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Gennaio/2008 - Articoli e Inchieste
Islam
Quando il velo è una bandiera
di Gianni Verdoliva

Per le giovani musulmane coinvolte
nel processo di islamizzazione, il niqab
è un simbolo più di natura politica
che religiosa. E al di là delle differenze
nazionali, l’appartenenza alla stessa fede
diventa più importante di quella etnica


Il velo inteso come articolo di abbigliamento, indossato quasi esclusivamente dalle donne, ha lo scopo di coprire la testa ed, eventualmente, una parte del volto. Dal punto di vista religioso il velo ha la funzione di mostrare rispetto nei confronti di un luogo o di un oggetto. Tra gli ebrei ortodossi, ed in particolare nelle comunità hassidiche, è abbastanza frequente incontrare uomini che, durante la preghiera del mattino, indossano un velo di colore bianco con delle frange, chiamato tallit.
L’uso del tallit da parte dei maschi che abbiano celebrato il bar mitzva, il passaggio all’età adulta della tradizione ebraica, è condiviso anche dalle donne nelle correnti non ortodosse. Rimane peraltro limitato ad un momento particolare ed è l’eccezione che raffigura il velo maschile. Un’altra eccezione è costituita dai preti mandei, rappresentanti di una religione antica dell’area della Mesopotamia che attualmente, a causa delle persecuzioni religiose, rischia l’estinzione. I preti mandei indossano una lunga tunica bianca la cui parte superiore copre anche il capo, svolgendo la funzione di velo. Si tratta però di eccezioni che confermano la regola.
Ad indossare il velo, sempre per motivi religiosi, sono quasi esclusivamente le donne.
Nella tradizione cristiana, all’ingresso in chiesa alle donne era fatto obbligo di coprire il capo con un velo in segno di rispetto, mentre gli uomini dovevano mostrare lo stesso rispetto togliendosi il cappello. Una tradizione questa, specularmene opposta a quella ebraica che prevede invece l’obbligo della kippah per i maschi nel corso delle funzioni in sinagoga. Un obbligo condiviso da tutte le correnti dell’ebraismo.
L’uso di coprire la testa con un velo all’ingresso in chiesa per le donne è tuttora praticato nelle varie chiese orientali e nelle chiese ortodosse. La pratica, in voga nella Chiesa cattolica fino agli anni ’60, è andata sparendo. I cattolici integralisti, invece, considerano tuttora l’uso del velo femminile in chiesa come obbligatorio. L’uso del velo per le donne che assistono alla messa nella Chiesa cattolica è stato dapprima reso obbligatorio come legge canonica nel 1917 e successivamente reso facoltativo nel 1983. Indossare il velo durante la funzione religiosa non è però mai stata una pratica universale per le donne cattoliche. Contrariamente a quanto accade nella Chiesa ortodossa e in alcune Chiese evangeliche carismatiche conservatrici in cui il velo femminile in chiesa appare decisamente più usato.
Diverso discorso vale per le suore. Il velo, di varie forme, colori e misure, tuttora fa parte dell’abito delle donne che fanno parte degli ordini religiosi cattolici. Certo il velo appare meno evidente di un tempo quando spesso anche il collo e le spalle erano coperti ed il volto appariva come incorniciato. Anche le suore anglicane indossano il velo, seppur in una forma limitata. Contrariamente alle monache ortodosse che, invece, indossano dei veli integrali, spesso di colore marrone scuro o nero. Anche le donne mormone indossano il velo durante le funzioni religiose.
Le varie pratiche relative alle tradizioni cristiane descritte però si riferiscono solo all’uso del velo in chiesa o da parte di donne facenti parte degli ordini religiosi.
Non fa parte della tradizione cristiana la prescrizione o l’incoraggiamento all’uso del velo all’infuori del contesto sacro. Se le donne cristiane lo indossavano, era per motivi di ordine culturale o sociale. L’unico collegamento alla tradizione religiosa è l’uso del cappello negli spazi pubblici da parte delle donne della chiesa mennonita, specie se di buona famiglia e praticanti.
