iraq era grande produttore – forse il secondo dopo l’Arabia Saudita - , e qualcuno ricordò che alcuni mesi prima dell’intervento americano Saddam Hussein aveva firmato con compagnie europee (tra le quali l’Eni) cospicui contratti per l’estrazione dell’oro nero dai giacimenti iracheni, contratti che sarebbero divenuti effettivi una volta abolito l’embargo; escludendo le multinazionali di marca Usa, alle quali era molto legato il vicepresidente Dick Cheney. Ed era stato Cheney a insistere perché ci si affrettasse a invadere l’Iraq, entrando anche in forte contrasto con la Cia, “incapace” di trovare, o inventare, delle prove per giustificare il conflitto. Era stato quello il motivo della guerra? L’amministrazione Bush aveva voluto evitare che gli amici-rivali europei acquisissero robusta dose di autonomia energetica? No, naturalmente no. Al massimo può essersi trattato di un malinteso.
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Malgrado la vittoria annunciata nel maggio 2003, la guerra non è mai finita. Anche se sulla scia del proclamato successo Washington aveva raccolto una “coalizione di volenterosi” costituita da governi convinti di partecipare a un’operazione ormai conclusa. E il 12 novembre, 17 militari e due civili del corpo di spedizione italiano, posto sotto comando britannico, venivano uccisi in un attentato alla basa di Nassiriya. Il 13 dicembre la cattura di Saddam Hussein ad Al Dawr era stata presentata come un successo conclusivo. Ma la guerra non è mai finita. Ha solo assunto i connotati di una strage continua, costringendo gli occupanti ad affrontare una rivolta di gruppi armati e di terroristi suicidi, che nello stesso tempo si combattevano tra di loro, mentre in tutto il paese veniva effettuata una “pulizia” etnica e religiosa che negava decisamente l’assunto proclamato di mantenere l’unità dell’Iraq. Sunniti, sciiti, curdi, e altre minoranze, ognuna in lotta contro le altre per conservare il controllo del proprio territorio, della propria casa, o semplicemente la vita. Il bilancio di questi cinque anni è eloquente. Tra gli americani, 4000 morti, 30.000 feriti gravi, e un numero imprecisato di feriti meno gravi e di soldati colpiti da traumi psichici. Per gli iracheni, oltre un milione di morti (secondo l’istituto britannico di sondaggi Oxford Research Bureau), decine di migliaia di invalidi, 2 milioni di profughi in Siria e in Giordania, 2,5 milioni di sfollati all’interno dell’Iraq. Dei 34.000 medici iracheni, 17.000 hanno espatriato, 2.000 sono stati uccisi. Le distruzioni materiali sono talmente estese che è difficile farne un bilancio.
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Le guerre, si sa, non si limitano a uccidere, ferire, distruggere. Le guerra hanno un prezzo, che qualcuno, prima o poi, deve pagare. Quanto costa la guerra in Iraq? L’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld aveva preventivato una spesa complessiva di 50-60 miliardi di dollari, lasciando intendere che il petrolio iracheno avrebbe rapidamente coperto questa spesa. Nel marzo 2008 il Pentagono ha annunciato che i costi della guerra hanno già raggiunto i 600 miliardi di dollari, ma Joseph Stiglitz, professore di Economia alla Columbia University, Premio Nobel per l’Economia nel 2001, autore con Linda Bulmes, docente di Harvard, del libro “The Three Trillion Dollar War” (La guerra da tre trilioni di dollari), fa salire di molto questa cifra. In un articolo pubblicato in Italia da La Repubblica, Stiglitz afferma che è stata fatta “una stima prudenziale dell’impatto economico della guerra in Iraq, calcolando che per gli Stati Uniti si sia trattato appunto di costi nell’ordine dei tremila miliardi di dollari, e di altrettanti per il resto del mondo, molto di più di quanto l’Amministrazione Bush avesse calcolato prima della guerra… L’Amministrazione ha cercato di nascondere all’opinione pubblica americana i costi effettivi della guerra. Le associazioni dei veterani hanno dovuto ricorrere al Freedom of Information Act per scoprire il numero complessivo dei feriti, pari a 15 volte quello