Gli argomenti addotti dall’ex funzionario
e dai suoi legali, puntano a deligittimare
le dichiarazioni dei pentiti che sarebbero stati
pilotati da qualcuno della Dia: ma se così
fosse, la “cospirazione” dovrebbe aver coinvolto
anche decine di magistrati, poliziotti,
finanzieri, italiani e stranieri
«Quasi al termine della mia esistenza, l’ingiustizia degli uomini mi ha inferto questo ultimo colpo. Farò appello alle mie residue forze fisiche e morali per resistere ancora, così come ho fatto per quindici anni. Sono sicuro che verrà il momento (che forse io non vedrò) in cui la verità della mia vicenda giudiziaria sarà ristabilita. Spero che qualcuno si pentirà del male fatto a me ed alle Istituzioni».
Con queste parole, firmate da Bruno Contrada, viene accolto chiunque visiti il sito Internet dell’ex 007 (www.brunocontrada.info) condannato, con sentenza definitiva, a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Una vicenda processuale lunga e tormentata, che continua a dividere l’opinione pubblica fra “innocentisti” e “colpevolisti”, come se fosse una contesa sportiva, spesso ignorando del tutto o in parte gli argomenti dell’accusa e quelli della difesa. Una vicenda processuale troppo lunga (15 anni e 15 giorni): iniziata il 24 dicembre 1992, con l’arresto dell’allora numero tre del Sisde (il servizio segreto civile) e conclusa lo scorso 8 gennaio, con il deposito delle motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha confermato la condanna.
Contrada, attualmente, malgrado le pessime condizioni di salute e l’età avanzata – ha 76 anni – è rinchiuso nel carcere militare di S. Maria Capua Vetere, da dove, dopo avere cambiato avvocato, continua la sua battaglia per la «verità», una «verità» fondata sull’assunto che contro di lui sarebbe stato imbastito un complotto. Né lui né i suoi legali lo dicono espressamente, ma gli argomenti usati per quindici anni vanno a parare proprio lì, come sottolineano i giudici d’appello: la teoria del complotto «emerge a ogni piè sospinto dalle dichiarazioni del prevenuto e dal modo di conduzione del controesame dei collaboranti». Cioè i cosiddetti pentiti, che secondo Contrada «raccontano balle», imbeccati da qualche «suggeritore» della Dia, la Direzione investigativa antimafia, che all’epoca era diretta da Gianni De Gennaro, poi diventato Capo della Polizia e oggi commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania. «Si è detto che la mia è stata una carriera folgorante. Raggiungere il grado di dirigente generale a sessant’anni non è eccezionale. Sono altri che fanno carriere folgoranti, come l’attuale vice capo della Polizia, Gianni De Gennaro, che dopo quasi un mese dal mio arresto è diventato direttore generale della Dia». Ha atteso quasi tre anni e mezzo, Bruno Contrada, prima di sparare la sua bordata; ha atteso l’ultima udienza del processo di primo grado, nella primavera del ’96, poco prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio per decidere la sua condanna a dieci anni di carcere, poi confermata dai giudici d’appello e da quelli della Suprema Corte. L’ha fatto durante le ultime dichiarazioni spontanee (senza possibilità di contraddittorio) che hanno scandito l’andamento del dibattimento: dopo ogni testimone avverso, dopo che l’aveva interrogato l’accusa e controinterrogato la difesa, interveniva lui, l’imputato, interpretando al meglio il nuovo strumento offerto dal Codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989.
