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Febbraio-Marzo/2008 - Articoli e Inchieste
Mafia
Al bando chi è colluso - Confindustria si schiera contro il racket
di Anna Petrozzi

Dati agghiaccianti cui finalmente ci si ribella. Hanno fatto scalpore e una insolita eco le statistiche pubblicate nell’annuale rapporto di Sos Impresa che hanno eletto l’azienda più produttiva del Paese: la Mafia spa. Proprio questo titolo ha campeggiato sui maggiori quotidiani e settimanali destando un’attenzione senza precedenti negli ultimi anni.
In effetti la notizia non è tanto che le mafie nostrane “fatturano” 90 milioni di euro l’anno, circa il 6% del Pil, 5 volte l’ormai noto tesoretto (numeri spropositati che associazioni in prima linea e Forze dell’ordine ripetono da anni) piuttosto che a quanto pare, finalmente, ci si scandalizzi.
In un’Italia stretta nella morsa dei debiti e degli stipendi inadeguati al costo della vita la ricchezza della criminalità organizzata è uno schiaffo in pieno volto. Un insulto ai milioni di lavoratori che sostengono il Paese caricando su di sé e sui propri figli anche i costi dell’inefficienza della politica (in qualsiasi compagine partitica) che non ha mai inserito nelle priorità dell’agenda di governo la lotta alle mafie. E come al solito la politica è sempre l’ultima anche nella presa di coscienza collettiva che sembra sollevarsi dalla Sicilia per diffondersi anche nel resto del Paese. Forse, sospinto dall’anomalo interessamento dei media, anche questi piuttosto supini e ritardatari, chi è al comando ora prenderà qualche provvedimento, se non altro per la convenienza del consenso che sta contagiando, almeno a livello di sapere, i cittadini italiani.
La miccia è stata accesa una notte di giugno nel 2004, quando un gruppo di giovani decide di tappezzare Palermo con un adesivo listato a lutto con su scritto “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Dal giorno dopo un movimento lento ma inesorabile è riuscito a coinvolgere non solo la società civile, risultato già importante, ma anche e soprattutto i commercianti, gli imprenditori e le associazioni di categoria.
Vessati con intimidazioni e ricatti la maggior parte dei negozianti e degli impresari di Palermo, ma lo stesso discorso si può estendere a tutte le province siciliane e alle altre Regioni del Sud, che devono destinare cospicue somme del proprio guadagno al sostentamento di carcerati e capi mandamento.
Tanto per avere un’idea immediata delle cifre si possono prendere ad esempio i pizzini e i rendiconto rinvenuti dalle Forze dell’ordine con la cattura del super boss Salvatore Lo Piccolo che portava nella sua 24 ore tutta la contabilità.
Il “barone” Tommaso Natale al comando, assieme al figlio Sandro Lo Piccolo, di un territorio immenso che va dal centro di Palermo fino a Carini, aveva appena deciso di aumentarsi lo stipendio: 40.000 euro al mese per lui e 20.000 euro per il baronetto. L’equo compenso per i rischi d’impresa, adeguato del resto agli incassi prodotti: per le scommesse clandestine i guadagni erano tra i 140.000 e i 200.000 euro alla settimana, con il pizzo e le tangenti riscossi da centinaia di industriali, professionisti e commercianti circa 2 milioni di euro al mese. Occorre poi calcolare la tassa del “tavolino”, fissata al 3% e mai variata sugli appalti, con entrate fino a 200.000 euro in un sol colpo, cui vanno sommati gli introiti delle aziende “legali” che si occupano del movimento terra: di recente avevano intascato 2 milioni di euro in una botta.
Gli inquirenti sono ancora al lavoro per ricostruire tutti gli affari del boss e per ora si limitano ad ipotizzare un bilancio mensile pari a circa 7 milioni di euro, attorno ai 100 milioni di euro annui.
E questo riguarda solo un boss, tra i più influenti, certo, ma non l’unico.