dei caduti. Già adesso sono 52.000 i veterani tornati dal fronte ai quali è stata diagnosticata la sindrome da stress post-traumatico. L’America dovrà risarcire e versare assegni di invalidità a circa il 40 per cento dei 1.650.000 soldati che sono stati mandati in Iraq. Naturalmente, questo stillicidio continuerà inesorabile per tutto il tempo che durerà la guerra, mentre il conto finale dell’assistenza medica e dei risarcimenti per invalidità già sfiora i 600 miliardi di dollari (ai valori attuali) … In questa guerra si contano solo due vincitori: le compagnie petrolifere e i “contractor” della Difesa. Le azioni della Halliburton, la vecchia compagnia del vicepresidente Dick Cheney, sono arrivate alle stelle”. In effetti, la produzione di petrolio è attualmente di 2,3 milioni di barili al giorno (risalendo quasi ai livelli del 2002), esportati in gran parte dal porto di Bassora, che il comando del contingente britannico ha da tempo lasciato nelle mani delle milizie sciite. Però, mentre i profitti delle multinazionali del petrolio come la Exxon sono dell’ordine di miliardi di dollari, in cinque anni per i consumatori americani il prezzo della benzina è raddoppiato. Per finanziare la guerra in Iraq, il governo al “deficit spending”, alla spesa in disavanzo coperta da prestiti esteri, in gran parte cinesi. Il conto, fatalmente destinato ad aumentare, sarà pagato da chi verrà dopo.
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“Gli Stati Uniti possono e debbono vincere la guerra. L’aumento delle nostre truppe in Iraq ha cambiato la situazione. La popolazione si è unita ai nostri soldati per cacciare al-Qaeda. Si è aperta la porta a una grande vittoria strategica nella guerra al terrorismo”: con queste parole George W.Bush ha salutato il quinto anniversario dell’inizio del conflitto, quasi a voler rassicurare quel 64% di americani che vorrebbe un rapido ritiro dalla Terra tra i due fiumi. Sfortunatamente per lui, Bush non è mai stato troppo abile nell’imbastire le proprie dichiarazioni, e i suoi consiglieri non devono essere molto più esperti. Affermare che si può e si deve vincere, cinque anni dopo aver annunciato di aver vinto, non è davvero il massimo. E limitare i problemi in Iraq all’espulsione di al-Qaeda da quel Paese, alludendo a “una grande vittoria strategica nella guerra al terrorismo” equivale a mettere insieme un miscuglio di deformazioni, inesattezze, e palesi menzogne, smascherato proprio dall’istituzione delegata a organizzare e seguire le vicende belliche.
Una settimana prima del discorso del presidente, un’analisi del Pentagono, basata sull’esame di 600mila documenti, ha smentito ufficialmente e definitivamente che Saddam Hussein avesse dei legami con al-Qaeda. L’ex dittatore non dava alcun sostegno allo jihadismo, né favoriva gli attentati contro obiettivi americani. Del resto, era già stato assodato da altre inchieste che Saddam aveva sempre impedito – al contrario di altri governi arabi – a Osama bin Laden di mettere piede, lui o i suoi luogotenenti, in Iraq. al-Qaeda ha potuto entrare per la prima volta in Iraq solo dopo l’occupazione da parte di americani e britannici, ed è riuscita in parte a inserirsi nella guerriglia sunnita con elementi stranieri (il capo locale, Al Zarqawi, era un giordano) puntando sulla comune fede religiosa, e partecipando attivamente ai regolamenti di conti con gli sciiti.
Venuto dopo il rapporto della Cia nel quale si smentiva che Saddam Hussein stesse preparandosi a fabbricare armi di distruzione di massa, raccogliendo ingenti quantitativi di uranio arricchito, il documento del Pentagono demolisce una volta per tutte le fandonie presentate come prove per giustificare la necessità, anzi l’urgenza, della guerra. Bush ha semplicemente fatto come se il documento non esistesse, premurandosi comunque che non venisse dato alla stampa, e non fosse diffuso su internet: chi vuole conoscerlo deve chiedere che gli sia inviato per posta. Una mossa, a dir poco, ingenua: la Abc News lo ha immediatamente avuto dalle solite fonti riservate, e lo ha reso pubblico.