Se i magistrati possono solo prendere atto delle insinuazioni nei confronti di De Gennaro, senza la possibilità di alcun chiarimento, per i giornalisti non è così. Per loro quel nome rappresenta la notizia. I dieci anni di carcere che il Tribunale infligge all’ex 007 diventano così il pretesto per aprire il processo – a mezzo stampa – contro l’allora vicecapo della Polizia, affidando al condannato e ai suoi legali il ruolo di pubblica accusa. Contrada invia messaggi: «In 31 mesi fatti in carcere non ho accusato mai nessuno, ma avrei potuto...», suggerisce a un nugolo di cronisti. Poi la sua attenzione si rivolge ai pentiti (erano dieci quelli che lo accusavano; se ne aggiungeranno altri negli anni successivi), che «non possono essere smentiti, perché ci sono migliaia di uomini in carcere e centinaia condannati all’ergastolo». Come dire che i giudici non potevano riconoscere la sua innocenza senza, poi, comportarsi di conseguenza con Riina, Santapaola, Bagarella e compagnia. D’altronde, anche Riina si ritiene vittima di un complotto ordito da De Gennato, Arlacchi e Violante. Lo ha gridato a tutto il Paese attraverso le telecamere del Tg2 e ha invitato i suoi a votare per Berlusconi. Ricordate?
Ma le interviste a Contrada non si concludono con i messaggi a chi deve capire che in futuro potrebbe non starsene zitto e con gli attacchi ai pentiti: ci sono da chiarire il perché di quel nome – Gianni De Gennaro – dato in pasto all’opinione pubblica italiana e la teoria del complotto.
«Guardi che il nome di Gianni De Gennaro - spiega l’ex 007 al giornalista Francesco La Licata, inviato della Stampa – io l’ho fatto, e senza collegarlo mai con la mia vicenda, quando ho dovuto difendermi in aula dalle accuse del pubblico ministero che insinuava sospetti sulla “rapidità” della mia carriera, quasi che fosse il prezzo della corruzione addebitatami».
Il nome del vicecapo della Polizia era già indicato in un edulcorato libro-intervista, una sorta di autobiografia pubblicata cinque mesi prima, nella quale l’imputato sottolineava la «coincidenza» di tempi tra la nascita della Dia e la riorganizzazione del Sisde in chiave anticriminalità. Secondo il quotidiano La Repubblica, che diede notizia della pubblicazione, saremmo di fronte a un «messaggio». Messaggio che, dopo la condanna, diventa un’accusa esplicita. Contrada sostiene che per capire la sua vicenda bisogna comprendere il «contesto» in cui essa nasce, cioè l’estate palermitana dell’89, l’estate del ritorno in Sicilia del pentito Totuccio Contorno, del fallito attentato dell’Addaura al giudice Giovanni Falcone, delle lettere del “corvo”. «Premessa: per quei fatti sono totalmente estraneo», detta all’intervistatore di turno. Poi l’affondo: «Chi ha portato il pentito Contorno in Sicilia? Chi l’ha protetto? Con chi stava in contatto? C’erano dentro tutte le Istituzioni. La Polizia di Stato con la Criminalpol... parlo di Gianni De Gennaro (...). Tutti dentro tranne il Sisde. E con le calunnie e con le insinuazioni lo hanno infilato per forza».
Insomma, l’imputato è De Gennaro, non Contrada. E a rendere tutto più esplicito ci pensa Pietro Mancini, figlio di Giacomo, l’ex leader del Psi che poco tempo prima era stato condannato dal Tribunale di Palmi (sentenza poi annullata) per lo stesso reato di Contrada: «Non si può non ricordare – dichiara all’agenzia Ansa, Mancini jr – che è stata la Dia di De Gennaro a “scovare” nelle carceri i peggiori criminali, disponibili ad accusare Mancini e Contrada, in cambio di sconti di pena e vantaggi economici».
Ad accusare Bruno Contrada, però, non ci sono solo i pentiti, ma tanti suoi ex colleghi, familiari di vittime della mafia, magistrati, semplici cittadini.