Nella tradizione ebraica ortodossa le donne anche negli spazi pubblici hanno il capo coperto. Il velo però, corto e colorato, è usato in gran parte dalle donne nelle colonie ebraiche, nei territori disputati tra Isreale e l’autorità palestinese. Spesso le donne ebree ortodosse indossano vezzosi ed eleganti cappelli o, in alcuni casi per le più osservanti, delle parrucche. Salvo rare eccezioni, relative alle comunità hassidiche ultraortodosse, l’uso di coprire il capo negli spazi pubblici non è però considerato come assolutamente irrinunciabile e come parte integrante primaria della propria identità religiosa. Anzi, l’uso del copricapo è in alcuni casi rivendicato come modo di essere alla pari con gli uomini. Da qui l’utilizzo della kippah femminile per le donne rabbino delle correnti reform e conservative e per le spose.
In alcuni casi il velo è usato da donne anziane, specie nelle zone rurali dell’Europa dell’est o nell’Europa meridionale. La trasmissione “Terra” di Canale 5 curata da Tony Capuozzo ha mostrato, la scorsa primavera, un servizio girato in un paese della calabria che mostrava delle donne anziane che indossavano il velo. Usanza comune un tempo e abbandonata dalle giovani.
Diverso il discorso sul velo islamico. Per tutta una serie di fattori. Non solo perché si parla di una religione seguita da oltre un miliardo di persone ed in piena espansione, ma anche perché l’uso del velo da parte delle donne musulmane non è una pratica in recessione o minoritaria, come accade in contesti non islamici, ma, anzi, è in continua espansione ed è adottata da un numero crescente di giovani donne.
Se l’uso del velo da parte delle donne che vivono in contesti islamici è di lunga data, la sua rivendicazione in forme fortemente militanti, è relativamente recente.
Basti pensare ai film egiziani degli anni ’70, commedie musicali che mostravano donne in canottiera e capelli al vento fischiettanti o alle foto che diverse donne afgane espatriate mostrano alla stampa in cui si vedono ragazze degli anni ’60 con minigonne e capelli cotonati.
Anche nelle comunità islamiche della diaspora in Europa, l’uso del velo femminile compare in modo massiccio solo a partire dagli anni ’90.
Questi aspetti appaiono poco studiati da parte dei vari commentatori e del mondo accademico che sul velo islamico tanto scrivono.
Secondo Gérard Patrimonio, della sezione francese della Christian Solidarity International, la data centrale da tenere in considerazione è il 1989. Anno in cui le forze islamiche hanno preso il potere in Sudan, e in cui lo scrittore anglo-indiano Salman Rushdie, è stato oggetto di una fatwa per il suo libro “Versetti Satanici”. Il 1989 è anche l’anno in cui, nelle scuole francesi, si registrano i primi casi di ragazze velate nelle scuole pubbliche. Abbastanza elementi da poter ritenere che, forse, dietro l’esplosione dell’uso del velo ci siano dei retroscena sui quali non si è indagato a sufficienza.
Molti dei giornalisti e dei commentatori che analizzano il fenomeno del velo islamico parlano di una scelta liberamente effettuata con convinzione dalle giovani donne. Eppure il fatto che un numero crescente di ragazze decida di indossare il velo pur vivendo in contesti occidentali dovrebbe generare riflessioni più puntuali.
Molto di rado si ricorda di come in Francia,Paese che da decenni è stato meta di immigrazione dai Paesi magrebini, e in cui è sempre stato presente un razzismo strisciante, e in alcuni casi anche dichiarato, fino agli anni ’90 le donne di origine araba, fatta eccezione per le anziane, assolutamente non indossavano il velo. Lo stesso vale per la Gran Bretagna, Paese che ha sempre accolto immigrati pakistani, e in cui le donne fanno ricorso al velo, anche integrale, solo ultimamente.
Certo non si può negare che il razzismo della società di accoglienza può anche spingere delle giovani donne a rifiutare lo stile di abbigliamento delle loro coetanee, o che ci siano dei casi in cui il velo non è una scelta ma un’imposizione. Fatta con minacce o botte. Ma in diversi casi le ragazze davvero scelgono di indossare il velo. A volte con lo stupore, la disapprovazione e la costernazione dei genitori, madri in testa, che ritenevano che il velo fosse ormai un retaggio del passato.
