Uccise nel 1997 due ragazze
dopo averne violentata una. L’omicida
presentò una caratteristica
sconvolgente: non era
in grado di controllare
gli impulsi. Sta scontando l’ergastolo
Scrive Nino Marazzita nel suo libro L’avvocato dei diavoli: “Il delitto di Alivebi Hasani, conosciuto come il pastore macedone, colpevole di avere ucciso due ragazze dopo averne stuprata una, non è paragonabile ad alcun altro per una sua particolarità sconcertante: l’assassino non aveva alcuna coscienza del male e non tentava di fingersi diverso da ciò che era.
La sua ferocia nel distruggere due giovani vite, senza rimorso, era tale da suscitare orrore anche in un avvocato avvezzo a ogni efferatezza, ma nello stesso tempo, per le condizioni in cui si era sviluppata, tale ferocia generava in me una certa pietà. Con questo non voglio assolvere Alivebi, ma solo, sulla scia di un pensiero totalmente libero, addentrarmi nell’abisso della sua mente, in cui si muoveva in una sorta di ottundimento, come un sonnambulo”.
Raccontiamo che cosa accadde quel giorno in cui tre ragazze ebbero la disgrazia di incontrare Alì. Era il 20 agosto 1997 quando le sorelle Diana e Silvia Olivetti con l’amica Tamara Gobbo decisero di fare una passeggiata alle pendici della Maiella.
“Dopo un cammino di circa due ore arrivammo a Mandra Castrata, una località in apparenza disabitata”, raccontò Silvia. “A un certo punto ci siamo fermate e abbiamo visto un uomo alto, con un cappello con la visiera calata sugli occhi. Lo abbiamo salutato da lontano e mia sorella, gridando per farsi sentire, gli ha chiesto se quella era la strada giusta per arrivare in cima al monte. L’uomo non si è mosso e con la mano ci ha fatto cenno di proseguire. Abbiamo ripreso a camminare e, all’improvviso, ci siamo accorte che lui ci seguiva. Ci ha detto di non passare davanti allo stazzo perché c’erano i cani, consigliandoci di deviare per il bosco che era di lato. Quindi si è messo davanti a noi, procedendo per un po’ di metri.
A un certo punto si è fermato indicandoci il boschetto: io e Tamara gli eravamo passate davanti, mentre Diana si era fermata di lato. A quel punto abbiamo ringraziato l’uomo che per tutta risposta ha tirato fuori una pistola, spingendoci nel bosco. Eravamo terrorizzate e gli abbiamo obbedito. Poi l’abbiamo implorato di lasciarci andare, offrendogli tutto quello che avevamo con noi, ma lui non ci ha ascoltato, dicendoci solo di stare zitte. Ho continuato a pregarlo, ma lui non ha avuto pietà e mi ha sparato colpendomi all’addome. Sono caduta e Tamara si è messa a urlare. E’ partito subito un altro colpo che ha raggiunto la mia amica che è stramazzatta per terra. Diana allora ha chiesto all’uomo di potersi avvicinare per vedere come stavamo e lui, dopo molte insistenze, ha acconsentito.
Mia sorella è venuta accanto a me e io le ho sussurrato di pensare a Tamara. Sospettavo già che fosse morta, perché avevo sentito i suoi rantoli e avevo visto i suoi occhi rovesciarsi. Quando Diana ne è stata certa si è messa a urlare contro l’uomo: ‘L’hai ammazzata e hai ammazzato pure mia sorella!’.
Lui allora le ha intimato di tacere e di spogliarsi, avvertendola che aveva altre tre pallottole in canna. Poi mi ha preso per i capelli, sollevandomi il capo verso Diana per dimostrarle che ero ancora viva. Io sentivo tutto, ma, per salvarmi, mi fingevo svenuta. Terrorizzata dalle minacce, mia sorella si è tolta la maglietta camminando più in giù verso il bosco. Lui la seguiva sempre con la pistola in pugno. Poi si sono fermati e ho visto mia sorella sdraiata per terra, mentre l’uomo le stava sopra con i pantaloni calati. In quel momento mi sono alzata e ho cominciato a correre, mentre alle mie orecchie giungeva un altro sparo, seguito da silenzio, perché mia sorella ormai non aveva più voce.