Però, dietro le parole entusiaste del presidente qualcosa di nuovo c’è: una “nuova strategia” - non “contro il terrorismo” poiché gli attentati a Baghdad e dintorni non riguardano il pericolo del terrorismo globale di marca jihadista -, un cambiamento di rotta per cercare di contenere il predominio sciita. Un risultato che paradossalmente George W.Bush ha regalato all’Iran degli ayatollah, entrato in perfetta sintonia con i suoi correligionari iracheni. Si tratta di una realtà ben nota, che per motivi contorti il presidente e i suoi consiglieri hanno voluto ignorare: l’Iraq assolveva la funzione di “guardiano” dell’Iran, e Saddam Hussein era stato l’unico – con una guerra appoggiata dall’Occidente e finita in parità – a cercare di abbattere il regime khomeinista. Per sostenere il suo potere dittatoriale, Saddam aveva fortemente privilegiato i sunniti, bloccando con sanguinose repressioni le richieste degli sciiti, la maggioranza (il 60%) della popolazione. Abbattendo Saddam e distruggendo tutto il suo sistema di potere, gli americani hanno rimesso in carreggiata la maggioranza sciita (per motivi religiosi filo-iraniana), e hanno spinto i sunniti iracheni, tendenzialmente “laici” e alieni dal fondamentalismo, ad accettare l’offerta di aiuto dei terroristi di al-Qaeda per resistere sia agli occupanti, sia alla rinnovata aggressività degli sciiti.
Del resto, nel puzzle iracheno l’intervento militare di Washington non avrebbe potuto provocare altri risultati. Non a caso un altro George Bush, il padre dell’attuale presidente, una volta vinta (quella davvero vinta) la Guerra del Golfo, aveva vietato che le truppe, dopo aver liberato il Kuwait invaso da Saddam, e sbaragliato l’esercito iracheno, avanzassero fino a Baghdad per eliminare il tiranno e il suo regime.
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Una nuova strategia, ha detto il presidente. E a metterla in atto è il generale David Petraeus, l’ultimo arrivo sulla ribalta di Baghdad, al quale è stato affidato il compito di raddrizzare la situazione. Un segno vistoso di cambiamento si è avuto la domenica di Pasqua, quando la “zona verde” di Baghdad (quella dove sono trincerati i comandi Usa e quasi tutte le ambasciate) è stata bersagliata da razzi terra-terra. Non era certo la prima volta, la novità sta nel fatto che questa volta i razzi erano sciiti. “Gli attacchi alla zona verde sono stai compiuti da cosiddetti ‘gruppi speciali’, addestrati e armati dall’Iran. Erano razzi iraniani quelli che sono stati lanciati qui”, ha detto il generale Petraeus in un’intervista a Francesca Caferri di La Repubblica. Finora i razzi – come le bombe e le sparatorie – erano sunniti. Se hanno cambiato marca è perché il governo di Washington ha deciso di tentare una manovra che in un certo senso gli è stata imposta: dato che vincere la resistenza dei ribelli sunniti era troppo difficile, e che comunque reprimere i sunniti significava dare sempre più spazio agli sciiti (filo-iraniani), forse l’unica era mettersi d’accordo con i sunniti, convincendoli a sbarazzarsi del supporto di al-Qaeda. All’operazione è stato dato un nome suggestivo, Sahwa, Il Risveglio, l’etichetta che distingue le milizie di guerriglieri sunniti finanziate dagli americani. Per combattere gli uomini di al-Qaeda, dice Petraeus, che in Iraq “ha portato morte, distruzione, e un’ideologia wahabita che qui la gente non condivide”. E’ vero, e si vede che Petraeus, a differenza dei suoi superiori, ha studiato la lezione, ma il generale potrebbe aggiungere che quell’ideologia wahabita, alla base della dottrina terrorista di Osama bin Laden, ha una sola patria, dove è tuttora rispettata e praticata, l’Arabia Saudita, tradizionale alleato degli Stati Uniti. Una piccola contraddizione sulla quale comprensibilmente è preferibile tacere.