I pentiti. All’inizio sono cinque, poi diventano 16. Il primo è Tommaso Buscetta, che nel 1984 racconta al giudice Falcone una confidenza fattagli qualche anno prima, mentre era latitante, dal suo amico Rosario Riccobono, boss di Partanna Mondello: «Io ho il dottor Contrada, che mi avviserà se ci sono perquisizioni o ricerche di latitanti in questa zona, quindi qua potrai stare sicuro». La successiva inchiesta viene archiviata per mancanza di riscontri. Fino alle stragi del 1992 nessun altro dirà nulla, anche se sul suo conto già da anni circolano sospetti, insinuazioni, allusioni. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, le parole di Buscetta non restano più isolate e dei rapporti fra il più noto poliziotto di Palermo e il boss Riccobono (ucciso dai Corleonesi nella guerra di mafia dei primi anni Ottanta) parla anche Gaspare Mutolo, il quale racconta che nel ’75 la mafia temeva principalmente tre funzionari di Polizia: Bruno Contrada, Tonino De Luca e Boris Giuliano. Fra i capi di cosa nostra c’era una divisione fra i Corleonesi di Liggio e Riina, che avrebbero voluto ucciderli, e boss come Bontate, Badalamenti e Riccobono che pensavano di «assoggettarli» o di farli trasferire. Prevalsero questi ultimi e si tentò di «avvicinare» investigatori e magistrati scomodi. Nel ’76, però, Mutolo fu arrestato. Le manette ai polsi gliele fece scattare proprio Contrada. Quando nel 1981 il boss tornò in libertà, Giuliano era stato assassinato da due anni; Contrada e De Luca, invece, avevano fatto carriera. «Riccobono mi disse che Contrada era a disposizione», ha detto il pentito, che ha indicato il conte Arturo Cassina e l’ex ministro democristiano Giovanni Gioia i tramite per «assoggettare» i personaggi scomodi. Non solo. Mutolo ha anche indicato l’ex questore Pietro Purpi come elemento di congiunzione fra Stefano Bontate e Contrada. Dei rapporti fra Purpi e Bontate parla anche Gioacchino Pennino, il primo politico mafioso diventato collaboratore di giustizia.
Nella prima fase, le accuse a Contrada arrivano anche dal trapanese Pietro Scavezzo, il quale sostiene che il boss Francesco Messina Denaro (padre dello stragista latitante Matteo), avrebbe regalato un’anfora antica a un altro questore, Michele Messineo, e che la stima dell’anfora sarebbe stata effettuata in presenza di Contrada. Trapanese è anche Rosario Spatola, il quinto pentito che, nella fase istruttoria, con le sue dichiarazioni, spalanca le porte del carcere per l’uomo che era arrivato ai vertici del Sisde: «Se ti fermano a Palermo chiedi di Contrada o di D’Antone». Questa confidenza, secondo l’ex mafioso, gli sarebbe stata fatta da Rosario Caro, «uomo d’onore della mia famiglia, massone di trentatreesimo grado»; lo ha raccontato dopo la strage di via D’Amelio, a tre anni di distanza dall’inizio della sua collaborazione con la giustizia. Il primo a raccogliere le sue dichiarazioni su cosa nostra era stato proprio il procuratore Paolo Borsellino, che all’epoca dirigeva la Procura di Marsala. Poi Spatola decise di tacere, di fermarsi prima di verbalizzare i nomi dei complici dei boss. Il perché di quello “stop” lo spiega al processo: «Nella prima metà del novembre dell’89 fui portato negli uffici dell’Alto commissariato, a Roma. C’erano De Luca, Canale, Misiani e Di Maggio (investigatori i primi due, magistrati gli altri due; n.d.r.). Volevano convincermi a parlare, io tentennavo. A un tratto si aprì la porta e vidi il dottor D’Antone. Non disse nulla. Gettò un’occhiata intorno, salutò De Luca e se ne andò richiudendo la porta. Sapevo che era come Contrada massone, come Contrada nelle mani di cosa nostra. E di Contrada era amico fraterno. Ebbi paura».
Poi sono arrivate le accuse degli altri pentiti: Pino Marchese, Francesco Marino Mannoia, Francesco Onorato, Angelo Siino, Nino Giuffrè e altri ancora. Tutte riscontrate da elementi investigativi o da altre testimonianze.
Anche D’Antone – stesso percorso professionale di Contrada: Squadra Mobile di Palermo, Criminalpol, Alto commissariato antimafia, Sisde – tre anni fa, è stato condannato definitivamente a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Su di lui, come su Contrada, si sono abbattute le dichiarazioni di collaboratori di giustizia e familiari delle vittime della mafia. Determinante, per condannare D’Antone, si è rivelata la “testimonianza” di un giovane poliziotto romano ucciso a Palermo nell’estate dell’85, Roberto Antiochia, ammazzato insieme al vicequestore Ninni Cassarà. Saveria Antiochia, madre di Roberto, ha ritrovato i circostanziati appunti del figlio su un’operazione antimafia fatta fallire da D’Antone nel 1980 e li ha consegnati ai magistrati.
