Il rapimento di Aldo Moro il 16 marzo 1978, preceduto dal massacro della sua scorta, era stato eseguito con una tale rapidità e precisione militare (doti che, per loro stessa ammissione, mancavano ai brigatisti) da far ritenere che accanto a Mario Moretti, Valerio Morucci, e agli altri terroristi del commando, fossero presenti “specialisti” molto bene addestrati. La Commissione parlamentare di inchiesta istituita sul caso Moro aveva rilevato che “scarsi e sommari sono risultati i servizi di vigilanza e di prevenzione nella zona in cui abitava l’onorevole Moro e nella quale i terroristi hanno potuto pianificare il sequestro e la strage, dopo ripetuti controlli e osservazioni delle abitudini dell’onorevole Moro e dei militari addetti alla sua protezione… assai carente… anche il controllo dei responsabili del servizio scorte del ministero dell’Interno sull’attuazione e la congruità delle consegne e delle istruzioni impartite”. “Scarsi e sommari”, nonostante i vari segnali che indicavano il probabile bersaglio dei terroristi. Il 15 febbraio 1978, attraverso la “soffiata” di un detenuto del carcere di Matera, la sezione locale dei servizi segreti apprende che è in preparazione il rapimento di Aldo Moro: il generale Santovito, capo del Sismi, dirà più tardi che la comunicazione era giunta alla sede centrale dei servizi da lui diretti solo… il 16 marzo, a sequestro appena avvenuto. Un mese dopo. Sul versante politico, si è poi saputo che dell’eventualità di un attentato a Moro aveva parlato a Bettino Craxi un dirigente socialista tedesco (probabilmente Helmut Schmidt). E la voce di una prossima azione brigatista contro Moro era filtrata in alcuni ambienti dell’Autonomia (alla quale erano legati i brigatisti romani, come Valerio Morucci e Adriana Faranda), tanto che alle 8.30 del 16 marzo (mezz’ora prima dell’agguato), dal microfono di Radio Città Futura, Renzo Rossellini l’aveva data come un evento probabile, considerata anche la concomitanza con il voto alla Camera per il primo governo sostenuto dal voto dei parlamentari comunisti, un risultato della strategia perseguita da Moro. Però al presidente della Dc, malgrado le ripetute richieste del maresciallo Oreste Leonardi, addetto alla sua protezione da quindici anni, era stata rifiutata quell’auto blindata che avrebbe reso più difficile, e forse impossibile il rapimento. Anche per dei killer professionisti, e – ripetiamo – nel commando di via Fani, secondo le successive ricostruzioni, di “esperti” dovevano esservene due; e non erano certo brigatisti, dato che l’addestramento alle armi di questi, per loro stessa ammissione, era molto ridotto, dato che le loro azioni si limitavano a sparare a bersagli ignari. Del resto, le loro armi, mitra e pistole, si incepparono subito.
Dalla perizia giudiziaria sull’agguato di via Fani: “Lo studio topografico e balistico delle traiettorie da parte degli esecutori è stato perfetto, e per lasciare integro Moro, e per evitare l’eventuale ferimento dei complici, con una regola di economia di uomini da manuale”. “Il dubbio sull’effettiva composizione del commando che partecipò all’agguato – scrive Alfredo Carlo Moro, magistrato, fratello di Aldo, nel suo libro “Storia di un delitto annunciato”, pubblicato nel 1998 – è radicato non solo sul fatto che i brigatisti, come hanno essi stessi riconosciuto, non erano adeguatamente addestrati per un’impresa così difficile, e sul fatto che erano anche dotati di armi non molto efficienti perché facilmente si inceppavano. Un altro elemento accresce ulteriormente i dubbi: risultato, infatti, che su 91 bossoli rinvenuti (altri due appartenevano ad un’arma di un uomo della scorta, l’agente Iozzino) 49 risultano esplosi da un’unica arma, 22 da un’altra, il resto alle altre quattro armi impiegate nell’aggressione. C’è stato qualcuno che ha sparato da solo 49 colpi in frazioni di secondo, colpendo con estrema precisione. Costui doveva essere un soggetto di particolare esperienza in questi tipi di agguato, o comunque estremamente addestrato; si tratta dell’individuo che descrive un testimone che ha visto molto bene tutte le fasi dell’agguato. Pietro Lalli, buon conoscitore di armi, ha riferito – secondo la sentenza del primo processo Moro – che questo giovane esplose due raffiche: la prima, un po’ più corta, a distanza ravvicinata rispetto al bersaglio, la seconda, più lunga, fu estesa a una Alfetta chiara che seguiva la 139 (nella quale si trovavano l’autista Ricci, Leonardi e Moro, n.d.r.) e fu consentita da un balzo indietro dello sparatore che in tal modo allargò il raggio di azione e del tiro. Lo sparatore mostrava estrema padronanza dell’arma. Sparava avendo la mano sinistra poggiata sulla canna dell’arma e con la destra imbracciava il mitra, tirava con calma e determinazione, convinto di quello che faceva”. Nessuna delle figure dei brigatisti noti ha le caratteristiche di ‘professionalità’ che ha posto in luce nell’agguato l’uomo descritto in azione dal teste Lalli, né l’arma da lui usata è stata poi rinvenuta o usata in successivi agguati delle Brigate rosse. E’ così svanito nel nulla sia il principale autore dell’agguato, che l’arma da lui usata”.