Comunque, il progetto delle Sahwa è stato avviato, seguendo il cammino dei contatti con le comunità tribali disponibili ad accettare dollari e armi in cambio di una forma di collaborazione che – almeno nelle promesse – preservi la loro identità. “Il processo è iniziato – assicura il generale – in 7000 sono stati accettati solo a Baghdad, 20mila sono già in formazione. Non è certo stato facile”. Infatti Petraeus ammette che i membri delle Sahwa “non sono stati sempre i benvenuti da parte di qualche membro del governo. Questo è un governo a maggioranza sciita”. In realtà il vero problema non è tanto il governo presieduto da Al Maliki, così poco efficiente da non tenere nemmeno il conto esatto dei civili uccisi mese per mese, ma altre entità più consistenti. In primo luogo, l’Esercito del Mahdi, diretto da Moqtada Al Sadr, il braccio armato dell’ala estremista della comunità sciita, che controlla la provincia di Bassora, e Sadr City, il grande quartiere popolare di Baghdad.
Da cinque anni Moqtada Al Sadr non nasconde l’ambizione di diventare il capo della comunità sciita irachena, e ritiene, non a torto, che il premier Al Maliki sia una figura priva di reale potere, che deve la sua sopravvivenza solo alla presenza militare americana. Nel marzo scorso quello che viene chiamato “esercito iracheno”, e che nei fatti è costituito unicamente da miliziani sciiti la cui fedeltà al governo è garantita solo dalla paga che ricevono (un argomento che pesa dato l’alto tasso di disoccupazione), è stato incaricato da Al Maliki di allentare la morsa dell’Esercito del Mahdi a Bassora: ne sono nati dei violenti scontri, ai quali il contingente britannico (che da qualche tempo è sul piede di partenza) ha prudentemente partecipato solo con qualche bombardamento aereo. E Moqtada ha subito fatto sentire la voce delle sue armi da Sadr City.
Nel complesso, assicura David Petraeus, le violenze sono diminuite, e questo è vero. Ma l’apparente miglioramento è dovuto essenzialmente al fatto che l’Iraq, dopo tre anni di una sanguinosa “pulizia etnica” praticata da tutte le parti in lizza, e le obbligate migrazioni interne, è sostanzialmente diviso in zone tra loro separate – sciite, sunnite, curde -, riducendosi così le occasioni di scontro fra i gruppi diversi. Laddove la separazione non è ancora totale, continuano sparatorie e attentati.
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Un esempio significativo della persistenza di focolai di instabilità è Mosul, città del nord, geograficamente collocata nel Kurdistan iracheno: affidata dagli americani al controllo dei miliziani “peshmerga” curdi, Mosul è tornata nel marzo scorso agli onori delle cronache a causa del rapimento e l’uccisione del vescovo cattolico-caldeo Faraj Rahho. La città, importante centro petrolifero, è abitata da curdi, arabi sunniti, turcomanni, e una minoranza di arabi cristiani; il giorno di Pasqua è stato teatro di scontri e attentati, provocati, secondo il comando americano, dai membri di al-Qaeda fuggiti a nord sotto la pressione unita delle forze americane e delle milizie “sahwa”. “Gli attacchi di al-Qaeda – ha detto il generale Petraeus – sono il risultato della pressione a cui sono sottoposti, in particolare a Mosul: questa è una delle aree dove Aal-Qaeda ha avuto a lungo maggiore spazio di manovra, e dove nell’ultimo anno si è concentrata maggiormente l’azione delle forze della coalizione e di quelle irachene. Si tratta di un’area importante dal punto di vista strategico, ci sono le strade per la Siria e per l’Iran, e si tratta di un’area con popolazione mista”.
Una situazione particolarmente complessa, in un Paese nel quale non esistono situazioni semplici. A Mosul i curdi hanno il controllo della sicurezza, se così si può chiamare, per delega degli americani, da loro sostenuti sino dall’inizio della guerra. Questo ha permesso ai “peshmerga” di mettere in atto una discreta “pulizia etnica” mirante ad allontanare dalla zona il maggior numero possibile di sunniti e turcomanni: come risposta, i sunniti di Mosul e dintorni hanno accettato il non disinteressato aiuto offerto da al-Qaeda, che ora si sarebbe arroccata in quella zona per dimostrare di non essere completamente sparita dalla scena. Ammesso che scontri e attentati siano davvero, e unicamente, opera dei qaedisti.