Quando Cassarà e Antiochia furono assassinati, qualcuno, dalla questura, avvertì i killer, che si fecero trovare davanti alla casa del vicequestore e li crivellarono a colpi di kalashnikov. Si salvò Natale Mondo, l’agente che faceva da autista al vicequestore, nascondendosi sotto l’auto blindata. Due anni dopo Mondo fu arrestato con l’accusa di essere la “talpa” che aveva allertato i mafiosi. Solo Luigi Montana, padre di Beppe, il commissario di Polizia ucciso una settimana prima di Cassarà e Antiochia lo difese pubblicamente: «Chissà in quale contrada o in quale cantone si nasconde la talpa», dichiarò pubblicamente, indicando, di fatto, Contrada e D’Antone, come collusi con la mafia. Ma nessuno gli dette credito. Anzi: fu isolato. Mondo fu prosciolto. E l’anno successivo fu ammazzato dalla mafia. La “talpa” non era lui.
Due anni prima, nell’85, i sospetti su Contrada erano stati condensati in un’inchiesta giornalistica del settimanale I Siciliani, il periodico fondato a Catania da Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia all’inizio del 1984. Ma i fatti narrati nell’articolo, «ancorché provenienti da una testata di grande rispetto – ha spiegato alla commissione parlamentare antimafia Vincenzo Parisi, ex capo della Polizia e del Sisde – potevano provenire da fonti che perseguivano intenti disinformativi». E, dunque, invece di approfondire il contenuto di quell’inchiesta, Parisi, che all’epoca guidava il Sisde, decise di trasferire Contrada a Roma, promuovendolo di fatto, per tutelarne l’incolumità fisica messa a repentaglio dalla «iniziativa giornalistica diffamatoria». Malgrado la presunta diffamazione, però, nessuna querela arriva al giornale.
L’articolo raccontava che Cassarà non si fidava di Contrada (al processo lo hanno confermato la vedova, Laura Iacovone, e svariati colleghi del vicequestore ucciso); denunciava l’appartenenza del funzionario all’ordine cavalleresco del Santo Sepolcro, retto da conte Arturo Cassina, il signore degli appalti di Palermo, l’imprenditore al quale Pio La Torre, Cesare Terranova e gli altri parlamentari di sinistra firmatari della relazione di minoranza della Commissione antimafia, nel 1976, hanno dedicato un capitolo dal titolo inequivocabile: «Cassina e il sistema di potere mafioso a Palermo». Dell’ordine cavalleresco facevano parte anche numerosi esponenti della politica, della magistratura, della Polizia, dei Carabinieri. Insomma, chi doveva indagare su Cassina stava alla corte di Cassina.
L’inchiesta de I Siciliani, comunque, raccontava anche due episodi narrati nell’ultimo libro dello scrittore Michele Pantaleone (già deputato socialista e membro della Commissione antimafia), “Mafia: pentiti”, pubblicato nell’85 dall’editore Cappelli, che nell’introduzione contiene due fatti inquietanti: «Nel 1980, il questore di Palermo (Vincenzo Immordino, n.d.r.), uno dei più qualificati collaboratori dell’Antimafia, segnalò tempestivamente a chi avrebbe dovuto adottare gli opportuni provvedimenti che un funzionario della questura era venuto meno ai suoi precisi doveri, e che, fra l’altro, aveva dichiarato di non avere fiducia alcuna nella magistratura di Palermo… Inaudito a dirsi – scriveva Pantaleone – due anni dopo, lo stesso funzionario è stato chiamato a ricoprire uno dei ruoli più delicati presso l’Alto commissario per la lotta alla mafia». Il funzionario in questione era, appunto, Contrada. Anche questo fatto è entrato nel processo ed è fra gli elementi di prova che hanno portato alla condanna dell’ex 007.