Per affrontare e riflettere adeguatamente sulla questione del velo occorre disfarsi dei luoghi comuni. Uno dei quali vuole che gli immigrati di seconda generazione siano necessariamente più progressisti dei loro genitori. Certo, in passato, salvo rare eccezioni, così è stato. I greci, gli spagnoli, gli italiani, i polacchi, i latinoamericani e tutti i vari gruppi etnici che sono stati protagonisti di ondate migratorie, spinti dalla povertà e dalla mancanza di lavoro, sono stati dapprima chiusi col mondo circostante e conservatori e, successivamente con le nuove generazioni, si sono aperti.
Con gli islamici questo non sta accadendo. Anzi, sono proprio i giovani che esprimono spesso le posizioni più conservatrici e radicali. Un altro dato che viene tenuto in scarsa considerazione è l’omologazione di tutte le comunità islamiche in una unica e sola entità. Per quanto esistano delle differenze tra pakistani, turchi, marocchini, bengalesi, iracheni, etc, quello che unisce tutti è la fede nella religione islamica. L’appartenenza religiosa è diventata quindi più importante di quella etnica. Complici le sempre più forti organizzazioni islamiche che, anche in Europa, raggruppano i loro fedeli in un'unica entità, riunita sotto la bandiera verde dell’Islam. E complici anche gli Enti statali che appoggiano ed incoraggiano tale trasformazione culturale. In questo contesto le donne si devono distinguere dalle altre. Indossando il velo. Molte organizzazioni islamiche e moschee inoltre, sono finanziate dai Paesi islamici e, spesso, dall’Arabia Saudita. Paese quest’ultimo, non solo ricchissimo per via del petrolio ma anche sede della corrente wahabita, la più radicale. Ecco quindi libri, cd, conferenze, radio, seminari. Tutto incentrato sull’Islam. Una vera macchina organizzativa dal punto di vista educativo. Il cui intento è far breccia tra i non-musulmani attraverso la dawa, una sorta di evangelizzazione tesa ad aumentare il numero di conversioni. E a far aderire coloro che già sono musulmani ad una visione e ad una pratica più conservatrice della religione.
Un altro aspetto dimenticato è il coinvolgimento in prima linea delle donne nel processo di islamizzazione delle comunità musulmane. Sicuramente esiste la gender jihad, la lotta delle donne musulmane per la riforma, in senso progressista ed egalitario, della propria fede. Ma, accanto a questo fenomeno, ve ne è uno di senso opposto. L’adesione di tante, tantissime donne all’islamismo.
Come non ricordare le donne kamikaze di Beslan, le donne pakistane completamente velate di nero che sostenevano i predicatori della famigerata moschea rossa, le bambine palestinesi che dalla televisione di Hamas incitano altri bimbi a diventare kamikaze. Anche senza arrivare a questi estremi, molte giovani donne islamiche sostengono posizioni che vanno nel senso della rigida separazione dei sessi. Per costoro il velo è un simbolo. Più di natura politica che religiosa. L’idea della separazione tra uomini e donne, parziale o totale, negli spazi pubblici e nella società, è abbracciata con fervore da tante donne islamiche. Non dovrebbe stupire se si pensa che, spesso, sono proprio le donne ad opporsi ai cambiamenti verso l’uguaglianza. L’idea che le donne, intrinsecamente, ricerchino ed anelino un modello di società paritario, è purtroppo fuorviante. Occorre ricordare come, solo per fare un esempio di un contesto non islamico, a lottare con maggiore accanimento contro la possibilità del sacerdozio femminile in seno alla Chiesa anglicana, ci sono state proprio tante donne.
Inoltre a complicare la questione c’è l’atteggiamento di lettura del fenomeno fortemente condizionato dal relativismo culturale. Molti intellettuali e politici importanti vedono nell’uso del velo islamico e, purtroppo, anche in altre pratiche molto più gravi come l’infibulazione e i matrimoni forzati, l’espressione di una cultura diversa, altra, da rispettare. L’accusa di razzismo o di “islamofobia” è pronta ad essere scagliata contro chiunque muova critiche od obiezioni all’uso del velo islamico.