Secondo le stime di Sos Impresa, commercianti e imprenditori subiscono 1.300 reati al giorno e la somma da corrispondere varia dai 200 euro del negozio ordinario (a Napoli paga anche il banco al mercato: 5, 10 euro) ai 1.000 della boutique elegante; dai 5.000 del supermercato ai 10.000 del cantiere aperto. Solo tra i mandamenti di Porta Nuova e Pagliarelli, sotto l’egemonia di Nino Rotolo, il grande avversario di Lo Piccolo, sono stati riscossi, nel solo 2005, 2,5 milioni di euro, tra denaro liquido e attività sottratte alle vittime inadempienti.
Fino ad ora la maggior parte degli operatori economici dell’isola ha subito in silenzio, ma occorre fare qualche distinzione. Alcuni tacciono per paura di ritorsioni contro di sé e la propria famiglia e soprattutto temono di restare soli, altri invece sono conniventi e lucrano anch’essi sulla sottomissione dei concorrenti, approfittando dei vantaggi che provengono loro dall’essere più o meno soci dei mafiosi. Il risultato sono le bassissime denunce, la scarsa se non praticamente inesistente collaborazione con gli organi inquirenti, anche quando le intercettazioni e le indagini provano la dazione di denaro.
Fortunatamente non tutti sono corrotti o sfiduciati e il loro esempio sembra finalmente fare scuola. Pino Masciari, Andrea Vecchio, Vincenzo Ponticello, Bruno Piazzese, Rodolfo Guajana... sono solo alcuni dei commercianti, gestori, imprenditori ecc. che hanno detto un secco no al pizzo, ai favori, alle ritorsioni.
Quello stesso no che aveva avuto l’ordine di pronunciare Libero Grassi, precursore della rivolta a salvaguardia della dignità di uomo e di lavoratore lasciato solo, deriso e per questo assassinato davanti al suo negozio il 29 giugno 1991. Uomini e donne i cui volti coraggiosi sono finalmente mostrati in televisione diventando così ben visibili anche ai colleghi del resto del Paese che spesso si cullano dietro il fatto che il Meridione si trova in stato di regressione solo perché sono i meridionali a volerlo.
Ora tutti sanno che non è così, si inizia a comprendere che se non vengono debellate le mafie che attanagliano almeno quattro delle nostre Regioni: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, tra l’altro bellissime, è tutta l’Italia a doverne pagare, strictu sensu, le conseguenze.
A dare l’imprimatur di questione prioritaria la discesa in campo dei vertici di Confindustria nazionale che, se in un primo momento si era limitata ad esprimere solidarietà alle associazioni di categoria locali, ha poi introdotto l’affermazione e il rispetto di un vero e proprio codice etico.
Il presidente Luca Cordero di Montezemolo, in persona, ha rilasciato dichiarazioni importanti: “Verrà escluso da Confindustria chi paga il pizzo e chi è colluso con la mafia”. Gli fa eco il suo vice per il Mezzogiorno Ettore Artioli: “Il nostro obiettivo è creare un cambiamento di clima. La richiesta di tornare ai vespri siciliani degli anni Novanta è stata eccessiva ma indicativa del bisogno della gente che le Istituzioni riprendessero il controllo del territorio. E questo sta accadendo”.
Un’inedita e secca presa di distanza da quell’universo di collusione che schiavizza il Sud del Paese da decenni e sotto gli occhi di tutti. Oggi però la risalita sembra davvero possibile.
In una lettera dal titolo “Tra gli imprenditori qualcosa è cambiato”, indirizzata al direttore del Corriere della Sera, il procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato, coordinatore del Dipartimento mafia ed Economia, ha voluto evidenziare come, finalmente, Confindustria abbia chiarito che “la sanguisuga mafiosa non è quella delle coppole storte, ma anche quella di tanti colletti bianchi che hanno impedito il libero mercato e una reale democrazia economica, utilizzando a proprio vantaggio metodi e capitali mafiosi. [...] e che dietro altuni recenti episodi di intimidazione siano riconducibili non a uomini del racket, ma a menti raffinate”.
