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Febbraio-Marzo/2008 - Articoli e Inchieste
Aldo Moro
La prigione - I punti oscuri di via Montalcini
di

“Per quattro lunghi anni, dal 1978 al 1982, nessuno dei brigatisti arrestati aveva fornito elementi utili all’individuazione del covo o dei covi dove Moro era stato tenuto prigioniero durante i cinquantacinque giorni. Di conseguenza nel primo processo contro i brigatisti ritenuti responsabili della strage il problema non fu affrontato, né tanto meno risolto. Lo stesso Patrizio Peci, il “grande pentito” delle Brigate rosse, secondo quanto annota la Commissione Moro, “nella sua deposizione, non è stato in grado o non ha voluto dare, elementi utili alla localizzazione della ‘prigione’, limitandosi a fornire generiche indicazioni non rivelatesi idonee alla esatta individuazione. Egli ha parlato di un negozio con parete mobile, gestito da una coppia di coniugi prestanome e sito fuori Roma, ma nei pressi della città”. Solo successivamente Antonio Savasta riferì che “il prigioniero venne tenuto segregato nella casa in cui vivevano Prospero Gallinari e Anna Laura Braghetti, casa che egli credeva sita in via Laurentina ma che poi è risultata essere quella di via Montalcini 8, alla Magliana”. A quel punto Peci, nell’interrogatorio reso dinanzi alla Corte d’Assise di Roma il 15 giugno 1982, ritrattò la sua affermazione dicendo che egli poteva aver “frainteso” alcune informazioni fornitegli dal brigadiere Raffaele Fiore. Savasta, però, a sua volta volle precisare che “in realtà a Roma c’era un negozio del tipo di cui parla Peci, cioè con un retrobottega e tenuto da gente pulita. Ed io, a proposito della prigione di Moro ho sentito parlare proprio di pannelli scorrevoli. Quindi senz’altro questo negozio faceva parte delle possibili prigioni. Si trovava fra piazza San Giovanni di Dio e l’ospedale San Camillo […] era un negozio di caccia e pesca”.
Ancora nel 1982, dunque vi era la massima incertezza sul luogo di prigionia di Moro, al punto che nel giugno 1983 la Commissione Moro nella sua relazione finale scrisse prudentemente: “Salvo ulteriori acquisizioni, le dichiarazioni dei pentiti non sono necessariamente contraddittorie. E’ invero possibile che in un primo tempo il sequestrato sia stato tenuto prigioniero nel locale descritto da Peci e quindi trasferito successivamente nel locale di via Montalcini, 8”. Nel frattempo, il 2 febbraio 1982 il ministro dell’Interno Rognoni aveva affermato alla Camera che le dichiarazioni rese da Savasta circa la “prigione” di Moro, erano “con ogni probabilità attendibili”. Su questo punto si legge ancora nella Relazione di maggioranza della Commissione: “Alla Commissione il ministro Rognoni ha confermato la dichiarazione resa alla Camera, senza tuttavia sostenerne l’assoluta fondatezza”.
Dunque ancora nel 1983, cinque anni dopo i fatti, l’identificazione del covo-prigione con l’appartamento di via Montalcini era del tutto insicura. Solo successivamente i brigatisti, soprattutto Morucci, cominciarono a sostenere questa identificazione come un dogma di fede.
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Tornando al covo-prigione, può certamente accadere che un gruppo terroristico conservi per qualche tempo la segretezza sulla sua ubicazione, al fine di tutelare una rete ancora esistente. Ma se un particolare come la collocazione di una “prigione” resta misterioso per decenni, anche dopo che il fenomeno terroristico si è estinto o quasi, ciò può voler dire che l’eventuale rivelazione di questo particolare potrebbe mettere in discussione la ricostruzione dell’intero sequestro. Uno dei leader più acuti della Democrazia Cristiana, Giovanni Galloni, a questo proposito avanzò in un’intervista un interrogativo inquietante: “Si sta forse cercando di proteggere qualcuno?”.