Il velo islamico, per i sostenitori del relativismo culturale, è l’espressione di una cultura che il cattivo mondo occidentale in passato ha oppresso. Di conseguenza è da rispettare se non addirittura da incoraggiare. In questo senso bisogna intendere le immagini, presenti nei vari siti britannici di agenzie ed enti parastatali e che si occupano di rapporti con le minoranze etniche e religiose, che presentano, sempre e comunque, immagini di ragazze islamiche velate. Come se il velo fosse una seconda pelle. Con queste immagini, che esaltano l’uso del velo islamico anche da parte di ragazze molto giovani, si manifesta l’idea che, come si deve rispettare l’identità dei neri resa visibile dal colore della loro pelle, così bisogna fare con le donne islamiche che si rendono visibili con il velo. Specie nel Regno Unito, ma non solo, è interessante notare che le donne musulmane godono di un’attenzione particolare che non è mostrata nei confronti di nessun altro gruppo religioso. Ad esempio il sito della Women National Commission (www.thewnc.org.uk) non solo mostra l’icona di una donna velata nella sua homepage ma ha un programma speciale dedicato alle donne musulmane. Nulla però è organizzato per le donne hindu, Sikh, ebree o pagane.
L’impulso di indottrinamento derivato dai proventi del petrolio e l’atteggiamento di comprensione, se non di connivenza di gran parte della classe politica e dell’intellighenzia del mondo occidentale dovrebbero essere presi in considerazione come cause principali dell’utilizzo massiccio del velo islamico.
Inoltre è interessante ricordare che l’uso del velo viene rivendicato come un diritto. Cooptando il discorso e finanche gli slogan progressisti. Nel corso delle manifestazioni a Londra contro la legge francese sulla laicità le ragazze islamiche brandivano cartelli con la scritta “A woman’s right to choose”. Lo slogan, originariamente riferito al diritto di una donna a scegliere se interrompere o meno la gravidanza era stato utilizzato durante le lotte per ottenere l’aborto libero e legale. Ora lo stesso slogan viene ripreso dalle militanti islamiche. Che lottano per il diritto di una donna ad indossare il velo. Mai però per il diritto di una donna a non indossarlo.
I propugnatori dell’islamismo hanno adottato una tecnica vincente. Adottare concetti e parole che si riferiscono al campo dei diritti per trovare, molto facilmente, degli alleati. Antirazzisti, terzomondisti, ambientalisti, e chiunque sia sensibile alla lotta per i diritti. Senza pensare che la lotta va a senso unico. Tarek Fatah, del Canadian Muslim Congress, un’organizzazione di musulmani canadesi che si batte per la laicità e la parità tra uomini e donne, ha criticato i gruppi che protestavano contro la legge francese ricordando che, se volevano essere credibili e coerenti, avrebbero dovuto manifestare anche contro la legge iraniana che impone l’uso del velo a tutte le donne. Comprese le non musulmane. Il rivendicare “diritti” a senso unico è venuto fuori anche di recente quando un’orchestra tedesca, recatasi in Iran per uno scambio culturale, si è piegata alle pressioni del governo di Tehran e ha fatto indossare alle musiciste il velo durante il concerto.
In teoria il velo islamico dovrebbe mostrare la modestia di una donna ed il suo vivere in maniera pia. La femminista egiziana Nawal El Saadawi ha fatto notare quanto siano incoerenti le giovani donne che indossano il velo e, al contempo, si truccano.
Il velo come simbolo politico quindi. In apparenza inoffensivo. Un semplice pezzo di stoffa colorato e anche elegante. Da annodare attorno al collo. Come i foulard tanto di moda negli anni ’50. Peccato però che dietro il velo c’è un mondo. E una concezione della società. Come non ricordare i racconti esasperati degli insegnanti francesi che, prima dell’approvazione della legge sulla laicità, avevano notato alcune degenerazioni inquietanti. Ragazze che si rifiutavano di fare attività sportiva, ragazze che si rifiutavano di essere interrogate da professori maschi, studenti che chiedevano di essere esonerati dalle verifiche durante il Ramadan, etc. Lentamente, molto lentamente, con il velo arrivano altri cambiamenti. Altre richieste, sempre più pressanti e sempre più radicali. Ad avere avuto più problemi erano stati gli istituti scolastici che, in nome del quieto vivere, avevano ceduto alle richieste di tipo comunitario basate sul credo religioso. A fronte della debolezza del corpo docente gli studenti, non paghi, aumentavano le richieste, come ricordato nel corso dei dibattiti che hanno anticipato la legge.
