Il duello fra Hillary Clinton e Barak Obama
rischia di penalizzare il partito
democratico. Comunque, chi andrà alla
Casa Bianca dovrà affrontare problemi
gravosi e di vario tipo
“La campagna presidenziale è troppo lunga, ormai ci ha annoiati. E costa troppo. Vorrei che potessimo votare domani”: Tom Hanks, uno dei più popolari attori americani, è politicamente impegnato, e sostiene attivamente la candidatura di Barak Obama, ma ha dichiarato che questa volta i duelli pre-elettorali prima fra democratici e repubblicani, e ormai solo fra democratici, dura da troppo tempo.
In effetti, la campagna elettorale, cominciata nel febbraio 2007 e destinata ad andare avanti fino al 4 novembre 2008, sta acquisendo un record di durata che potrebbe generare reazioni di stanchezza. Considerando che tradizionalmente la partecipazione degli elettori americani alle urne non è mai molto elevata, se confrontata con i livelli europei. E in realtà questi duelli che vanno ripetendosi in ognuno degli Stati dell’Unione non sono ancora la vera campagna elettorale, quella che dovrà decidere chi andrà alla Casa Bianca. Finora gli aspiranti si sono battuti e continuano a battersi per convincere quei cittadini che sono già decisi a votare democratico e repubblicano a sceglierli come candidato del partito alla sfida finale. Quindi, non solo quello, o quella, che presenta un programma migliore, ma soprattutto quello, o quella, che ha maggiori possibilità di battere l’avversario.
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Barak Obama, Hillary Clinton, John McCain: uno di questi tre nomi sarà quello del prossimo Mr. (o Mrs.) President. Ed è già un’anomalia che i nomi siano tre e non due, perché mentre il repubblicano McCain si è da oltre due mesi assicurata ufficiosamente la “nomination” del suo partito, i due democratici continuano a battagliare tra loro, usando toni e espressioni sempre più ruvidi, creando una spaccatura all’interno dell’elettorato del Democratic Party che rischia di avere riscontri negativi al momento del voto.
E per John McCain, che un anno fa pochi credevano avrebbe superato le primarie, potrebbe essere una delle poche carte di cui dispone. Senatore dell’Arizona, 71 anni, ex combattente in Vietnam, dove rimase per cinque anni prigioniero, McCain è considerato un repubblicano “variegato” (un Arlecchino, lo ha definito Ennio Caretto), abbastanza diverso dai conservatori classici, che lo considerano un “liberal”, e dai neoevangelici, che lo giudicano un apostata. Nel 2000 aveva conteso la nomination a George W. Bush, il cui staff non aveva esitato a ricorrere alla calunnia (la falsa paternità di una bambina di colore, mentre si trattava di una piccola indiana da lui adottata) per metterlo fuori gara. In seguito ha dimostrato di essere più sensibile ai temi ecologici di quanto lo fosse l’amministrazione Bush, ma non ha mai esitato ad appoggiare la guerra in Iraq. Anzi, ha dichiarato che gli Stati Uniti potrebbero restare in quel Paese “per cento anni”. Lo scorso anno, dopo aver proposto in Senato una procedura per mettere in regola i lavoratori clandestini, in massima parte messicani, ha fatto marcia indietro chiedendo “confini più sicuri”. Affermando però di avere un rapporto stretto con la comunità ispanica, “e ne sono molto orgoglioso”. In politica estera sembra orientato a tenere in maggiore considerazione l’Onu, e a stabilire con l’Unione Europea rapporti paritari, o quasi, ma si rifiuta di riprendere le relazioni con Cuba. “Si è tentati di dire - commenta il politologo Benjamin Barber - se c’è, il vero McCain si alzi in piedi”.
“Un uomo di incredibile coraggio, determinato contro i nostri nemici, pronto a proteggere gli americani. Sarà un ottimo presidente”, ha detto George W. Bush il 5 marzo ricevendo McCain alla Casa Bianca. Da parte del presidente un appoggio dovuto, e forse imbarazzante per chi lo riceve dato il suo vistoso calo di popolarità. Del resto George W. ha voluto, con un’inedita vena di humour, farvi esplicito riferimento, aggiungendo: “Farò campagna per lui, ma se per farlo vincere devo fare campagna contro di lui, la farò”. E ha concluso, dopo essersi bizzarramente esibito davanti ai giornalisti con un giro di tip tap: “Quando sarò nel mio ranch a Crawford, con i piedi sul tavolo a rilassarmi, ci sarà John nello Studio Ovale”. Una frase nella quale si potrebbero anche sospettare dei significati reconditi, venendo da un vecchio nemico.
