Mino Pecorelli fu ucciso da uno sconosciuto killer, con quattro colpi di pistola, la sera del 20 marzo 1979, a Roma, mentre saliva nella sua auto, davanti alla redazione di OP (Osservatorio Politico), una rivista nata da un omonimo bollettino di agenzia, della quale era editore, direttore e principale estensore. Poco dopo, sul posto - in via Orazio, nel quartiere Prati – erano accorsi Polizia, Carabinieri, e agenti del servizio segreto militare (Sismi) che avevano subito perquisito la sede della rivista (senza averne minimamente il diritto), prelevando un numero imprecisato di documenti. Poi la redazione venne chiusa, sigillata, e solo dopo tre giorni le chiavi furono consegnate a Rosita Pecorelli, sorella di Mino, che raccontò in un’intervista: “Nelle stanze c’era una gran confusione, carte sparse dappertutto, pareva che vi fossero entrati i ladri”.
Più tardi, in una nota inviata dal Comando generale dei Carabinieri alla Commissione parlamentare sul caso Moro, si informava che altro materiale attribuibile a Pecorelli era stato “sequestrato nel corso della perquisizione presso le abitazioni di collaboratori del defunto e di alcuni notai e avvocati della Capitale”. Anni dopo, una parte ne fu consegnata alla Commissione parlamentare sulla Loggia P2: in una scatola aperta. Tra i documenti, fotocopie di atti riservati, già pubblicati su OP (alcuni sul golpe Borghese e su Licio Gelli), e la fotocopia di una lettera inviata dal giornalista a Giulio Andreotti, il 6 febbraio 1979, per ringraziarlo dell’invio di un farmaco contro l’emicrania, un disturbo di cui entrambi soffrivano. In “La tela del ragno”, Sergio Flamigni che da parlamentare ha fatto parte delle Commissioni d’inchiesta sull’affare Moro, sulle stragi e sulla mafia, scriverà: “Muore così uno spregiudicato giornalista che aveva mostrato di essere assai ben informato sui retroscena del caso Moro: prima, durante e dopo il sequestro e la morte del presidente della Dc”.
Le principali fonti di informazione di Mino Pecorelli – che aveva comunque contatti diffusi in ambienti diversi – erano i servizi segreti militari e la Loggia P2 di Licio Gelli, alla quale era affiliato. Senza essere un agente, il giornalista aveva da tempo con i servizi rapporti stretti e continui, di volta in volta amichevoli e conflittuali, conoscendone le rivalità, le beghe interne, le ripetetute “deviazioni”. Lo stesso accadeva con la P2 e con Gelli. “Spericolato”, al massimo grado, era un temine che gli si confaceva. Pur se considerato con sufficienza, e diffidenza, da molti colleghi, che però attingevano volentieri alle sue informazioni di primissima mano, era un buon professionista; nei suoi articoli si serviva di un linguaggio rapido, ironico e allusivo. Appassionato della notizia, dotato di una notevole capacità di analisi, il suo fiuto lo portava spesso in acque infide. Accettava a volte di essere sovvenzionato (ma era tutt’altro che ricco), però mai comprato. Ex combattente della guerra di Liberazione, ideologicamente di destra, non si lasciava condizionare da simpatie o antipatie politiche. Poteva essere correttamente definito un lupo solitario. E si sa che la caccia al lupo è sempre aperta.
* * *
Dopo il sanguinoso agguato di via Fani del 16 marzo 1978, e il rapimento di Aldo Moro, durante i cinquantacinque giorni del sequestro del presidente della Dc, Mino Pecorelli sottolinea più volte, su OP, gli aspetti ambigui della vicenda: scrive che i terroristi delle Br, o almeno alcuni di loro, non sono quello che vogliono sembrare, che lo scopo del rapimento in realtà si inseriva nella “logica di Yalta”, con il fine di impedire che il Partito Comunista fosse coinvolto nel governo del Paese. Era questo il progetto di Aldo Moro (rapito proprio il giorno in cui si varava il governo di unità nazionale), in larga misura condiviso da Enrico Berlinguer: progetto inviso sia agli americani, che vi scorgevano un inquietante segnale di autonomia nei loro confronti, sia ai sovietici, apertamente ostili all’eurocomunismo di Berlinguer, e preoccupati dai suoi effetti nei Paesi dell’Est.
Il 2 maggio, Pecorelli scrive che nell’operazione del sequestro “le Br non rappresentano il motore principale del missile, esse agiscono come motorino per la correzione della rotta dell’astronave Italia”, aggiungendo che in seguito i brigatisti implicati nell’operazione avrebbero avuto “in cambio trattamenti di favore, quando la pacificazione nazionale sarà un fatto compiuto e una grande amnistia verrà a tutto lavare e a tutto obliare”. Esclusa, finora, l’amnistia, la previsione si è avverata.