Dopo un po’ mi sono fermata, nascondendomi dietro delle rocce per riposarmi e mi sono accorta d essere ferita anche al braccio. Me lo sono fasciato con una maglietta che avevo nello zaino e ho ripreso a correre, fino a quando sono arrivata davanti a un piccolo monte con una croce di ferro. Guardando in basso ho visto un gruppo di case e l’ho raggiunte. Poi ho incontrato alcune persone che mi hanno soccorso chiamando un’ambulanza e la Polizia”.
In aula Silvia Olivetti rabbrividì e fece rabbrividire i presenti ricostruendo i fatti, poi l’udienza raggiunse il culmine della tensione emotiva quando il giudice le chiese: “lei vede oggi presente in aula l’uomo che ha sparato?” Al che la ragazza, in silenzio, inesorabile, puntò l’indice della mano destra verso Alivebi, togliendogli ogni speranza. Il pastore allora si sentì perduto e tentò una difesa disperata, sostenendo che il primo colpo era partito per caso, perché Tamara, nel tentativo di allontanare un cane, gli aveva lanciato un sasso, ferendolo al petto. Quindi cercò di far credere che a sparare fosse stato un uomo misterioso, sparito chissà dove, per poi ammettere il duplice omicidio, negando, però, lo stupro di Diana, una contraddizione, in quanto i due crimini erano complementari.
“E quando io gli feci notare (scrive ancora l’avv. Marazzita) durante un incontro in carcere, che l’esame del Dna lo inchiodava inequivocabilmente, mi sentii chiedere di che cosa si trattasse. Alivebi rimuoveva i suoi delitti difendendosi con puntiglio maniacale da un furto di cavalli, come se un reato minore potesse avere importanza nella sua situazione. ‘Io non ho rubato cavalli’, ripeteva come una cantilena, incapace, evidentemente, di valutare la gravità del duplice omicidio e le sue conseguenze.
Quando lo incontrai per la prima volta lo vidi come lo avevano visto le sue vittime: trascurato nel vestire, con la barba incolta e l’aria di chi non si lava da tempo. Difenderlo era un’impresa disperata e non glielo nascosi. ‘Guarda che non potrai tornare in libertà’, gli dissi senza preambolli. Alì non replicò e, osservandolo, rimasi stupito dall’immobilità della sua espressione: i suoi occhi erano vuoti e la sua faccia piatta e sbiadita come una di quelle fotografie mal riuscite di un vecchio documento. Mi chiesi che cosa ci fosse dietro quell’involucro impenetrabile, e presto giunsi alla conclusione che Alivebi aveva perso la sua identità umana, per paura, per difesa o per cancellare i ricordi. L’accusa ipotizzò che recitasse la parte dell’ebete per ottenere qualche attenuante, ma la circostanza non era credibile in quanto il pastore mancava di quel minimo di organizzazione mentale per sostenere una messinscena.
Il carcere, che in genere abbrutisce, paragonato alla sua vita da servo pastore era un’oasi felice che lo aiutò a riprendere coscienza di sé. In galera Alivebi ebbe un letto, pasti regolari, la televisione che non aveva mai visto e la compagnia degli altri detenuti.
Mi confidava di conservare un ricordo confuso del giorno in cui aveva ucciso, travolto dapprima solo dal desiderio sessuale, che ben presto si era trasformato in una furia cieca. Le grida di Silvia e Diana, dopo la morte di Tamara, lo avevano esasperato, creandogli un angoscioso senso di allarme che gli aveva annebbiato la ragione. ‘Volevo il silenzio’, mi ripeteva meccanicamente, come se qualsiasi suono, nel vuoto del suo isolamento, turbasse un equilibrio mentale fittizio. Ammetteva anche di aver cercato di raggiungere Silvia, che fortunatamente non si era accorta di essere inseguita e aveva trovato la forza per correre e la lucidità per nascondersi. Mi sono chiesto che cosa sarebbe accaduto se il pastore avesse raggiunto la sua preda, per arrivare alla conclusione che probabilmente ci sarebbe stato un terzo omicidio.
