L’articolo 12 del d.p.r. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), prevede che: “Ogni superiore é competente a rilevare le infrazioni...”, nel contempo l’articolo 10 del d.p.r. 28 ottobre 1985, n. 782 (Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di Polizia) precisa che: “Ogni superiore ha obbligo di seguire il comportamento del personale [...] al fine di rilevarne le infrazioni disciplinari”. Nello specifico, il decreto del Presidente della Repubblica 737/81, individua il titolare dell’azione disciplinare, a prescindere del luogo ove il fatto sia avvenuto, sempre “nel dirigente dell’ufficio ove lo stesso dipendente presti servizio”. Solo detto dirigente, avendo avuto cognizione dei fatti avvenuti, può quindi esprimere un giudizio di responsabilità, ma questo sempre rispettando i principi generali di cui all’articolo 13 del decreto stesso, e cioé circostanze aggravanti ed attenuanti, precedenti disciplinari e di servizio, carattere del trasgressore e quant’altro possa far emergere o meno un eventuale rimproverabilità disciplinare in capo al singolo.
D’altro canto, la pratica, ha reso necessario considerare le particolari caratteristiche dei servizi resi dagli appartenenti alla Polizia di Stato che, spesso, si trovano a prestare la propria opera in sedi diverse da quella nella quale ha avuto inizio l’azione disciplinare, ovvero ad essere “accusati” disciplinarmente in luoghi diversi da quelli ove vi è “il dirigente del servizio”, situazioni, queste che comportano difficoltà applicative sia per il rispetto del principio costituzionale del “giudice naturale”, come previsto dall’articolo 25 Cost. “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” sia del principio processualpenalistico del locus commissi delicti (in merito si richiama Roberto Sgalla, Giuseppe Bella, Gianluca M. Bella, Manuale di disciplina per il personale della Polizia di Stato, Laurus Robuffo, Roma, 2001).
L’appartenente all’Amministrazione della Pubblica sicurezza, inoltre, può trovarsi sottoposto ad azione disciplinare e poi essere trasferito a diverso ufficio o sede di servizio (pensiamo anche alle “nuove” e particolari situazioni delle missioni di Polizia internazionale o aggregazioni presso uffici esteri), nonché può essere sottoposto a procedimento disciplinare durante la frequenza di corsi d’istruzione o in seguito ad un suo proscioglimento. In merito necessità sempre tener presente che il potere disciplinare, pur essendo di carattere amministrativo, ha le caratteristiche proprie del procedimento contenzioso, da questo ne deve conseguire una competenza ben definita dell’organo chiamato a svolgere l’istruttoria e di quello decidente (principio del Giudice naturale) con la conseguenza dell’immutabilità di detti organi e dell’impossibilità di svolgere il procedimento in più sedi (principio della continuità del processo).
Pertanto in un’ottica di bilanciamento degli interessi nel rispetto dei principi generali e secondo autorevole dottrina, la competenza disciplinare, per il dipendente che medio tempore si trovava in altro ufficio, permane sempre in capo all’Autorità che ha dato propulsione all’iter sanzionatorio - in questo caso e per completezza si potrebbe anche supporre una richiesta di informazioni (anzianità di servizio, precedenti disciplinari, ecc.) sull’incolpato all’ufficio di provenienza - mentre sarà sottoposto alla potestà disciplinare dell’ufficio ove presti stabilmente servizio negli altri casi (vedasi G. B. Prosperini, “La potestà disciplinare nella Polizia di Stato”, “Ordine Sicurezza Polizia”, periodico mensile ufficiale appartenenti Polizia, Edimedia, Milano, 2006).
Nel qual caso successivamente ad una cessazione del rapporto con l’Amministrazione d’appartenenza, si insaturi un procedimento disciplinare - come ad esempio a causa di un rapporto disciplinare successivo ad un pensionamento - non vi sarà “materia del contendere”, se però questo ha avuto inizio prima del proscioglimento dovrà concludersi; dovrà anche sempre concludersi se l’esito del procedimento disciplinare potrebbe andare ad interessare gli eventuali rapporti giuridici/economici dell’Amministrazione con il dipendente -come ad esempio una responsabilità per danni od una indennità pensionabile da rivalutarsi nel caso di una sanzione disciplinare di sospensione.