“L’impegno del Presidente di Confindustria nazionale ad espellere non solo gli imprenditori che si rassegnano a pagare il pizzo, ma anche quelli, a vario titolo, collusi con la mafia [...] dimostra come si stiano rompendo equilibri consolidati”. Per attuare un vero cambiamento però è necessario che si inneschi anche “nel mondo politico un’analoga imprescindibile operazione di pulizia interna, che non può essere surrogata da meri esorcismi verbali non seguiti da comportamenti coerenti, né supplita dall’impegno di tanti nelle Istituzioni e nella società civile”. Una richiesta raccolta e appoggiata da Montezemolo che ha ribadito come oggi sia imprescindibile far sentire agli imprenditori la vicinanza dello Stato.
In questo clima è stata inaugurata anche l’associazione antiracket palermitana Libero Futuro che rappresenta la piena realizzazione di questa voglia di riscatto e di libertà. Un sentimento di rinnovo, di pulizia che ha varcato immediatamente lo stretto di Messina ed è diventato, attraverso le parole del procuratore aggiunto Salvatore Boemi, domanda di intervento anche alle autorità del mondo economico calabrese. L’adesione del presidente di Confartigianato Demetrio Battaglia e del delegato straordinario di Confindustria regionale (che è commissariata) Franco Femia è stata immediata. Entrambi hanno dato la propria disponibilità ad intraprendere un percorso “sebbene lungo e difficile” sul “modello Palermo”.
La cattura di Lo Piccolo, di suo figlio, dei suoi fiancheggiatori, la cattura di Daniele Emmanuello, seppur finita in tragedia con l’uccisione del boss indiscusso capo della mafia a Gela e la maxi retata a Catania sono successi giudiziari importanti che oggi assumono un valore diverso, più significativo. Perché lo Stato non si sta muovendo nella sola azione repressiva, seppur fondamentale, ma anche nella sua dimensione economica e sociale. Certo siamo solo all’inizio di quella che potrebbe divenire un’epocale rivoluzione, sono tanti i cambiamenti da concretizzare, molte ancora le leggi adeguate da approvare e soprattutto lunghissima la strada della politica che dovrebbe cominciare da sé stessa espellendo i soggetti collusi, a prescindere dagli esiti giudiziari.
E’ forte anche la domanda di sicurezza. Si è parlato persino di inviare l’Esercito, ma forse basterebbe destinare a Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e magistrati gli uomini e i mezzi di cui, da anni, fanno richiesta.
Una nuova agenzia
per i beni confiscati

Alle parole, quindi devono seguire i fatti, e in fretta, come sostiene giustamente il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Francesco Forgione.
Da Palazzo San Macuto giungono infatti diverse proposte su come rendere concreta la repressione economica delle mafie, a partire dal complesso e cruciale tema del riutilizzo sociale dei beni confiscati.
“Sottrarre una proprietà ad una famiglia mafiosa - spiega Giuseppe Lumia, vice presidente relatore dello studio condotto dalla Commissione sul tema - e farlo diventare una scuola, una caserma o un terreno agricolo, in cui lavorano i giovani o un’azienda, non ha solo un valore produttivo, ma anche altamente simbolico. Invia un messaggio positivo che si aggiunge a quello di aver assicurato alla giustizia il mafioso, segnala infatti la restituzione alla collettività di ciò che la criminalità le aveva sottratto”.
Tuttavia anche su questo fronte sono innumerevoli i problemi. Di carattere legislativo, burocratico, amministrativo. Nel documento vengono indicati una serie di provvedimenti risolutivi come la distinzione tra misure di prevenzione personali e misure patrimoniali e soprattutto l’introduzione di procedure per sveltire la destinazione di un bene confiscato in via definitiva. Oggi infatti sono tantissimi i beni che rimandono in disuso per così tanto tempo da divenire inagibili e tante le aziende che invece di generare ulteriore svilupppo e occupazione vengono chiuse. Riuscire ad intervenire proprio su questo ultimo aspetto, spiega ancora Lumia, “diventa un punto qualificante dell’azione pubblica poiché il cittadino percepirebbe come ‘conveniente’ il sistema antimafia messo in atto dallo Stato”. Per rendere più fluido l’intero sistema si rende urgente l’istituzione di un’agenzia specializzata, in grado di far fronte a tutte le complicazioni che si pongono nel delicato iter.