L’idea di occultare le tracce del crimine non lo sfiorò, vuoi per rassegnazione, vuoi per l’impossibilità di elaborare il concetto di colpa. Di questo mi convinsi parlando con Alivebi e studiando le modalità dei suoi delitti, e per questo chiesi per lui la perizia psichiatrica. La mia richiesta provocò una drammatica reazione nel padre di Diana e Silvia, Alfio Olivetti, che mi contestò duramente scoppiando in lacrime. Provai per lui una profonda solidarietà e sentii il bisogno di spiegargli i motivi della mia iniziativa, che non intendeva assolutamente negare le responsabilità dell’imutato ma mirava soltanto ad accertare la verità. Cercai di convinverlo che individuare i motivi profondi che avevano spinto Alivebi a uccidere gli avrebbero consentito di ritrovare, nei limiti del possibile, la serenità. Un traguardo irraggiungibile per i parenti delle vittime che, con un impulso umanamente comprensibile ma sbagliato, fanno della vendetta una ragione di vita. In tal modo, senza saperlo, assorbono una parte della crudeltà del colpevole e scendono, in un certo senso, al suo stesso livello in un processo psicologico autodistruttivo.
Il pastore macedone aveva ucciso e andava certamente punito, ma era altrettanto giusto appurare se avesse reagito nel pieno delle sue facoltà mentali”.
Negli esami peritali il macedone si abbandonò a confessioni indicative della sua scatenata impulsività, presente fin dall’infanzia, giudicate poco rilevanti dagli psichiatri. Ricordò, infatti, una lite in famiglia in cui, travolto dall’ira, aveva aggredito uno dei fratelli, facendogli saltare tre denti con un pugno. L’intervento di un altro fratello, accorso per aiutare il malcapitato, fu vissuto da lui come un oltraggio e in un certo senso come un modo per escluderlo dal nucleo familiare. Ricordò ancora un altro episodio avvenuto in Italia nel 1996, quando aveva colpito un albanese portandogli via un orecchio con una bastonata. ‘Mi minacciava con un coltello e io tiravo a ucciderlo’ dichiarò Alivebi. ‘Siccome non era morto gli ho tirato un’altra legnata sulla schiena. Se lo uccidevo lo mettevo sotto terra e lo facevo mangiare dai cani’.
La perizia della difesa sottolinea, fra l’altro, che “il paziente è portatore di gravi disturbi della personalità, associati a una gravissima incapacità di controllo degli impulsi [...] A diciotto anni fugge in Italia lasciandosi guidare dall’impulso e qui, progressivamente, si va isolando sempre di più rifiutando ogni coinvolgimento affettivo e quasi ogni relazione umana. Scieglie un lavoro che facilita la propria fuga che inconsciamente egli mette in atto per sfuggire a impulsi irrefrenabili che lo spingono ad atti auto ed eterodistruttivi [...]”.
La consulenza della difesa, tuttavia, non servì a convincere i giudici, i quali accolsero i risultati della perizia d’ufficio condannando il pastore macedone all’ergastolo, con la pena aggiuntiva di otto mesi in isolamento.
“Dopo la condanna (scrive ancora l’avv. Marazzita) incontrai qualche altra volta Alivebi, notando in lui i segni di una lenta ma costante evoluzione. Direi quasi una civilizzazione che portava alla luce lati del suo carattere rimasti a lungo sepolti da un ammasso di angosce, paure, sospetti, nella sensazione di essere un rifiuto umano. Una barriera invalicabile tra sé stesso e il mondo, in cui io, al di là di ogni considerazione psichiatrica, individuo il sintomo più chiaro della sua follia. Perché questa è la parola che mi viene in mente, anche se Alivebi non era schizofrenico, né paranoico, ma solo ‘disturbato’ psicologicamente, al punto, mi confidò, da non avere mai pianto, nemmeno da bambino. La sua faccia immobile era lo specchio di una mente cieca e sorda che lo aveva portato a uccidere. Come suo difensore, avevo proposto che fosse curato, ma non sono stato ascoltato e quindi, per il pastore macedone, ormai ci sono ben poche speranze di salvezza. Qualcuno dirà che non la merita, ripensando allo scempio di Tamara e Diana, inerti sul terreno, e all’orrore impresso indelebilmente nel cuore di Silvia. Capisco una simile reazione, ma razionalmente continuo a credere che se un killer è malato di mente debba scontare le sue colpe in un’apposita struttura piuttosto che in carcere. Una punizione che non equivale certo all’assoluzione e può durare anche quanto l’ergastolo”.
L’ultima volta che l’ho visto (annota Nino Marazzita) Alivebi era curato nel vestiario, gentile nei modi e meno spento nell’espressione. A differenza degli altri miei assistiti non mi ha chiesto se riuscirò a ridargli la libertà, forse perché non la desiderra. E non per un inconscio desiderio di espiazione, come talvolta accade, quanto perché, alla luce del suo passato, forse non la ritiene un bene necessario”.
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