A proposito del covo di via Montalcini viene affermato anche nelle sentenze della Corte d’Assise di Roma, che si sarebbe trattato dell’unico luogo dove fu tenuto prigioniero Aldo Moro. Su questo problema il fratello del presidente della Dc, il magistrato di Cassazione Alfredo Carlo Moro, ha scritto pagine molto incisive, che demoliscono le tesi semplicistiche dei brigatisti. Egli ipotizza che essi abbiano mentito nella descrizione del tragitto da via Fani al luogo della “detenzione”. A suo avviso è probabile che il trasbordo dall’auto al furgone in piazza del Cenacolo possa non essere mai avvenuto e che Moro sia stato portato in un covo mai scoperto nei pressi della zona della Balduina. A conferma di questa ipotesi egli ricorda la improbabile pantomima delle auto ritrovate “a rate” nei giorni successivi al 16 marzo in via Licinio Calvo, alla Balduina: è logico pensare che anch’esse siano state occultate in qualche posto nella zona. Aggiunge poi: “Può anche ventilarsi l’ipotesi che, nella zona della Balduina, Moro sia stato prelevato da un mezzo diverso dal furgone e trasportato in un rifugio diverso da quello indicato dai brigatisti, un rifugio che non solo non è stato individuato ma che i brigatisti cercano ancora di tenere accuratamente celato perché evidentemente la sua scoperta potrebbe costituire una smentita alla intera versione degli avvenimenti che è stata prospettata”.
Non entriamo in particolari più specifici, per i quali rimandiamo all’ottimo lavoro del magistrato. Veniamo invece al covo di via Montalcini dove, secondo i brigatisti, avallati da sentenze della magistratura, Moro sarebbe stato tenuto prgioniero per tutti i cinquantacinque giorni. Secondo i terroristi la “cella” del prigioniero aveva le dimensioni di due metri e ottanta per un metro: lo stesso Moretti la riteneva “una cosa molto angusta che aveva pochissima agibilità”. Moretti specifica che Moro “scriveva stando sdraiato con dei cuscini, scriveva sulle ginocchia su dei cuscini”. Alla domanda (in un’intervista a Carla Mosca e Rossana Rossanda, nel 1994, n.d.r.) su come si provvedeva per le pulizie personali, Moretti risponde: “Quando occorre gli vengono portati dei catini”. Alla domanda: “Non ha mai camminato?” l’intervistato risponde: “No. Si alza, si sgranchisce le gambe, ma non si è mai mosso da lì dentro”. Si dà invece il caso che l’autopsia abbia accertato l’assoluta assenza di quelle forme di atrofizzazione degli arti inferiori presenti immancabilmente nelle persone costrette per lunghi periodi a vivere in luoghi ristretti, senza possibilità di deambulazione. Sempre dall’autopsia abbiamo appreso che il corpo di Moro era in una condizione di igiene assoluta, che mal si concilia con l’affermazione di Moretti circa i catini che gli sarebbero stati concessi per le sue pulizie personali. E’ noto che Moro aveva una attenzione particolare per l’igiene e dunque, al di là di quanto evidenziato dalle perizie, non avrebbe retto a una lunga detenzione senza la possibilità di accudire quotidianamente alle proprie pulizie personali in maniera adeguata. Per la verità, il Sisde, nel luglio 1979, riuscì a effettuare una registrazione ambientale di una conversazione tra due brigatisti detenuti nel carcere dell’Asinara dalla quale emerge che Moro otteneva “tutto quello che aveva bisogno: si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere scriveva […], è stato trattato come un signore”.
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Negli atti del processo Moro esiste una perizia svolta con sofisticati metodi scientifici che porta a ritenere che il leader democristiano sia stato tenuto prigioniero in almeno due posti diversi. Si tratta di uno studio sui reperti sabbiosi rinvenuti sugli indumenti di Moro e sulle ruote della Renault rossa dove fu successivamente trovato il corpo. A proposito di questi reperti, Moretti ha affermato che furono collocati a bella posta nei vestiti e nelle scarpe dello statista allo scopo di depistare le indagini. Appare per la verità poco credibile che nel pieno di un sequestro impegnativo come quello Moro, con una città assediata da centinaia di posti di blocco, si decidesse di inviare due terroriste di rilievo come la Faranda e la Balzerani a raccogliere sulle spiagge del litorale laziale “sabbia, catrame, parti di piante da mettere sui vestiti e sotto le scarpe” del sequestrato per precostituire un depistaggio che acquistava validità solo dopo il ritrovamento del cadavere.