Le polemiche in Turchia sulla moglie del Premier Erdogan che si rifiuta di togliere il velo durante le cerimonie pubbliche sono indicative. I sostenitori della laicità in Turchia sanno benissimo che il velo è solo un primo segnale di cambiamento della società. Un cambiamento lento e graduale ma teso a fare in modo che si arrivi ad una totale islamizzazione della vita pubblica.
Come in Sudan dove, dopo il colpo di stato del Fronte Nazionale Islamico, è stata introdotta la “Islamic Dress Law” che ha bandito il toab, l’abito tradizionale delle donne sudanesi che è stato sostituito con un abito considerato più confacente alla versione islamica pura, identico al modello iraniano e finanziato dallo stesso regime islamico di Tehran.
Parlando dell’Iran la stessa Shirin Ebadi che durante i viaggi all’estero si presenta a capo scoperto ha raccontato al sito di informazione delle donne womensenews di aver cominciato a subire pressione affinché indossasse il velo fin dai giorni successivi alla rivoluzione islamica che aveva cacciato lo Sha.
Centinaia sono le donne che in Iran vengono multate per vestire in abiti non conformi a quanto il regime islamico ha imposto. Le ciocche di capelli che spuntavano dai veli e che rappresentavano la speranza per il cambiamento all’epoca dell’elezione del riformatore Kathami, stanno sparendo.
Stessa sorte per le donne irachene. Dopo l’occupazione americana e l’insorgere delle milizie islamiste e degli attentati terroristici, il velo è diventato uniforme corrente per le donne irachene che si avventurano negli spazi pubblici. Quelle che in origine hanno resistito si sono piegate in seguito alle botte e ai pestaggi. Stessa sorte per le donne cristiane che ormai in Iraq indossano il velo islamico per adeguarsi a quanto viene imposto con la violenza ed il terrore.
Anche le comunità musulmane cinesi, che hanno avuto una storia ed un percorso diversi, si stanno trasformando. Il velo, sconosciuto fino a poco tempo fa ha fatto la sua apparizione ed è adottato da un numero crescente di giovani donne, come riporta Alexa Olesen in un suo reportage dalla regione del Ningxia per la Associated Press.
Non a caso è da notare che tale regione ha intensificato di recente gli scambi commerciali con i Paesi arabi produttori di petrolio, in particolare con l’Arabia Saudita.
Una volta esploso il fenomeno è difficile porre un freno in un secondo momento. Come testimonia la polemica scatenata in Gran Bretagna dai gruppi islamici alla dichiarazione di Jack Straw che aveva espresso il desiderio che le donne che usano il niqab, il velo nero integrale che lascia solo lo spazio per gli occhi, mostrino il volto. Immediate le accuse nei confronti del politico britannico. Dipinto, come da copione, come razzista e islamofobo. Proprio in Gran Bretagna il velo comincia ad essere sostituito dal niqab. Forse non a caso. Il paese che ospita un vasto numero di organizzazioni islamiche estremiste e fautore del multiculturalismo ad oltranza, vede una radicalizzazione dei giovani islamici. Sempre più chiusi in se stessi e sempre più fissati con la loro interpretazione della religione. Da questo l’aumento dell’uso del niqab che impedisce di fatto una corretta comunicazione, non mostrando il volto e rendendo difficoltoso l’ascolto di ciò che la persona sta dicendo. Proprio quello di cui si sono lamentati i bambini di una scuola inglese la cui maestra pretendeva di fare lezione con il niqab al punto da lanciare una causa giudiziaria per discriminazione per essere stata licenziata.
Un comportamento che fa parte di una precisa strategia. Spingere il più possibile i limiti dell’accettazione di ciò che è considerato puramente islamico da parte della società nel suo complesso. Come ha fatto un’altra avvocatessa che, sempre in Inghilterra, pretendeva di perorare la causa in Tribunale indossando il velo integrale.