D’altra parte, non è chiaro a chi si debba attribuire il rapimento e la morte del vescovo Rahho, che si inserisce in un’operazione di “pulizia” non tanto etnica quanto religiosa, condotta da “gruppi islamisti”, definizione che si può genericamente adattare ai sunniti, di al-Qaeda e no, e persino ai curdi, che anch’essi sono in prevalenza di religione sunnita, anche se in loro è prevalente il sentimento di identità nazionale.
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Tornando alla “nuova strategia”, va detto che la sua idea originaria – annunciata dal presidente Bush come un successo personale - non è nata a Washington ma alla corte di Abdullah, re dell’Arabia Saudita. Da tempo il sovrano e i suoi consiglieri (quasi tutti parenti dei Saud, e tutti miliardari) sono preoccupati dal rafforzamento dell’Iran e dei suoi seguaci sciiti, conseguenza diretta dell’intervento militare americano in Iraq. Esattamente un anno fa, in un articolo pubblicato nel numero di aprile 2007 di Polizia e Democrazia (“Fra lo sciita e il sunnita provo a mettere le dita”) nel quale, sulla base di un’inchiesta di Seymour Hersh, uno dei più noti giornalisti investigativi americani, più volte inviato in Iraq, si prevedeva “una nuova strategia della Casa Bianca da portare avanti in Iraq, inserendosi nella guerra civile in corso con un mutamento di rotta nelle scelte tra i contendenti”. Seymour Hersh affermava che quel mutamento di rotta era stato espressamente chiesto dai sauditi, e in particolare dal principe Bandar bin Sultan, per 22 anni (fino al 2005) ambasciatore a Washington, vecchio amico (per interessi petroliferi) del vicepresidente Dick Cheney, uomo potente e rispettato nella capitale Usa per le sue frequenti e generose elargizioni.
“Bandar bin Sultan – citiamo un passaggio dell’articolo di PeD dell’aprile 2007 - era al fianco del re Abdullah quando nel novembre scorso, Dick Cheney ha compiuto una visita lampo a Rijad. Il monarca e il suo consigliere per la sicurezza nazionale hanno avvertito il vicepresidente che nel caso di un disimpegno americano in Iraq, e di un conseguente passaggio delle consegne all’attuale governo di Baghdad, l’Arabia Saudita avrebbe sostenuto a fondo i ribelli sunniti. Il contrasto tra i Saud e l’Iran data da quando a Teheran si era installato con Khomeini il regime teocratico degli ayatollah, e si è acutizzato dopo le ‘intrusioni’ iraniane nella penisola arabica, ricca di giacimenti petroliferi, abitata da una minoranza sciita che recentemente ha manifestato, con attentati terroristici, una netta tendenza alla rivolta”. Insomma, visto che Bush e i suoi hanno eliminato l’unica forza militare in grado di arginare l’Iran, che ha un esercito di 450mila uomini (mentre quello di Abdallah ne ha 75mila), l’Arabia Saudita è disposta è disposta a finanziare massicciamente i sunniti iracheni, comprese le frange più estremiste. Gli amici americani, nel loro stesso interesse, devono adeguarsi a questa politica. Del resto i Sauditi si sono dimostrati pronti a finanziare anche “operazioni speciali” dirette contro il regime siriano, alleato di Teheran, persino servendosi dei Fratelli Musulmani, nemici dichiarati degli Stati Uniti e di Israele, ma egualmente nemici del regime di Damasco, che punisce con la pena di morte l’appartenenza alla loro organizzazione.
In un tale intrico di reciproche ostilità e di subdole alleanze, non è semplice trovare un filo conduttore che abbia un minimo di logica, e, se possibile, di “rispettabilità”. A parole si finge di considerare l’inizio del distacco dei sunniti da al-Qaeda un successo nel quadro della “guerra al terrorismo”, come se le truppe americane avessero attaccato l’Iraq per colpire al-Qaeda, mentre prima del loro ingresso in Iraq dei seguaci di Osama bin Laden non vi era traccia. Certo, le “sahwa” indicano un ripensamento da parte dell’amministrazione Bush, ma sarebbe azzardato sostenere che le nuove milizie sunnite siano un segnale di “riconciliazione” tra le diverse comunità. Nell’Iraq di oggi, ogni etnia non vuole quello che vogliono le altre, e in fondo non fa molta differenza che gli americani restino o se ne vadano: andarsene è molto difficile, e restare è molto scomodo.