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E’ possibile dunque che l’appartamento di via Montalcini siano stato uno dei covi nei quali Moro è stato tenuto prigioniero, ma in questo caso sorgono altri interrogativi. All’epoca la zona era sotto lo stretto controllo della banda della Magliana. In un’accurata ricostruzione televisiva dell’attività della banda si ricorda che molti esponenti abitavano nei pressi del covo: Danilo Abbruciati viveva con altri due malavitosi in via Fuggetta 59, a centoventi passi da via Montalcini; Danilo Sbarra e Francesco Picciotto, uomo di Pippo Calò, abitavano in via Domenico Luparelli 82, a centotrenta passi dal covo (ma a cinquanta se si tiene conto dell’ingresso secondario); in via di Vigna Due Torri 135 (a centocinquanta passi) abitava Ernesto Diotallevi, compare di Calò. Inoltre, in via Montalcini 1 c’è villa Bonelli, appartenente allora a Danilo Sbarra, di cui Pippo Calò si serviva per le operazioni di reinvestimento del denaro proveniente da attività mafiose. Se davvero i vertici delle Brigate rosse decisero di tenere prigioniero Moro in un luogo così contaminato dalla malavita e sotto il diretto controllo della banda della Magliana, è lecito porsi alcuni interrogativi: Moretti, Gallinari e la Braghetti ignoravano che il covo di via Montalcini era letteralmente circondato dalle abitazioni dei capi della banda o conoscevano questa circostanza e scelsero quel posto proprio perché sapevano di poter contare su una benevola protezione di quel “soggetto politico-criminale al quale, nonostante la gravità del suo operare fra stragismo e attentati, è stata costantemente garantita l’impunità nel nome della ‘stabilità politica’, interna e internazionale” (Libero Mancuso, prefazione a Gianni Flamini “La banda della Magliana. Storia di una holding politico-criminale”, n.d.r.).
Offenderemmo l’intelligenza e la professionalità di Mario Moretti se pensassimo che non era al corrente dell’esistenza della banda della Magliana e della sua capacità di controllo assoluto del territorio proprio nel rione da cui la banda prendeva il nome. Ma anche se, per assurdo, fosse vera la prima ipotesi, cioè che Moretti ignorava l’esistenza stessa della banda o che non avesse fatto la connessione tra la banda e il rione da cui essa prendeva il nome, è lecito ritenere che i vertici della holding criminale si siano consultati con i loro referenti politico-istituzionali, primi fra tutti i dirigenti del Sismi dell’epoca, inquinato dalla P2, e con i quali vi erano contatti mediati da ambienti politici. D’altro canto lo stesso Raffaele Cutolo, capo della nuova camorra organizzata, affermò in un interrogatorio (nel dicembre 1992, n.d.r.) di essersi interessato alla sorte di Aldo Moro su diretta sollecitazione di Nicolino Selis, che era uno dei capi della banda della Magliana e capozona della nuova camorra organizzata su Roma. Afferma dunque Cutolo: “Nicolino Selis mi fece sapere che aveva grande urgenza di vedermi: nell’incontro che ne seguì, il Selis mi riferì che, del tutto casualmente, era venuto a conoscere la collocazione del covo nel quale era tenuto sequestrato Aldo Moro. A dire di Nicolino Selis, la prigione del parlamentare si trovava nei pressi di un appartamento che egli teneva come nascondiglio per eventuali latitanze. Appresa tale circostanza, la quale costituiva la premessa perché potessi utilmente attivarmi, ne informai l’avvocato Francesco Cangemi, al quale chiesi, tuttavia, di procurarmi il contatto con qualche autorevole personalità politica, ponendo, per l’appunto, questa condizione per il mio interessamento. L’avvocato Cangemi, da parte sua, mi fece sapere che la condizione da me posta non era statta accettata, sicché, per me, la questione poteva considerarsi chiusa. Nello stesso torno di tempo […] venne a trovarmi Enzo Casillo. Questi, che come ho detto era in stretto rapporto con vari politici di fama nazionale, mi apparve molto preoccupato allorché mi chiese se mi stavo interessando ancora al sequestro dell’on. Aldo Moro. Capii la regione della sua preoccupazione allorché mi disse che i suoi referenti politici gli avevano chiaramente detto che mi dovevo fare gli affari miei e non mettere il naso in quella vicenda”.