Buona parte delle carenze, delle incongruenze, dei depistagli messi in atto durante le indagini e le ricerche per individuare la “prigione” di Moro, e persino i solidi dubbi sulla stessa meccanica dell’agguato di via Fani venuti alla luce più tardi, Pecorelli li esprime subito, o li suggerisce. La presenza di “esperti esterni” tra i membri del commando di via Fani, la scoperta pilotata del covo di via Gradoli, dove albergava Mario Moretti (già segnalato due volte, mentre al Viminale si arriverà a negare l’esistenza di questa strada, una traversa di via Cassia), la farsesca operazione al Lago della Duchessa e il falso comunicato Br n.7, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault rossa in via Caetani, tra la sede del Partito comunista e quella della Democrazia Cristiana, e altro ancora, come la manipolazione del “memoriale” scritto dal presidente della Dc durante la prigionia, e recuperato dai Carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il 1° ottobre 1978: Pecorelli dosa le sue messe a punto, lasciando capire di sapere molto di più, e di avere l’intenzione di scriverlo.
* * *
Le dimissioni di Francesco Cossiga da ministro dell’Interno seguono immediatamente, il 10 maggio 1978, l’uccisione di Aldo Moro. Il responsabile del Viminale assume “la piena responsabilità politica del dicastero cui sono preposto, delle Forze di polizia che per subordinazione gerarchica o funzionale hanno operato alle mie dipendenze, e dei servizi di informazione e di sicurezza da me impiegati; del loro impegno intelligente, generoso, incondizionato, leale e valoroso, sento di dover rendere convinta testimonianza, e ritengo che su tale impegno il Paese può fare pieno affidamento”.
Nel 1981 si apprenderà che del Comitato tecnico operativo istituito da Cossiga al Viminale il giorno stesso dell’agguato di via Fani, facevano parte cinque affiliati alla Loggia P2, alti ufficiali ai vertici del Sismi, dello Stato Maggiore della Difesa, del Sisde, della Guardia di Finanza; altri piduisti si ritroveranno nelle strutture investigative attivate durante i cinquantacinque giorni del sequestro.
Il 17 ottobre 1978, Mino Pecorelli scrive su OP, sotto forma di una finta lettera: “Il Ministro di Polizia sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero: dalle parti del ghetto… perché il generale dei Carabinieri era andato a riferirglielo nella massima segretezza… il Ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari fino alla loggia di Cristo in paradiso. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! Il resto è cosa nota: Cossiga fu liquidato perché si spogliasse di troppe responsabilità di governo e il Ministero fu assunto da Andreotti affinché un po’ di acqua passasse sotto i ponti del Tevere.C’è solo da immaginare chi sarà l’Anzà della situazione: ovvero quale generale dei Cc sarà trovato suicida con la classica revolverata che fa tutto da sé… Purtroppo il nome del generale Cc è noto: amen”. Un testo classico dello stile criptico, e a volte immaginifico, del giornalista: la “loggia” (massonica, alludendo alla P2), il “generale amen” (Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso nel settembre 1982, poco dopo il suo insediamento a Prefetto di Palermo).
Pecorelli e Dalla Chiesa. Il 4 ottobre 1978 il generale e il giornalista hanno un lungo incontro, al quale partecipa il maresciallo Angelo Incandela, capo degli Agenti di custodia del supercarcere di Cuneo. Da due mesi Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato chiamato da Giulio Andreotti a dirigere i Reparti speciali antiterrorismo, formati da ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri e della Polizia, con poteri speciali che gli consentono di riferire sul suo operato direttamente all’esecutivo, scavalcando l’Autorità giudiziaria. Uno dei compiti affidatigli è il recupero di quanto Aldo Moro ha scritto nella sua “prigione”, e il 1° ottobre, dopo l’irruzione nel covo milanese di via Montenevoso, viene trovato il “memoriale”, le risposte di Moro a un interrogatorio durato varie settimane: risposte orali, registrate (ma i nastri non verranno mai trovati), e risposte scritte, ricopiate a macchina, censurate, amputate, dai brigatisti, o da chi per loro. “Si tratta di documenti scottanti: contengono segreti di Stato e segreti più “privati”, apprendendo i quali il generale Dalla Chiesa entra nel novero dei condannati a morte”, scrive Sergio Flamigni in “Il mio sangue ricadrà su di loro”.
Tornando all’incontro tra Dalla Chiesa e Pecorelli – avvenuto su richiesta del primo, tramite il deputato democristiano Egidio Carenino, iscritto alla Loggia P2 , il maresciallo Incandela, stretto collaboratore del generale (che ha conservato l’incarico della sicurezza nelle carceri), viene informato che la copia di una parte del “memoriale” di Moro è stata introdotta nel penitenziario di Cuneo: l’informazione viene da Pecorelli, e Dalla Chiesa incarica il maresciallo di effettuare delle ricerche.