Oltre a isolare dal mondo esterno chi lo indossa, sia simbolicamente che fattivamente, il niqab e il burqa, imposto alle donne afgane dai talebani, sono un vero pericolo per la sicurezza pubblica. Impossibile verificare l’identità di chi si cela sotto tali abiti per non parlare della visione limitatata in caso di guida.
Il fatto che ad indossare il niqab siano donne che hanno compiuto studi superiori e che hanno un elevato livello culturale, smentisce chi sostiene che la conoscenza della lingua del Paese di adozione è il modo di combattere l’integralismo islamico.
Non che non sia importante, ma senza il riaffermare delle regole comuni per tutti i cittadini e garantire gli stessi diritti per tutti, il conoscere una lingua è insufficiente.
Il triste episodio accaduto in Egitto lo scorso inverno, e reso pubblico attraverso la riproposizione dei fatti su Internet attraverso dei video, mostra, ancora una volta, quanto l’indossare il velo, integrale o meno, non sia affatto un deterrente per la violenza alle donne. In quell’occasione diverse donne, pur essendo assolutamente vestite col velo, sono state pesantemente molestate sessualmente da gruppi di uomini per le strade de Il Cairo durante la festività islamica di Eid.
“Il niqab mi terrorizza”. A dirlo, a chiare lettere, è Mona Eltahaway del Muslim Wake up, gruppo di musulmani democratici che usa Internet per esprimere le proprie idee. L’autrice, di origine egiziana, ha smesso di indossare il velo e ha cominciato una battaglia accanita contro l’uso del niqab.
Se il verbo terrorizzare può sembrare esagerato, sarebbe opportuno ricordare l’abbigliamento di Daniela Farina, la moglie dell’imam di Carmagnola, famoso per i suoi proclami minacciosi. La signora, che aveva adottato una visione dell’Islam integralista al massimo livello, girava completamente vestita di nero con sul volto una maschera a griglie fitte, tipo quelle indossate dagli schermitori. Una visione non certo rassicurante. Abbigliamento simile è indossato dall’assassino del film Final Cut, un thriller americano della fine degli anni ’90 che nulla ha a che vedere con le tematiche del velo e dell’islamismo ma i cui autori ben avevano centrato l’immagine agghiacciante.
Non stupisce quindi se alcune municipalità del Belgio hanno bandito l’uso del niqab dagli spazi pubblici. La vista di queste figure totalmente avvolte in abiti neri aveva spaventato i bambini del luogo. Stando alla stampa belga, quasi tutte le donne contattate dalle autorità municipali hanno accettato di indossare veli che mostrano l’ovale del volto.
Iniziative legislative simili in Olanda e nelle scuole norvegesi, tese a rendere fuorilegge i veli islamici integrali, non sono ancora arrivate alla fine del loro percorso.
Un altro argomento raramente preso in considerazione è l’uso del velo islamico da parte delle bambine. Se il fatto che una ragazza a 18 anni affermi di avere scelto in maniera totalmente autonoma e senza nessuna spinta dall’esterno di indossare il velo è comunque discutibile, è assolutamente improponibile argomentare che bambine di 10, 8, 6 anni o anche meno abbiano scelto di indossarlo. Uno degli indici tramite i quali si può vedere fino a che punto è islamizzata una società è costituito dall’uso del velo islamico da parte delle bambine.
Se ci sono diverse scuole di pensiero nelle comunità musulmane in merito all’età giusta per indossare il velo, è lecito presumere che almeno fino all’età della pubertà l’uso del velo femminile è inutile. Farlo indossare fin dall’infanzia significa accrescere il senso di appartenenza religiosa e l’adesione a principi imposti. La bambina si abitua fin dalla più tenera età a coprire il capo e si convince che è l’unico modo conveniente per lei di andare in giro. Unica concessione fatta all’età è costituita dai colori. Se le madri indossano veli neri uniformati, le bambine possono indossare veli colorati ed allegri. Anche il fenomeno della Barbie “islamica” con il velo va in questo senso. La bambina, giocando con una bambola con il velo, si identifica ad una figura femminile costantemente associata al velo.
Contro la pratica dell’uso del velo islamico da parte delle bambine ben poche voci si sono levate.