E’ chiarissimo, dunque, che l’invito a disinteressarsi della sorte di Moro proveniva da ambienti politici in contatto con la banda. Anche il capo della mafia Stefano Bontate cercò di trovare una strada per salvare Moro, ma poi Pippo Calò, il rappresentante della mafia a Roma, a sua volta legato alla banda della Magliana, gli disse: “Stefano, ma ancora non l’hai capito, uomini politici di primo piano del suo partito non lo vogliono libero”.
Torniamo ora ai motivi che portano a concludere che Moro non può aver trascorso cinquantacinque giorni in via Montalcini. Alfredo Carlo Moro raggruppa in cinque punti i motivi principali per i quali non è credibile che Moro sia stato per così lungo tempo in quel covo. Uno di essi fa riferimento a quanto abbiamo già detto a proposito della sabbia nei pantaloni di Moro e sui copertoni della Renault 4. I restanti dubbi scaturiscono dal fatto che i brigatisti non sono affatto d’accordo tra loro sulle modalità con cui Moro sarebbe stato portato in via Montalcini la mattina del 16 marzo. Se i tre protagonisti dell’ultima fase del trasporto – Moretti, Gallinari e la Braghetti – forniscono versioni tra loro in parte contrastanti su un momento così delicato del sequestro, che dovrebbe essere stampato indelebilmente nella loro memoria, è legittimo il sospetto che tutto il racconto possa essere stato costruito a posteriori. Vi sono poi altri motivi, che fanno riferimento alla intrinseca insicurezza di un covo collocato in un condominio, e altre stranezze che, pur se non decisive se prese singolarmente, contribuiscono a rendere difficilmente accettabile la versione di una presenza di Moro in via Montalcini per cinquantacinque giorni. A proposito, invece, dell’ultimo tragico viaggio di Moro, il fratello dello statista prospetta una ricostruzione molto plausibile: “l’unica ipotesi logica […] è che la Renault partì alle 7 dal covo di via Montalcini dove era stata ricoverata la sera precedente, ma senza Moro a bordo, e che perciò non ci si preoccupò molto per l’eventuale incontro con condomini; che venne raggiunta la sede della vera prigione di Moro […], che in questa sede venne eseguita l’uccisione; che la Renault tornò quindi a Roma arrivando a via Caetani verso mezzogiorno”. Un’ipotesi prospettata anche dal generale Dalla Chiesa nell’audizione dinanzi alla Commissione Moro: che “qualcuno, certamente d’accordo con la Braghetti, abbia tenuto nascosta la macchina anche lì dentro (nel box di via Montalcini, n.d.a.) e che sia uscita proprio quel mattino per andare a caricare la salma dell’onorevole Moro e portarla nel luogo del rinvenimento”.
Il professor Moro va ben oltre: qualche pagina dopo torna sull’argomento e, a proposito della prigione, scrive: “Vi deve essere qualcosa di molto grave che impone ai brigatisti di essere così reticenti e arroccati su una versione insostenibile: evidentemente la rivelazione della reale prigione di Moro nei cinquantacinque giorni e le modalità della sua uccisione, sarebbero comunque compromettenti e pertanto da nascondere accuratamente. Forse perché le Br avevano un altro livello rimasto del tutto sconosciuto e che deve restare celato anche oggi per le implicazioni che la rivelazione avrebbe? Forse perché le Br sono state mero strumento di altri gruppi o poteri interessati al sequestro, alla sua gestione, ed alla uccisione dell’ostaggio?”.
Peraltro, le indagini sul covo di via Montalcini sono contrassegnate da incredibili trascuratezze anche per quanto riguarda le ricerche svolte dalla Polizia giudiziaria. Dall’istruttoria del giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni emerge infatti che la Polizia di Prevenzione del ministero dell’Interno, all’epoca denominata Ucigos, scoprì il covo, con ogni probabilità, nel corso del sequestro e comunque con assoluta certezza nell’estate successiva, quando la Braghetti viveva ancora in via Montalcini, non perquisì l’appartamento e lasciò che la terrorista nell’ottobre successivo eseguisse un comodo trasloco alla luce del sole. La Braghetti ebbe così modo di assassinare, il 12 febbraio 1980, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet”.

[da: Giuseppe De Lutiis “Il golpe
di via Fani – Protezioni occulte
e connivenze internazionali dietro
il delitto Moro”, Sperling&Kupfer]

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