In sostanza è presente l’esigenza di apportare immediate modifiche alla legge vigente che andrebbe inserita, comunque, in quel pacchetto di innovazioni legislative di cui necessita la lotta alla mafia.

Droga e riciclaggio

La spaventosa cifra divulgata da Sos Impresa si basa essenzialmente sul “ramo commerciale dell’azienda mafia”, vale a dire sui reati compiuti sul territorio che ne consentono il controllo: racket, usura, appalti, truffe...
In realtà, ha spiegato il procuratore Grasso, il conto dovrebbe essere aumentato di almeno il 50% e non è un errore di stampa. Semplicemente non sono stati inclusi il grande traffico di droga e di armi: la ricchezza che rende le mafie di fatto inarrestabili e indistruttibili.
Il dato più recente viene dall’Europa. La Commissione apposita che analizza l’evoluzione del fenomeno della droga ha pubblicato classifiche agghiaccianti circa l’aumento del consumo di sostanze stupefacenti. In un solo anno, per esempio, un milione di persone in più ha ammesso di aver fatto uso di cocaina, giungendo a totalizzare i 4,5 milioni di consumatori. In particolare, su un campione di giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, sono circa 7,5 milioni ad averla provata almeno una volta, nell’ultimo anno 3,5 milioni e nell’ultimo mese 1,5 milioni. Secondo i calcoli condotti in base alle indagini invece sarebbero 12 milioni gli europei (esclusa la Norvegia) che hanno consumato cocaina (una tantum). In testa alla classifica con valori superiori al 5% Spagna, Italia e Regno Unito. Inoltre il 2% degli studenti europei di 15-16 anni ha sniffato cocaina minimo una volta, una percentuale che raggiunge il 6% in Spagna e Regno Unito.
Sono aumentate in maniera drammaticamente esponenziale anche la diffusione di ecstasy e droghe sintetiche di vario genere: 9,5 milioni le hanno provate almeno una volta, 11 milioni le anfetamine. In 70 milioni invece hanno fatto uso di cannabis.
A prescindere dal commento di ordine sociale che andrebbe fatto sulle motivazioni per cui milioni di persone sentono il bisogno di alienarsi dalla realtà, ci limiteremo a quanto ci attiene, vale a dire la risultante economica che deriva da questa enorme quantità di sostanze trafficate.
Prendiamo ad esempio la cocaina. Lo studio specifica che il prezzo per un grammo di “neve” è molto variabile in Europa, orientativamente oscilla negli ultimi tempi tra i 50 e gli 80 euro. Un prezzo piuttosto basso cui corrisponde una purezza del 30-60% nella maggior parte dei Paesi. Se si calcola che 1 kg di cocaina pura costa più o meno 1.200 euro e che il ritorno di investimento della cocaina è di circa 1 a 10, si può iniziare a farsi un’idea dei guadagni. Si tenga presente però che in Italia, nel solo 2006 sono stati sequestrati 4.624 kg di cocaina che rappresentano però il 10-13% dello stupefacente trafficato.
Chiunque abbia a portata di mano una calcolatrice si può rendere conto del volume di denaro mosso dal traffico di droga, tutte le droghe, che è gestito nella sua interezza dalle mafie. La ’ndrangheta in questo momento ne amministra la parte maggiore, ma le recenti indagini confermano che con cosa nostra e camorra le alleanze non sono mai andate meglio, soprattutto sul fronte del grande business.
La domanda che nasce spontanea a questo punto è: dove vanno a finire tutti questi soldi? La risposta si sintetizza in una sola parola: riciclaggio. Un nemico, allo stato, invincibile.