Il secondo episodio raccontato da Pantaleone e ripreso da I Siciliani prendeva le mosse da un’interrogazione parlamentare del senatore comunista Sergio Flamigni, anche lui ex componente dell’Antimafia, il quale raccontava che «un sottufficiale dell’antidroga aveva consegnato ai suoi superiori un rapporto denuncia contro don Tano Badalamenti, il grande boss di Cinisi, dall’Fbi ritenuto il più grande trafficante di droga di questi ultimi vent’anni… Nel rapporto, oltre al figlio di don Tano, figurano come collusi o complici alcuni funzionari della Criminalpol, il vicesegretario di un partito al potere ed un ministro il cui nome compare nei famigerati elenchi della P2 di Gelli». Uno dei nomi contenuti in quel rapporto, a proposito di «collusi o complici», sarebbe, secondo il settimanale, quello di Contrada, che prima di passare all’Alto commissariato dirigeva la Criminalpol della Sicilia occidentale. Di questo episodio, invece, non c’è traccia agli atti del processo e dunque, sarebbe da ritenersi non veritiero.
Vero è, invece, che nell’84, dopo l’arresto in Spagna di Badalamenti, Contrada, informato da De Luca (che partecipò all’operazione) della cattura, si premurò di avvisare Oliviero Tognoli, consentendogli di fuggire prima dell’arrivo della Polizia. Tognoli riciclava il denaro sporco proveniente dal traffico di droga del clan Badalamenti. Ad accusare Contrada, in questo caso, non sono i pentiti ma due magistrati, Carla Del Ponte e Giuseppe Ayala, e due poliziotti svizzeri, il commissario Clemente Gioia e l’ispettore Enrico Mazzacchi. La Del Ponte è un magistrato elvetico che ha condotto numerose indagini sul traffico internazionale di stupefacenti insieme a Giovanni Falcone; Ayala è stato pubblico ministero nel primo maxiprocesso alle cosche, quello scaturito dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno.
«“Accura a Contrada” (“Stai attento a Contrada”, n.d.r.) mi disse Giovanni Falcone – ha dichiarato l’ex pm palermitano al processo –; è stato lui a fare fuggire Tognoli, me lo ha raccontato Falcone». E la Del Ponte ha confermato. Entrambi hanno però ricordato che Tognoli ha ammesso ciò durante una pausa dell’interrogatorio condotto dall’inquirente elvetica, ma s’è rifiutato di verbalizzare durante l’interrogatorio ufficiale del magistrato palermitano. Anzi, in quell’occasione Tognoli accusò un altro funzionario di Polizia, suo amico. Secondo i giudici d’appello del processo Contrada, «L’agevolazione alla fuga dall’Italia di Oliviero Tognoli costituisce uno dei più rilevanti segmenti fattuali, autonomamente provato» della condotta dell’ex superpoliziotto.
Orlando Gotelli, ex maresciallo della Guardia di Finanza, e Charles Tripodi, già funzionario della Dea, l’agenzia antidroga statunitense, testimoniano invece sull’incontro che il commissario Boris Giuliano ebbe con l’avvocato Giorgio Ambrosoli nel luglio del ’79, poco prima che entrambi fossero uccisi, a dieci giorni di distanza l’uno dall’altro. Ambrosoli era stato nominato dal governo liquidatore della Banca privata italiana (Bpi), l’istituto di credito del finanziere mafioso Michele Sindona che, a Milano, serviva a riciclare il denaro sporco dei boss italo-americani, Anche Giuliano indagava sul riciclaggio del denaro sporco e le sue inchieste incrociarono quelle di Ambrosoli, che cercava di districarsi nel sistema di scatole cinesi messo su da Sindona per proteggere i segreti della Bpi. Testimone dell’incontro fu il maresciallo Gotelli, stretto collaboratore di Ambrosoli, il quale confidò il fatto all’avvocato Giuseppe Melzi, legale dei piccoli azionisti del crack della Bpi. Dopo il duplice omicidio, Melzi rese pubblica la vicenda, con un’intervista al Corriere della Sera, ma inizialmente Gotelli negò, mentre confermò tutto dieci anni dopo, in un memoriale inviato al giudice Falcone, che nel ’90 lo interrogò.
