La “bomba” (giornalistica), per una malaugurata coincidenza, è esplosa nel momento meno opportuno, proprio mentre alla Fiera di Verona erano in corso le giornate di Vinitaly, l’evento enologico più importante a livello mondiale, una macchina che mette in moto 20 miliardi di euro. “Il Vinitaly è uno dei marchi italiani più conosciuti nel mondo. Dobbiamo supportarlo e proteggerlo tutti insieme, vigilando e intervenendo là dove ci sono errori e mascalzonate, con equilibrio e serenità”, ha dichiarato, comprensibilmente allarmato e amareggiato, Luigi Castelletti, presidente della Fiera di Verona. Sembra restino pochi dubbi che “errori”, e anche “mascalzonate”, vi siano stati. Occorre verificare l’estensione e la gravità degli uni e delle altre, e ovviamente questo è compito dagli inquirenti, dai quali, va detto subito, sono giunti anche segnali che tendono a ridimensionare l’allarme.
“Di vino ne contengono poco: un terzo al massimo, spesso di meno. Il resto è un miscuglio micidiale: una pozione di acqua, sostanze chimiche, concimi, fertilizzanti, e persino una spruzzata di acido muriatico. Veleni a effetto lento: all’inizio non fanno male e ingannano i controlli, poi nell’organismo con il tempo si trasformano in cocktail cancerogeni”: questa è la sostanza della “bomba”, cioè di un’inchiesta pubblicata il 4 aprile scorso da L’Espresso (titolata in copertina “Velenitaly”), che ha rivelato un’indagine aperta nel settembre 2007 dalle Procure di Verona e di Taranto, partita dall’ispezione di agenti del Corpo forestale di Asiago e dell’Ispettorato centrale per i prodotti agroalimentari, in una cantina di Veronella (Verona). Uno stabilimento che nel 1986 era stato coinvolto nello scandalo delle bottiglie al metanolo, una truffa che provocò 19 morti e 15 casi di cecità. Le vittime i loro familiari non furono mai risarciti, poiché le aziende responsabili, condannate, nel frattempo avevano dichiarato fallimento. Secondo l’inchiesta del settimanale, nella cantina, “accanto alle cisterne c’erano taniche piene di acido cloridrico, altre con acido solforico, e 60 chili di zucchero. Gli ispettori mettono tutto sotto sequestro e fanno esaminare campioni di vino bianco e rosso per capire che cosa contengano. I test condotti nell’Istituto di San Michele all’Adige e nel laboratorio di Conegliano Veneto dell’Ispettorato centrale forniscono lo stesso verdetto choc: in quel liquido di uva ce n’è circa un quinto, il minimo indispensabile per dare un po’ di sapore”. Il resto sarebbe acqua, zucchero, e due acidi (cloridrico e solforico) per trasformare il saccarosio (proibito) dello zucchero aggiunto, in glucosio e fruttosio (legali, e normalmente presenti nell’uva).
L’indagine si è allargata verso sud, dopo che dalla documentazione sequestrata si era accertato un collegamento dell’azienda di Veronella e la “Vmc”, che ha sede a Massacra, nei pressi di Taranto. La trasmissione degli atti dalla Procura veronese a quella tarantina ha condotto all’iscrizione nel registro degli indagati dell’amministratore della “Vmc” (Vini, mosti e concentrati), che rifornisce aziende del nord che commercializzano vino da tavola in brik, del rappresentante legale della Enoagri, che commercializza uva da tavola, e del proprietario di due stabilimenti di Massafra affittati alle due aziende. Le indagini di laboratorio hanno accertato la presenza nel mosto di saccarosio, ed è stato disposto il sequestro preventivo dei due stabilimenti. E mentre gli accertamenti si sono estesi a una ventina di aziende in tutta Italia, da nord a sud, la Procura di Taranto ha comunicato che “nessuna sostanza cancerogena è stata riscontrata fino a questo momento”. Vale a dire, vino adulterato, sì, ma non velenoso. Un prodotto che è stato fornito – e finora solo in parte rintracciato – a cantine vinicole di Perugia, Modena, Bologna, Brescia, Cuneo, Alessandria, Verona. Complessivamente 70 milioni di litri di vino a basso costo (al massimo 2 euro al litro) messi in vendita nei negozi e nei supermercati anche da alcuni marchi tra i più pubblicizzati.