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E a proposito di anniversari e di guerra al terrorismo, sono trascorsi dieci anni da quando, il 23 febbraio 1998, Osama bin Laden lanciava la sua “fatwa”, affermando che uccidere gli americani e i loro alleati era “il dovere individuale di ogni musulmano”. All’epoca i servizi di intelligence occidentali non lo presero troppo sul serio. Nemmeno la Cia, che lo conosceva meglio di tutti avendolo utilizzato in Afghanistan nella guerriglia contro i sovietici. Da allora, dopo alcuni sporadici attentati, c’è stato il drammatico 11 settembre 2001, e la caccia a Osama è diventata un’emergenza internazionale. Lo Sceicco Nero, con la sconfitta dei talebani, ha perso le sue basi in Afghanistan, ma è sempre riuscito a non farsi prendere: malgrado le tante ricerche, e una taglia arrivata a 25 milioni di dollari (altrettanti per il suo braccio destro, i medico egiziano Ayman al-Zawahri).
Michael Scheuer, che fino al 2004 ha diretto un’unità della Cia incaricata della cattura del capo di al-Qaeda, ritiene che il miraggio di una grossa somma, usato con successo durante la guerra fredda, sia inefficace nei confronti dei terroristi islamici:”L’attuale nemico è molto più difficile di quanto non lo fossero i sovietici. E’ gente davvero convinta, che vive secondo le proprie convinzioni, senza circondarsi di lusso”. Ma a parte il fattore fedeltà, si ha l’impressione che Osama bin Laden sia protetto soprattutto dalla nuova struttura assunta da al-Qaeda, praticamente trasformata in una Casa madre che gestisce l’attribuzione del “marchio di origine garantita” a cellule che si formano e agiscono autonomamente, senza avere contatti tra loro, e mantenendo i legami con la centrale soprattutto attraverso Internet.
Del resto al-Qaeda-centro si limita a indicare le linee strategiche generali della jihad, portando avanti il progetto di un terrorismo diffuso che evita di caratterizzarsi con specifici obiettivi nazionali: a questo proposito, Zarkawi, nominato “emiro” di al-Qaeda in Iraq, era stato criticato da Zawahiri per avere abbandonato l’ideologia “globale” del terrorismo islamico.
Nei ripetuti messaggi televisivi inviati recentemente, Osama bin Laden si rivolge genericamente alla “nazione musulmana”, invitandola a respingere “l’umiliazione imposta dall’alleanza sionista-crociata”, e a liberarsi dalla viltà dei “capi di stato arabi loro alleati”.
Si ha l’impressione che l’Osama mediatico voglia limitare la sua personale partecipazione alla jihad lanciando messaggi apocalittici, lanciando minacce di morte e distruzione in tutte le direzioni. Anche al Papa, assurdamente accusato di aver promosso la diffusione delle famose vignette che facevano della satira sulla figura di Maometto. “E’ un’accusa che non ha alcun fondamento – ha replicato il direttore della sala stampa vaticana – Il Papa e il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso hanno biasimato la campagna satirica contro l’Islam in più di un’occasione, Purtroppo però le minacce di Bin Laden contro il Papa non sono una novità, e non stupiscono”.
Ma lo Sceicco Nero non è certo interessato alle risposte concilianti e agli argomenti ragionevoli. Costretto a un’esistenza da superclandestino, le armi più efficaci di cui dispone sono quello che gli rimane del suo carisma, di cui si serve per attrarre nella sua orbita chiunque sia disposto ad accettare il suo credo di morte, e le minacce verbali, che qualche fanatico potrebbe decidere di mettere in atto. Quanto a sapere dove sia rifugiato lo Sceicco Nero, l’indicazione delle montagne al confine tra Afghanistan e Pakistan è troppo vaga per essere di qualche utilità a chi continua dargli la caccia. E potrebbe anche essere del tutto falsa. Osama bin Laden è un criminale furbo, prudente, che dispone di molti mezzi, e di qualche solido appoggio.
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