Alla testimonianza di Gotelli, si è aggiunta quella di Tripodi, che aveva appreso il fatto direttamente da Giuliano, col quale aveva collaborato nel corso di un’inchiesta sui Badalementi che lo aveva portato a Palermo, infiltrato nel clan, ma dovette rientrare negli Usa perché una fuga di notizie dalla questura aveva “bruciato” la sua copertura. «Il Tripodi – scrivono i giudici d’appello – aveva soggiunto che, rientrato in patria, aveva mantenuto contatti telefonici con Giuliano. Nel corso di una di tali conversazioni, cinque, sei giorni dopo l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, Giuliano gli aveva detto “che, due giorni prima dell’omicidio, egli aveva incontrato personalmente l’Ambrosoli con il quale si erano scambiati importanti informazioni sui canali di riciclaggio”».
Perché è importante tale episodio? Perché nel ’79, dopo che l’avvocato Melzi rese pubblica la notizia dell’incontro, Contrada, «senza che nessuno gliel’avesse chiesto», redasse un rapporto nel quale escludeva categoricamente che Giuliano stesse indagando su Sindona, che si fosse recato a Milano, che conoscesse Ambrosoli. «Egli – scrivono i giudici d’appello –, in tal modo aveva consapevolmente neutralizzato sul nascere ogni spunto investigativo che avrebbe potuto indirizzare le indagini verso un possibile legame tra gli omicidi Giuliano ed Ambrosoli.
Tale grave comportamento – prosegue la sentenza –, posto in essere in assoluta sintonia con la successiva agevolazione dell’allontanamento dall’Italia di John Gambino e con le altre emergenze processuali acquisite ne evidenziava ulteriormente il ruolo svolto per conto di cosa nostra avvalendosi dei propri incarichi istituzionali con grande abilità dissimulatrice».
Dopo i due omicidi, il banchiere mafioso, indagato anche negli Usa, inscena un falso rapimento e, con un lungo viaggio a tappe, sotto falso nome, arriva a Palermo in compagnia di John Gambino e di altri due boss italo-americani, per tentare di salvare il proprio impero finanziario.
Gambino lo fermano a Palermo il 12 ottobre 1979, in pieno sequestro Sindona; è proprio il commissario Tonino De Luca a disporne l’accompagnamento in questura per accertamenti, ed è lo stesso De Luca che, su questo punto, inguaia il suo amico Contrada rivelando, in udienza, il 28 ottobre 1994, di avere insistito con quest’ultimo affinché lo arrestassero: «L’odierno imputato, che all’epoca ricopriva il doppio incarico di dirigente della Squadra Mobile (in via interinale) e del Centro Criminalpol di Palermo, gli aveva risposto che si sarebbe consultato con il pubblico ministero Sica ed il giudice istruttore Imposimato, titolari dell’inchiesta romana su Sindona. Poco dopo, gli aveva riferito di avere avuto detto da Imposimato che non c’erano elementi per un arresto, sicché il Gambino era stato rilasciato ed era tornato negli Stati Uniti D’America», hanno ricostruito i giudici. I magistrati Domenico Sica e Ferdinando Imposimato hanno negato di essere mai stati interpellati da Contrada, sul possibile arresto di Gambino. Secondo i giudici, Contrada sapeva «di un possibile collegamento affaristico di Sindona con i Gambino» e che tale circostanza connoterebbe «di un forte valore sintomatico l’agevolazione della fuga» del boss siculo-americano.
Scrivono i giudici di primo grado – ripresi integralmente da quelli d’appello –, nelle conclusioni: «Le condotte poste in essere dall’imputato risultano tanto più gravi in quanto qualificate dalle funzioni pubbliche rivestite e dai delicati compiti affidatigli all’interno delle Istituzioni statali preposte alla lotta alla criminalità organizzata: proprio la strumentalizzazione del ruolo ricoperto dall’imputato all’interno delle Istituzioni gli ha consentito di rendere all’organizzazione mafiosa i suoi “favori” informandola tempestivamente di notizie, decisioni ed ordini provenienti dall’interno delle strutture investigative, che le funzioni ricoperte gli consentivano di apprendere con facilità in anticipo.