Un eventuale John McCain presidente sarebbe una replica della presidenza Bush? Negli Stati Uniti se lo chiedono in molti tra gli esperti e i commentatori, ma nessuno sembra avere una risposta sicura. D’altra parte, lo stesso senatore, dopo essersi assicurata la nomination repubblicana, non mostra alcuna fretta nel definire in maniera più precisa il suo programma. Riduzione delle imposte, nomina di giudici antiaboristi, riduzione della sanità pubblica (negli Usa già a livelli molto bassi) favorendo le assicurazioni mediche, parziale privatizzazione del sistema pensionistico, e anche risanamento del bilancio e della bilancia commerciale, riduzione della dipendenza dal petrolio straniero, interventi per ridurre le differenze sociali, rivalutazione del dollaro: di tutto un po’, senza ancora sbilanciarsi sui modi e i tempi. Anche perché il candidato repubblicano, in attesa di sapere chi sarà il suo avversario, deve rafforzare la sua posizione manovrando su due fronti, completamente opposti tra loro: primo, placare la diffidenza dello zoccolo duro, evangelico e teocon, del suo partito, dovuta ad alcune sue posizioni considerate troppo anticonformiste; secondo, riuscire ad approfittare del duello Hillaty Clinton-Barak Obama, giocando appunto sulla sua reputazione, meritata o no, di repubblicano “liberal” per attirare i consensi di quegli elettori democratici irritati dalla lotta “fratricida” dei due aspiranti alla nomination.
Una manovra questa facilitata dal comportamento dei due sfidanti, che ormai sfiora l’autolesionismo. Eppure, ognuno dei due potenzialmente presenta tali caratteristiche di novità da garantire in partenza l’attenzione di un elettorato che gli eventi degli ultimi anni hanno reso incline allo scetticismo e alla sfiducia. Lei, Hillary Clinton, la prima donna, lui, Barak Obama, il primo afro-americano, candidati alla presidenza degli Stati Uniti. E allora, qual è il problema? Il problema è che sia l’una che l’altro vogliono prendere possesso della Casa Bianca nello stesso momento. Un duello che non si era mai visto nella storia delle elezioni presidenziali americane, e che se all’inizio ha destato interesse, alla lunga ha perso molto del suo appeal.
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Barak Obama, 42 anni, avvocato, senatore dell’Illinois, è un afro-americano che, per così dire, esce dalla norma. Nato a Honolulu, da un’americana, bianca, e da un cittadino del Kenia, entrambi studenti all’università delle Hawai, nel suo albero genealogico non ha antenati schiavi, dopo il secondo matrimonio della madre ha trascorso l’infanzia in Indonesia, e rimasto orfano ha vissuto fino alla laurea a Harvard con la famiglia materna. Si potrebbe quasi definire un “nero per caso”, ma del colore della sua pelle ha saputo servirsi accortamente per costruirsi un’identità nello stesso tempo innovativa e rassicurante. Sul fronte “black” dopo un inizio alla Martin Luther King, ha dovuto prendere le distanze da Jeremiah Wright, pastore nero della Trinità United Church or Christ, di Chicago, da vent’anni suo mentore politico-religioso, che, dopo aver accusato il governo di Washington di diffondere l’Aids per uccidere i neri, e di essere direttamente responsabile dell’11 settembre, ha invitato Dio a maledire l’America, ha inveito contro ebrei e cattolici, invocando il Black Power, e vagheggiando un’alleanza tra protestanti neri e musulmani. Per contro, a molti americani della costa orientale, e anche a non pochi europei, Obama è riuscito ad apparire come una nuova edizione del mitico John Kennedy, un presidente che il tragico destino ha concorso a sopravvalutare, tenendo conto che fu lui a dare inizio al disastro del Vietnam (e fu la bistrattata coppia repubblicana Nixon-Ford a risolverlo drasticamente). “Hope” e “change”, speranza e cambiamento, sono le parole d’ordine di Barak Obama, ripetute, in stile kennediano, come slogan che si collocano tra il profetico e il manageriale.
Se Obama è un personaggio relativamente nuovo, Hillary Clinton, 60 anni, è da tempo un nome ben conosciuto, a livello mondiale, e questa notorietà non sempre le giova. First Lady dal 1993 al 2000, è stata la “prima compagna” di un presidente che per intelligenza e abilità ha forse superato tutti i suoi predecessori dal secondo dopoguerra a oggi, ma come marito si è dimostrato alquanto ondivago. E, quel che è peggio, lo ha fatto in mondovisione. La preparazione politica di Hillary risale agli anni dell’Università, ma ogni volta che rivendica l’esperienza fatta accanto al marito alla Casa Bianca, nella memoria anche dei meno maliziosi affiorano episodi a luci rosse che, purtroppo, tolgono smalto ai suoi argomenti. Detto questo, Hillary Clinton si è pervicacemente costruita una sua carriera politica autonoma, e come senatrice ha portato avanti una campagna più che meritoria per assicurare l’assistenza sanitaria ai ceti meno favoriti. Nella seconda parte della campagna per le primarie ha ritenuto opportuno non essere più affiancata dal gioviale Bill, sostituito con la figlia Chelsea: moglie sì, ma anzitutto madre. Sulla guerra in Iraq, a differenza di Obama, nel 2002 votò a favore dell’intervento, una decisione della quale si è più volte pubblicamente pentita. Ora l’ex First Lady promette “vere soluzioni per l’America”, e mette in guardia contro il pericolo di avere, come è accaduto con George W., un “presidente inesperto”.