Già nel numero di OP del 4 luglio il giornalista aveva scritto: “Non si sa ancora a chi le Br abbiano affidato le fotocopie dell’interrogatorio del defunto presidente della Dc, né che uso intendano fare del materiale stesso… Non si può escludere che lo scomparso statista possa pesantemente influire sulla scelta del candidato democristiano per il Quirinale. Le dichiarazioni postume di Moro potrebbero avere un tale peso politico, al limite essere talmente gravi nei confronti di alcuni probabili candidati alla presidenza della Repubblica, da consigliare le segreterie dei partiti a puntare su un candidato laico. Aldo Moro, come aveva promesso a Zaccagnini (segretario della Dc, n.d.r.), anche da morto continuerà a fare politica e a condizionare le scelte e le decisioni dei suoi ex amici di partito”. Ancora una volta il “lupo solitario” è buon profeta: presidente della Repubblica viene eletto il socialista Sandro Pertini. Dopo sette anni il Quirinale tornerà a un democristiano, Francesco Cossiga, ministro dell’Interno durante il sequestro di Aldo Moro.
Il 24 ottobre, dopo l’incontro con Dalla Chiesa, OP esce con in copertina un annuncio: “Memoriali veri e memoriali falsi”. E il 31 ottobre, sotto il titolo “un memoriale mal confezionato”, Pecorelli scrive: “La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel covo milanese, non ha provocato gli effetti devastanti tanto a lungo paventati… Esiste invece un altro memoriale in cui Moro sveli importanti segreti di Stato?”.
Ma anche l’allora onnipotente Licio Gelli ha qualcosa da dire in proposito. Il 1° dicembre 1978, parlando con il giornalista Marcello Coppetti e con l’uficiale del Sismi Umberto Nobili, il venerabile maestro della Loggia P2 espone una tesi riassunta in un resoconto scritto da Coppetti, e confermato dal giornalista e da Nobili davanti alla Commissione parlamentare sul caso Moro: “Il caso Moro non è finito. Dalla Chiesa aveva un infiltrato, un carabiniere giovanissimo, nelle Brigate rosse.Così sapeva che le Br che avevano sequestrato Moro avevano anche materiale compromettente di Moro. Siccome Andreotti temeva le carte di Moro, nominò Dalla Chiesa. Costui recuperò ciò che doveva. Così il memoriale Moro è incompleto. Anche quello della magistratura perché è segreto di Stato”. Tra i documenti sequestrati nell’ufficio di Pecorelli dopo la sua morte, e più tardi consegnati alla Commissione parlamentare, un foglio con un appunto manoscritto: “Le carte segrete in mano a Dalla Chiesa”. Naturalmente potrebbe trattarsi anche di un depistaggio.
E Mario Moretti, l’enigmatico capo delle Br, confiderà all’onorevole Flamigni: “Qualcosa di ciò che Moro ha scritto è stato imboscato successivamente dai servizi segreti”. Vero o falso? E se è vero, come fa Moretti a saperlo? E Carlo Alberto Dalla Chiesa non ha mai fatto parte dei servizi segreti. Anzi, in un’audizione davanti alla Commissione parlamentare si lascerà sfuggire una singolare dichiarazione a proposito di suoi uomini infiltrati nelle Br: “Per coprirsi possono fare azione di propaganda. O al limite incendiare una macchina. Ma non possono assolutamente ferire o uccidere. Non sono dei servizi segreti, io!”. Quanto al “memoriale”, dopo quello presentato nel 1978, di 49 pagine manoscritte, nell’ottobre 1990 ne sarà trovata un’edizione più estesa di 176 pagine, fotocopiate come le altre: nascosta (quando?) in un’intercapedine nell’ex covo di via Montenevoso. Si noterà che nel primo testo mancavano ampie parti su Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, oltre che sulla strategia della tensione i finanziamenti della Cia alla dc, Gladio.
* * *
Il 16 gennaio 1979, in un articolo intitolato “Vergogna buffoni!”, Mino Pecorelli scrive: “Ma torneremo a parlare di questo argomento, del furgone (nel quale Moro era stato trasportato dopo il sequestro, n.d.r.), dei piloti (riferimento alle uniformi indossate dal commando di via Fani, n.d.r.), del rullino fotografico (contenente le foto scattate da una finestra subito dopo la strage della scorta di Moro, e successivamente scomparso dagli uffici del Tribunale, n.d.r.), del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione, del prete contattato dalle Brigate rosse, della tempestiva lettera di Paolo (il papa Paolo VI, n.d.r.), del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse, degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali… Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva comunque l’anticomunista Moro morto, e le Br avrebbero ucciso il presidente della Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama ‘De’, e il macellaio Maurizio”.
Mino Pecorelli lancia ancora segnali, giocando secondo il suo stile con ironici controsensi: “l’anticomunista Moro”, infatti, era al contrario accusato di essere troppo amico dei comunisti. A parte questo, si intuisce che il giornalista ha raccolto e sistemato altro materiale informativo (le fonti riservate, e l’intuizione per valutarle, non gli mancavano), e si prepara a pubblicare clamorose rivelazioni. Clamorose e “pericolose”, tanto da convincere gli interessati a eliminarlo in fretta con quattro colpi di pistola. Sparati da un killer sconosciuto, e rimasto tale.
|