Tale precipuo ruolo svolto dall’imputato ha reso particolarmente efficace l’apporto dato all’organizzazione criminale cosa nostra che, con le sue condotte ha oggettivamente contribuito a rafforzare, ponendo in grave pericolo l’Ordine Pubblico ed arrecando un grave danno alla credibilità stessa dello Stato per la cui difesa altri fedeli servitori, divenuti scomodi ostacoli da eliminare, hanno perso la vita».
Contrada, però, non ci sta. Alla fine del 2007 cambia legale e si affida al catanese Giuseppe Lipera, il quale, alla vigilia di Natale, inoltra una supplica al presidente Giorgio Napolitano affinché conceda la grazia a Contrada. L’iter si interrompe bruscamente per le vivaci proteste di tanti familiari delle vittime della mafia, capeggiati da Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso nel ’92. Contrada replica vantando una presunta «amicizia» con l’ex procuratore aggiunto di Palermo e provocando la secca smentita della vedova, Agnese, dei figli e del fratello Salvatore, il quale, oltre a negare tale «amicizia», rivela che in un atto giudiziaria c’è scritto ciò che pensava il fratello di Contrada: «Può bastare pronunciare quel nome a sproposito per morire».
L’atto giudiziario in questione è l’interrogatorio del professore Enzo Guidotto, nel 1999, durante il dibattimento del processo a Ignazio D’Antone. Guidotto, consulente della Commissione antimafia e presidente dell’Osservatorio veneto sulla criminalità mafiosa, da noi raggiunto telefonicamente, ci ha confermato di avere riferito ai giudici una confidenza ricevuta dall’ex questore di Palermo Impallomeni: subito dopo l’arresto di Contrada, D’Antone e altri due colleghi fecero una specie di giro d’Italia per “sensibilizzare” alcuni possibili testimoni del processo al superpoliziotto. E, in questo contesto, ha aggiunto di avere appreso da Salvatore Borsellino che, dopo la strage di Capaci, durante un pranzo in famiglia, «avendo Paolo sentito fare quel nome a un funzionario di Polizia amico della figlia, sobbalzò e disse: “Chi ti ha fatto quel nome? Può bastare pronunciarlo a sproposito per morire”».
Archiviato anche il capitolo «amicizia», Contrada e il suo legale puntano sulla revisione del processo e, lo scorso 10 gennaio, hanno presentato l’apposita istanza ai giudici di Caltanissetta. Argomenti: così come sono stati assolti Carnevale e Andreotti (che, in realtà, se l’è cavata per la prescrizione del reato), accusati dai pentiti, bisogna assolvere anche Contrada; due pentiti (che non erano fra i testi d’accusa nel processo all’ex numero tre del Sisde) sono sotto processo a Catania per avere calunniato Contrada, reato che «potrebbe essere esteso a chi sa quanti altri collaboratori di giustizia». Il procuratore generale si è già espresso contro l’ammissibilità della richiesta.
Insomma, se complotto c’è stato, avrebbe coinvolto decine di magistrati italiani, poliziotti, finanzieri, giudici e poliziotti svizzeri e americani, familiari delle vittime e i sedici pentiti che lo accusano. Oppure la verità è quella emersa dai processi: Bruno Contrada era al servizio dei boss e si è dato da fare per agevolarli. Come il suo amico e collega Ignazio D’Antone. E come tanti altri, noti e ignoti. Mentre i nemici irriducibili dei clan venivano assassinati: poliziotti, carabinieri, magistrati, imprenditori, giornalisti, politici, amministratori, prefetti… In Sicilia, specie a Palermo, fra il ’77 e l’85 c’è stata una mattanza di servitori dello Stato che non ha eguali in nessun Paese occidentale.
E mentre c’era chi moriva, c’era chi, per paura o per convenienza, favoriva i boss. Uno di questi era Contrada?
Questo è emerso da quindici anni di processi.
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