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Indovina chi viene a pranzo. Nel 1991, deponendo davanti alla Commissione parlamentare stragi della X legislatura, Pierluigi Ravasio, ex agente del Sismi, rivelò che la mattina del 16 marzo 1978, in via Fani, alle ore 9, proprio sul luogo dell’agguato (che si era svolto dalle 9.03 alle 9.05) si trovava il colonnello Camillo Guglielmi, ufficiale del Sismi addetto all’Ufficio “R” controllo e sicurezza. Convocato, il colonnello Guglielmi confermava: “Stavo andando a pranzo da un collega che abitava in via Stresa, a pochi passi dal luogo della strage”. A pranzo alle 9 del mattino? Del resto il collega, anch’egli convocato, dice che quella mattina Guglielmi si era presentato a casa sua verso le 9.10, ma che non era programmato un pranzo, e nemmeno lo aveva invitato a fargli visita.
Guglielmi aveva detto al collega che giù in strada doveva essere accaduto qualcosa, e poco dopo “era sceso a vedere”.Secondo Ravasio, il colonnello si trovava in via Fani su richiesta del generale Musumeci, allora capo dell’Ufficio “R”, che aveva un infiltrato nelle Br, uno studente universitario della facoltà di Giurisprudenza. Ravasio aggiunse che nella vicenda del sequestro di Aldo Moro erano stati implicati membri della banda della Magliana collegati al Sismi. I legami tra il generale Musumeci, il suo vice colonnello Belmonte, e la banda di malavitosi romani, sono stati confermati nel processo per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
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Il 17 marzo 1978, il giorno dopo il rapimento di Aldo Moro, giunge alla direzione della Polizia una segnalazione: in via Gradoli, una traversa di via Cassia, al numero civico 96, vi è un covo delle Br. L’indicazione è esatta: in quello stabile, all’interno 11, risiede con il nome di ingegnere Mario Borghi, Mario Moretti, il capo delle Br, venuto nella Capitale per organizzare e gestire l’operazione Moro. Con lui abita la brigatista Barbara Balzerani. Quell’appartamento era stato precedentemente occupato da Valerio Morucci e Adriana Faranda, ex di Potere operaio e di Autonomia, da poco entrati nelle Br. La mattina del 18 marzo una squadra di agenti guidata da un brigadiere si reca a perquisire tutti gli appartamenti di via Gradoli 96, tranne uno, l’interno 11, perché, si dirà, nessuno aveva aperto la porta. E perché gli altri inquilini avrebbero garantito che l’ingegnere Borghi era una “persona irreprensibile”. In realtà nessuno lo conosceva se non per averlo visto di sfuggita, e anzi due inquilini avevano espresso dei dubbi su quanto avveniva in quell’appartamento, e li avevano scritti in un appunto consegnato agli agenti, e indirizzato al vicequestore Elio Cioppa. Il vicequestore (che risulterà membro della Loggia P2) negherà di averlo ricevuto. Da notare che gli ordini emessi dalla Procura erano, nei casi sospetti, di entrare anche sfondando la porta.
Il 4 aprile, nuova segnalazione alla segreteria dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Durante una “seduta spiritica” (in quei giorni anche le autorità facevano ricorso a veggenti), una sorta di gioco con un piattino da caffè, in casa del professore Alberto Clò, presente con i suoi familiari e alcuni ospiti, tra i quali Romano Prodi e la moglie, viene composta la parola “Gradoli”. Si tratta probabilmente di un nome suggerito a Clò da uno studente, militante dell’Autonomia bolognese, che aveva sentito parlare di quell’appartamento. Comunque il Capo della Polizia ordina di perquisire le abitazioni di Gradoli, un paesino in provincia di Viterbo, naturalmente senza esito. Quando Eleonora Moro, moglie del rapito, chiede alla segreteria del Ministero se non potrebbe trattarsi di una strada di Roma, le viene risposto che una via Gradoli non esiste.
Però via Gradoli esisterà nuovamente quando, la mattina del 18 aprile, un’infiltrazione d’acqua artatamente provocata (non si saprà mai da chi) fa scoprire il covo-abitazione di Mario Moretti, uscito un paio d’ore prima: all’interno, in bella mostra, armi, esplosivo, documenti delle Br, divise (una da aviere, come quelle indossate in via Fani), appunti vergati dallo stesso Moretti. Sembra quasi un avviso di sfratto, e potrebbe essere il segnale che è ora di concludere.
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