L’allarme sarebbe stato quindi ridimensionato, anche L’Espresso in una nota ha tenuto a confermare “tutto quanto pubblicato nell’inchiesta Velenitaly”. Il settimanale sottolinea che le Procure di Verona e Taranto hanno contestato il reato di adulterazione di sostanze alimentari (art. 440) che punisce “chiunque corrompe o adultera sostanze destinate all’alimentazione rendendole pericolose alla salute pubblica”. E aggiunge che la presenza di acido solforico e di altre sostanze gravemente pericolose per la salute nel vino sequestrato era citata sia nel comunicato stampa del Corpo Forestale dello Stato, sia nel primo provvedimento della Procura di Verona.
Si vedrà, e si saprà, sperabilmente presto. Da Bruxelles la Commissione europea ha chiesto informazioni in proposito alle Autorità italiane, esprimendo preoccupazione per le ricadute che la sofisticazione del vino potrebbe avere nell’Unione. E il portavoce della rappresentanza italiana a Bruxelles ha risposto che “il problema riguarda solo l’addizione al mosto del vino di acqua e zucchero... Le sostanze chimiche riscontrate dalla magistratura in alcune aziende vinicole non erano usate per sofisticare il vino ma per scopi agricoli”. Si esclude quindi che le adulterazioni costituiscano un rischio per la salute. Qualcuno potrebbe osservare che forse è un po’ presto per dirlo, ma la tendenza è a smorzare i toni, e a serrare i ranghi per difendere anzitutto l’immagine complessiva del vino italiano.
“Una volta accertato qual è stato il danno compiuto dall’esiguo numero di criminali sofisticatori – ha dichiarato il presidente della Regione Veneto Giancarlo Galan – dei cui misfatti si è avuta notizia nel giorno stesso dell’inaugurazione, avvenuta con grande successo, del nostro Vinitaly, la regione del Veneto cercherà in ogni modo di far male davvero e per sempre a coloro che non rispettano né la legge né l’onore dei nostri produttori di vino, tra i migliori del mondo”. E Galan ha aggiunto di aver incaricato l’Avvocatura Regionale di valutare le eventuali misure legali contro i giornali che, denunciando la sofisticazione, avessero leso “gli interessi della collettività, dell’immagine e dell’economia della Fiera di Verona, del Veneto e dell’Italia”. Di tono egualmente enfatico la reazione del ministro delle Politiche Agricole Paolo De Castro, in quei giorni alla fine del suo incarico, secondo il quale la vicenda “ci dive far riflettere e fare quadrato davanti alla qualità dei nostri prodotti”. Ammonendo a “non alimentare circuiti mediatici sbagliati”, ha esortato a stare “soprattutto attenti perché facciamo il gioco di quei Paesi che vogliono un’Italia ridotta al lumicino… Aver superato la Francia negli Stati Uniti con le nostre esportazioni di vino è un pericolo, aver raggiunto i tre miliardi e mezzo di euro di esportazioni solo nel vino, può dare fastidio, e quindi è evidente che ogni occasione è buona per denigrare”. A quanto pare ogni occasione è buona anche per abborracciare un prodotto venduto come vino, e che vino non è. Si dovrebbe essere consolati dal fatto che, pur essendo una truffa, non è anche cancerogeno. E qui, sinceramente, che cosa c’entrano i francesi? O la colpa è dei giornalisti che, come al solito, non si sono fatti gli affari loro?
Certo, viene ripetuto, si tratta di un prodotto a basso costo, da non confondere assolutamente con i “cru” prestigiosi che tengono alto il nome della nostra viticoltura. Giusto. Peccato che in contemporanea con le inchieste delle procure di Verona e Taranto, quella di Siena ne stia conducendo una sui produttori dell’illustrissimo Brunello di Montalcino – sequestrando alcuni stock di marchi storici – per aver fatto uso di uve non consentite dai disciplinari di produzione che dovrebbero giustificare la Denominazione d’Origine Controllata e Garantita. Non si tratta di un’adulterazione rischiosa, ma è pur sempre un millantato credito, e piuttosto grave considerati i prezzi di quelle bottiglie.
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