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Come sempre i candidati promettono, e nessuno si aspetta veramente che mantengano tutto quello che hanno promesso. Però questa volta la situazione è particolarmente grave, e coincide con un’instabilità mondiale dagli sbocchi imprevedibili. Gli Stati Uniti hanno un debito pubblico che ha raggiunto secondo alcune stime 8.500 miliardi di dollari. E non è tutto. La recessione non è alle porte, ma il suo spettro aleggia inquietante, e minaccia seriamente lo standard di vita delle famiglie. I conflitti che vedono impegnata la forza militare americana appaiono senza soluzioni concrete. Per motivi diversi, alcuni nemmeno direttamente imputabili ai governanti di Washington, l’America si trova di fronte a uno sconcertante calo di popolarità della sua immagine. All’esterno, ma anche all’interno, perché gli americani stanno cambiando, psichicamente e etnicamente.
“Sic stantibus rebus”, si comprende come vada diffondendosi la stanchezza e il fastidio per lo scontro in famiglia tra Hillary e Barak. Tanto più che ormai è chiaro che nessuno dei due riuscirà a raccogliere i 2.005 delegati necessari per la “nomination” prima della Convenzione della fine di agosto a Denver. E’ in quella sede, dietro le quinte di una rituale kermesse di bandiere, coriandoli e palloncini colorati, che peserà il voto dei 796 superdelegati, non eletti ma tali di diritto, ex presidenti, parlamentari, personalità, finanziatori emeriti, tutti scelti dalla dirigenza del partito. E a quel punto i “mandarini” democratici dovrebbero decidere tra i due contendenti. Ma potrebbero anche, giudicando che entrambi si sono troppo reciprocamente screditati, scegliere un altro candidato.
A questo proposito, si fa sempre più insistente il nome di Al Gore, l’ex vicepresidente di Bill Clinton, sconfitto da George W. Bush alle elezioni del 2000. Sconfitto? Bush vinse incamerando per 525 voti i delegati della Florida, dopo due settimane di ricorsi e controricorsi alla magistratura e alla Corte Suprema. Ma Gore ebbe complessivamente 1.500.00 voti popolari più di lui. Dopo quella deludente avventura, Al Gore si è dedicato a fondo nella difesa dell’ambiente a livello planetario, ricevendo un Premio Nobel per l’ecologia. Nello stesso tempo è diventato anche un accorto imprenditore nel campo informatico (e recentemente anche televisivo) mettendo insieme un patrimonio valutato 100 milioni di dollari, contro i 2 milioni del 2000. Per unanime riconoscimento, attività condotte alla luce del sole, in maniera ultracorretta, senza mai sfruttare il ruolo ricoperto alla Casa Bianca, come è invece nella norma. Lui, Gore, ha più volte dichiarato di non essere interessato a un ritorno alla politica attiva, ma sono sempre più numerosi i democratici che lo ritengono l’unica soluzione valida. “Al Gore non ha l’ambizione di candidarsi, ma non ha nemmeno deciso di non correre. Il nostro scopo è convincerlo a farlo gettando le fondamenta di un movimento che lo porti alla Casa Bianca”, si legge nel sito Internet algore-08.org. Con lo slogan “We” (Noi) è nata un’associazione, sostenuta da un gruppo di potentati del partito democratico, alla quale il settimanale Time ha dedicato una copertina.Certo, resta da valutare la reazione dell’elettorato di fronte a una decisione così drastica, ma dopo una tanto lunga e sofferta competizione potrebbe essere l’unica soluzione.
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Come viene eletto il presidente
L’elezione del presidente degli Stati Uniti d’America avviene in forma indiretta, attraverso un Collegio elettorale in cui a ogni Stato viene dato un numero di voti elettorali eguale alla somma dei rappresentanti (deputati) e senatori eletti dallo Stato al Congresso federale. Il distretto di Columbia (Washington), privo di rappresentanza congressuale, ha diritto a un numero di voti non superiori a quelli dello Stato meno popoloso (non più di 3). In ogni Stato la totalità dei voti elettorali è assegnata al candidato che ha ottenuto la maggioranza semplice dei voti espressi nello Stato stesso. Per diventare presidente si deve quindi conquistare la maggioranza nel Collegio elettorale, cioè dei grandi elettori. Il presidente deve essere nato nel territorio degli Usa.
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