Era sempre in orario, sovente in anticipo alle riunioni del Comitato consultivo antidroga presso l’Ufficio prevenzione tossicodipendenze che dirigevo a Palazzo Chigi nei primi anni ’90. Lo trovavo che attendeva in un angolo della sala leggendo un libro dalla rigida copertina nera con pagine ingiallite separate da un segnafogli giallo sfioccato. “Qui c’è tutto” aveva risposto un giorno al mio sguardo curioso. Era la Bibbia o forse il Vangelo. Poi via via giungevano gli altri: i preti che si occupavano dei “drogati”, da don Picchi a don Vinicio Albanese, talvolta don Mazzi, più raramente don Ciotti, e gli esperti laici da Cancrini ad Agnoletto.
Era l’unico tra i preti ad indossare la tonaca nera. Era nera e lisa, lunga sino ai piedi coperti da scarpe con la suola spessa da contadino. Assorto si accorgeva, talora in ritardo, di noi; si alzava e salutava oltre gli occhiali con un sorriso chiaro, luminoso sul pacioso viso sereno. Quindi si cominciava a dibattere il tema del giorno: la campagna antidroga, i criteri dei progetti, l’interpretazione di qualche norma. Non di rado si discuteva con opinioni diverse tra laici e religiosi, tra Agnoletto e don Picchi, Cancrini e don Mazzi... Per me era difficile trovare una sintesi, sembrava che tutti dicessero una parte di verità nel dramma senza perché precisi e senza fine della droga. Talora interveniva lui con un caldo accento emiliano, dolce eppure severo, col sorriso che disarmava tutti, la mano su quel libro socchiuso. Quasi sempre si decideva con suo pensiero...
Sorridevo pensando a Guareschi e al suo don Camillo. Verso la fine però diventava impaziente, fremeva ed era il primo a partire. “Dottore mi scusi, scusatemi tutti, ma i miei figli mi aspettano” e richiudeva il libro nero fissando con cura il segnalibro sfioccato.
Non l’avevo più incontrato da quando mesi dopo ero stato trasferito da quell’Ufficio dopo aver accertato, con l’aiuto della Finanza, che centinaia di milioni finivano in strutture fasulle di una nota associazione antidroga con sedi in Sicilia e Calabria. L’avevo visto ancora in televisione, sempre uguale e contagioso, pacioso eppure battagliero, spesso con quel libro tra le mani.
Qualche anno fa passando da Rimini ero andato a trovarlo nella sua Casa famiglia Giovanni XXIII. Ci eravamo abbracciati: “Venga”, e mi aveva mostrato fiero i locali dove oltre che ai tossicodipendenti c’erano anche ragazze slave, africane, albanesi, che stava cercando di recuperare dal marciapiede. Ne aveva accompagnato alcune dal Papa che aveva carezzato il viso e l’anima di una nigeriana divorata dall’Aids. Avevo partecipato alla sua messa. Eravamo più vecchi, ma lui giovane dentro, disarmante, spettinato, radioso, i capelli bianchi sulla lisa tonaca nera. “Dottore, che bello essere affascinati da loro, dagli ultimi”.
Ora, caro don Benzi, caro don Oreste, vai pure; i tuoi figli, anche quelli di nessuno, i mai nati, ti attendono lì in paradiso dove potrai riconsegnare a lui il libro che non solo leggevi ma praticavi: il Vangelo.
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