Una situazione particolare si realizza per i “frequentatori di corso presso un istituto d’istruzione”. In questo contesto, così come stabilito dal decreto ministeriale, del 9 marzo 1983, n. 16, la competenza è del Direttore dell’istituto, ma solo per i casi strettamente connessi all’attività formativa, addestrativa e della “vita” dell’istituto stesso, anche se, bisogna aggiungere, questa è la strada percorsa dalla dottrina ma non vi sono richiami di legge o giurisprudenziali in tal senso.
Qualcuno vuole intendere che il potere sanzionatorio sarebbe sempre ed in ogni caso del giudice (inteso come amministrazione) del luogo in cui è stato posto in essere il comportamento.
Ulteriore deroga ai principi generali deve essere fatta nel qual caso vi siano più dipendenti, appartenenti a diversi uffici, interessati all’azione disciplinare. In questa ipotesi, per evitare disparità di trattamento (principio di eguaglianza: tutti devono essere trattati allo stesso modo per casi uguali ed in maniera diversa per casi diversi, esplicitazione dell’art. 3. Cost) deve esere rispettato il criterio penalistico del “locus commissi delicti” del C. p. p. (ibidem, Roberto Sgalla, Giuseppe Bella, Gianluca M. Bella, Manuale di disciplina per il personale della Polizia di Stato, Laurus Robuffo, Roma, 2001).
Il procedimento disciplinare vede quindi configurarsi un soggetto passivo, che s’identifica nell’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione che si vede imputare mancanze disciplinari, ed un soggetto attivo, l’Amministrazione (figura dominante), nelle articolazioni previste dal procedimento disciplinare stesso.
Mentre il primo è unicamente il singolo dipendente nella sua posizione di persona “incolpata”, lesa direttamente nei suoi interessi giuridico-economici (tenendo presente che le infrazioni disciplinari possono essere commesse in concorso) che subisce l’azione (nella prima fase), i soggetti attivi previsti dall’ordinamento positivo sono vari e si possono riassumere nelle figure del superiore, del capo dell’ufficio e comandante di Reparto, nel Capo della Polizia- Direttore Generale della P. S. (e nel passato nel Ministro dell’Interno) ovvero in soggetti attivi collegiali: Commissione Consultiva, Consiglio Provinciale di Disciplina e Consiglio Superiore di Disciplina.
Da non dimenticarsi che nel procedimento disciplinare vi può essere anche la presenza di terzi citati come testimoni dei fatti, solitamente ma non necessariamente sempre appartenenti all’Amministrazione dell’incolpato, e di un difensore (per le fattispecie più gravi - superiori alla pena pecuniaria) scelto tra gli appartenenti all’Amministrazione - diverso è il caso in cui il procedimento disciplinare sia stato instaurato direttamente dall’Autorità giudiziaria (si richiama in merito G. B. Prosperini, “La potestà disciplinare del Procuratore Generale della Repubblica sulla Polizia giudiziaria”, “Solidarietà di Polizia”, Inedit, Roma, 2004).
Ulteriore soggetto nel procedimento disciplinare potrebbero essere, a pieno titolo, anche se difficilmente ciò avviene in concreto, le rappresentanze sindacali, le quali potrebbe essere chiamata a testimoniare -su fatti, eventi, consuetudini consolidatisi nell’ufficio- o altresì produrre documentazione e memorie. Si deve necessariamente, in merito, (ri)chiamare la legge 241/90 (trasparenza ed azione amministrativa) e la partecipazione degli interessati al procedimento instaurato da una P. A. Nulla vieta infatti un loro formale intervento in un eventuale procedimento disciplinare che vede coinvolto un iscritto.
Non si può omettere di segnalare alcune passate difficoltà interpretative per l’individuazione degli organi competenti all’esercizio dell’azione disciplinare e questo a causa del dettato normativo spesso impreciso nelle definizioni.
L’art. 3 d. p. r. 737/81 prevede che la sanzione del richiamo scritto venga inflitta genericamente dal “capo ufficio o dai comandanti di Reparto”, senza tener conto della variegata articolazione della struttura del Amministrazione della Pubblica sicurezza.
Una chiarificazione a ciò é giunta dai decreti ministeriali del 16 marzo 1989, emanati in attuazione dell’articolo 31 della legge di riforma 1° aprile 1981 n. 121, con i quali si é provveduto alla riorganizzazione delle questure, dei commissariati e degli uffici delle Specialità potendosi così chiaramente individuare il “capo ufficio” ma cosa più importante il titolare della potestà sanzionatoria.
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