Secondo il fondo monetario internazionale il fenomeno si colloca tra il 2 e il 5% del Pil mondiale, stime un po’ meno prudenti parlano del 10%, in Italia siamo tra il 7 e l’11% del Pil.
I proventi illeciti vengono poi reinvestiti nelle varie attività, molte delle quali assolutamente legali, almeno all’apparenza. Nel nostro Paese, secondo gli inquirenti, nessun settore è risparmiato: edilizia, commercio, appalti pubblici, mercato agro-alimentare, abbigliamento, industria dello svago (ristoranti, discoteche, ecc.), smaltimento rifiuti, sanità pubblica e privata, ecc.
Non è difficile per chi maneggia centinaia di migliaia di euro corrompere, vincere, comprare gli uomini giusti nei posti giusti e offrire, oltre a capitale fresco, vantaggi e protezione. Una cerchia che evidentemente non si limita al colletto bianco avido di carriera e soldi, ma anche a soggetti che hanno molta disponibilità di grossi investimenti. Non è certo una novità, lo spiegò benissimo Paolo Borsellino in quella bellissima e ultima intervista sorridente concessa ai due giornalisti francesi, quando gli fecero domande circa la presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova a Milano, e dei suoi rapporti con Marcello Dell’Utri.
Dai favolosi anni Ottanta, cui faceva riferimento il giudice, è cresciuta principalmente la capacità delle mafie di globalizzarsi, di moltipplicare in maniera esponenziale i propri investimenti, utilizzando gli stessi metodi e gli stessi canali cui fanno ricorso molti facoltosi uomini d’affari. “Il denaro dell’economia grigia e di quella nera, mafiosa - ha spiegato il procuratore Grasso - si confonde e sono gli stessi intermediari che lo collocano nei paradisi fiscali o in attività d’impresa all’estero”.
Ma mentre le mafie evolvono, le strategie di contrasto languono.
“Individuare questi collegamenti, smascherare gli intermediari, è difficile. Occorrono indagini approfondite, ci vogliono un grosso impegno e mezzi adeguati”.
Con il caso De Magistris poi si sono accesi i riflettori su un’altra grande fonte di denaro cui hanno attinto illecitamente tanto i mafiosi quanto gli imprenditori disonesti. E’ sufficiente presentare un progetto e supportarlo con fatture false, alcune delle quali gonfiate fino al 500%, per poter ottenere un finanziamento europeo e chiaramente intascarlo senza aver dato il via a nessuna opera, oppure lasciandola incompiuta. Si stimano ammanchi tra i 2,5 e i 4,5 miliardi di euro che sarebbero dovuti servire per rilanciare l’economia del Mezzogiorno del nostro Paese.
Quell’ordine di Provenzano: “Ci dobbiare fare impresa” è stato eseguito alla perfezione ed è evidente che ciò non si sarebbe potuto verificare senza la connivenza di tanti operatori economici e finanziari che non si preoccupano dell’odore dei soldi. Che non c’è. Se è assolutamente plausibile l’ottimismo degli inquirenti che individuano in questo particolare momento storico una grande occasione per infliggere un colpo fatale all’organizzazione cosa nostra, parlare di sconfitta della mafia non sembra un obiettivo a così facile portata di mano. Lo sarebbe se complici e favoreggiatori, almeno ai livelli più inferiori, trovassero più conveniente liberarsi della zavorra criminale e investire nello sviluppo legale del Sud.
A giocar di fantasia, e di utopia, si potrebbe immaginare che questo avvenisse anche a livelli superiori se speculatori e colossi finanziari che sono alla testa del “sistema criminale” trovassero più conveniente investire nello sviluppo sostenibile del nostro pianeta, piuttosto che depredarlo e costringerlo ad una lenta agonia.
Come se per assurdo ci potesse essere un’Italia senza il Sud o i terrestri senza Terra!

[Tratto da Antimafia Duemila numero 5/2007]

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