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Febbraio-Marzo/2008 - Editoriale
direttore@poliziaedemocrazia.it
E se provassimo a diventare un Paese “normale”?
di Paolo Pozzesi

Dopo due anni si torna a votare, con una legge elettorale unanimamente giudicata pessima (una “porcata”, secondo la definizione di uno dei suoi autori, e di qui il termine codificato di “porcellum”), ma tant’è, malgrado i pareri contrari venuti anche da fuori della politica (Confindustria, sindacati, e altri rappresentanti della “società civile”), la fretta ha prevalso. Del resto, dovendo scegliere un altro sistema di voto che rendesse più stabile la futura maggioranza di governo, tra modello tedesco modificato, modello spagnolo rielaborato, modello francese corretto, e varie esoteriche versioni di “mattarellum”, probabilmente non sarebbe stato facile arrivare in breve a una soluzione concordata. Tanto più che è alle porte (fra un anno) un referendum il quale, se tutto va bene, dovrebbe complicare maggiormente le cose.
Al di là delle disquisizioni sui diversi modelli, si va al voto. Con qualche novità. Anzitutto, finito il tempo in cui si “criminalizzava” l’avversario, la campagna elettorale è partita su toni insolitamente garbati. E’ stata messa la museruola alle denunce apocalittiche di loschi fini predatori, dittatoriali, liberticidi, che le parti contrapposte si scambiavano ritualmente fino alla vigilia delle elezioni. Se ne deve dedurre che nessuno è più “contro” ma tutti sono “per”? Forse, anche se il beneficio che se ne trae non è poi così rilevante. E, a dire il vero, non è che i cittadini fossero così scandalizzati dai toni veementi delle campagne elettorali, anzi, assistere allo spettacolo dei politici che si accusavano reciprocamente delle peggiori nefandezze poteva essere persino gratificante, e, perché no?, istruttivo. Altra novità, non da poco, le alleanze preelettorali. E qui è tornato di moda il detto “meglio soli che male accompagnati”, tradotto politicamente, beninteso, e da alcuni rielaborato sotto forma di variopinti apparentamenti. Comunque, da una parte e dall’altra sembra essere condivisa una certa prudenza. Entrambi gli schieramenti sanno per dura esperienza che alleati poco sicuri, riottosi, o, peggio, subdoli voltagabbana, possono rendere una vittoria più amara di una sconfitta. Allora, sono fioccati i “no, tu no”, che hanno provocato grida di protesta, affrettate apostasie, corse disordinate da una parte all’altra alla ricerca di un caritatevole asilo. Tutto questo dovrebbe portare a una semplificazione del quadro politico, e a una maggiore stabilità della parte che sarà chiamata a governare. Un’ipotesi senz’altro auspicabile, ma certo da verificare.

I programmi? Bene, i programmi, si sa, sono programmi. Qualcuno ha fatto notare che sui punti più importanti hanno una certa tendenza a somigliare tra loro. Se anche fosse vero, non sarebbe una novità. E a questo proposito va detto che la colpa è in parti eguali della classe politica e di noi cittadini elettori: le bugie, una volta scoperte, ci offendono, ma la verità nuda e cruda ci deprime, e chi ce la sbatte davanti non sarà ripagato da gratitudine e simpatia. Solo un folle con la vocazione del martirio annuncerebbe, ad esempio: dovremo aumentare le tasse, perché da decenni ci portiamo dietro un debito pubblico enorme, e non possiamo chiedere agli svedesi di pagarlo. Insomma, un programma elettorale non deve essere necessariamente menzognero, ma è tenuto a conservare un tono fra l’ottimistico e il mansueto: taglieremo le spese inutili, ridurremo il peso della burocrazia, incrementeremo la produttività, garantiremo la sicurezza, faremo le riforme. Ecco, le riforme ci sono sempre. Le riforme piacciono molto, anche perché sovente non si sa bene che cosa debbano essere. O meglio, ognuno le immagina a modo suo. Grandi e piccole. Meglio le grandi, perché meno impegnative, dato che una volta fatte capita che non se ne ricordi più nessuno, e si può evitare di realizzarle. Quelle piccole rischiano di essere scabrose, di toccare nell’immediato interessi e privilegi di categorie che inevitabilmente insorgeranno minacciando barricate e rivoluzioni. Siamo notoriamente un popolo di rivoluzionari che non ha mai fatto una rivoluzione, ma ne parla volentieri.

* * *

Comunque, votare è necessario. La scelta dell’antipolitica – suggerita anche da qualche comico di grande talento, ma forse obnubilato da un meritato successo – è peggio che sbagliata: equivarrebbe a un harakiri, a una autopunizione. L’astensionismo lascia il tempo che trova, o lo peggiora. Votare basandosi sulle proprie convinzioni, qualsiasi esse siano, tenendo conto che – pur se non tutto ciò che viene promesso potrà essere mantenuto – è indispensabile che alcuni punti siano garantiti. Anzitutto, il nostro ruolo nell’Unione Europea: ridurlo, o addirittura comprometterlo, sarebbe fatale, significherebbe mettere l’Italia ai margini di quello che un tempo era chiamato “il concerto delle nazioni”. In un mondo sempre più, nel bene e nel male, globalizzato, l’Unione è l’unica assicurazione credibile per il presente e per il futuro, e l’euro – con i sempre incombenti rischi di crisi a livello planetario - lo scudo più sicuro per la nostra economia.
Detto questo, restano i nodi interni: la spesa pubblica, la sicurezza, i salari, la sanità, la scuola, la ricerca, l’ambiente. Su questi temi non esistono formule magiche in grado di risolvere tutto, e tutto insieme. Ma c’è un’altra voce, che vediamo non abbastanza, poco, o niente affatto, citata nei programmi: la legalità. Eppure, è un capitolo fondamentale nella vita di un Paese che vuole essere “normale”. Eppure, l’ultimo segnale è arrivato meno di due mesi fa, in chiusura di legislatura.
“Molecole criminali che schizzano, si diffondono e si riproducono nel mondo. Una mafia liquida, che si infiltra dappertutto”: citiamo un passaggio della relazione conclusiva dell’ultima Commissione parlamentare Antimafia, votata all’unanimità. In questo documento, frutto di audizione, missioni in Italia e all’estero, analisi di una monumentale documentazione, si evidenzia che la ’ndrangheta ha ormai superato, in campo nazionale e internazionale, cosa nostra e la camorra, pur mantenendo con queste organizzazioni occasionali rapporti di collaborazione. “L’organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina, la più stabilmente radicata nelle Regioni del centro e del nord Italia, oltre che in numerosi Paesi stranieri… alla maniera di al-Qaeda con un’analoga struttura tentacolare, priva di una direzione strategica, ma caratterizzata da una sorta di intelligenza organizzativa… La forza della ’ndrangheta è l’altra faccia della debolezza della politica. Ma le ragioni di questa non possono essere cercate fuori da sé. La debolezza è l’elemento centrale di un sistema clientelare di potere che per riprodurre consenso e voti non può essere messo in discussione, pena la crisi della sua presa sociale”. Non sono dei magistrati (sempre sospettati di chissà quali fini reconditi) a dirlo, ma proprio dei parlamentari, dei politici, di sinistra, centro e destra.
Forse per una volta varrebbe la pena di ascoltarli, riflettendo sul fatto che il “prodotto” che vede il Made in Italy al primo posto in Europa e nel mondo è - anche se cerchiamo di diemnticarlo - la criminalità organizzata.
E chiederci se non sia giunto il momento di provare a diventare, anzitutto, un Paese “normale”.

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