Occorre inoltre ricordare che nelle comunità musulmane della diaspora nel mondo occidentale, il tasso di matrimoni esogamici, con persone appartenenti ad altri gruppi, è molto bassa. Se sono pochi gli uomini che sposano donne non musulmane, rarissime sono le donne musulmane che si sposano con uomini che non lo sono senza pretendere la loro conversione. Il velo è una barriera eretta contro il mondo esterno, contro gli uomini non appartenenti al gruppo di origine. La mancanza quasi totale di matrimoni misti è un altro elemento che non viene mai preso in considerazione nelle varie analisi sul velo islamico.
Più l’impostazione è reazionaria, più i veli sono integrali. Non che una donna che indossa il velo islamico sia necessariamente integralista. Di sicuro non lo sono le ragazzine afgane che vanno in scuole sgangherate sotto la minaccia costante di attentati da parte dei talebani, né le donne del Darfour in Sudan, che avvolte in multiformi veli colorati si arrangiano come possono nei campi profughi, né le donne di Sister in Islam, un collettivo femminista che in Malaysia lotta per la parità di genere, né le avvocatesse nigeriane del Baobab for human rights che difendono le donne accusate di adulterio nei tribunali islamici. Come non lo sono le donne arabe imprenditrici in Israele, o le attiviste africane che educano le famiglie contro l’infibulazione. O ancora le lesbiche musulmane velate che hanno partecipato al Gay Pride di Londra o le teologhe musulmane che fanno un paziente lavoro di esegesi del Corano. Se la preoccupazione principale è costituita sinceramente dai diritti umani e dai diritti delle donne, il fatto di indossare il velo non è certo un impedimento al dialogo e all’impegno su cause comuni per il cambiamento.
Quando però i diritti umani sono una scusa per attaccare la politica statunitense e/o israeliana, e al contempo tacere su violazioni efferate da parte di molti Stati islamici, allora il discorso delle donne musulmane velate può essere difficilmente credibile.
Di sicuro sono poco credibili le risposte femministe al velo. Come denunciato da Phyllis Chesler, studiosa americana e femminista di vecchia data, che denuncia come molte organizzazioni femministe, pervase dall’ideologia del relativismo culturale “sussurrano” contro i vari crimini contro le donne commessi nel mondo islamico. E, di sicuro, non prendono una posizione netta contro l’uso del velo come strumento di islamizzazione della società. Specie nei circoli accademici dei women’s studies che la stessa Chesler aveva contribuito a creare in passato, molte studiose si ingegnano in piroette teoriche ed equiparazioni antropologiche tese, comunque, a difendere, scusare, giustificare se non addirittura valorizzare l’uso del velo islamico. Giudicato a volte come “liberatorio” per le donne.
La denuncia della Chesler non prende in considerazione però altre prese di posizione. Come la rivista femminista tedesca Emma che ha sempre mosso critiche all’uso del velo islamico. O le femministe francesi o del Quebec che, in larga maggioranza, appoggiano la legge sulla laicità e lottano contro le eccezioni alle regole comuni basate sul credo religioso. O ancora il gruppo Secularism is a woman’s issue (www.siawi.org) ed il collettivo Prochoix, guidato dalla giornalista e ricercatrice Caroline Fourest che lottano contro tutti gli integralismi religiosi, compreso quello islamico. Certo, un fronte univoco di critica all’uso del velo islamico da parte del mondo femminista non esiste.
Non solo perché su tante tematiche le alleanze sono possibili anche con donne musulmane che lo indossano e perché in certi contesti difficili la politica dei piccoli passi è la migliore ma anche perché troppo spesso le varie studiose presentano un’immagine edulcorata e platinata delle società islamiche. Neanche queste fossero dei mondi meravigliosi ai quali ispirarsi.
Tra le varie questioni di ordine pratico legate all’uso del velo islamico vi è quella legata all’attività sportiva. Anche in questo caso dove esiste la ragionevolezza e dove il velo non è considerato qualcosa di assolutamente irrinunciabile, i problemi si superano. Come è il caso delle atlete afgane che gareggiano in tuta e con in testa un cappellino. Se invece il velo non può essere tolto per nessun motivo al mondo e gli uomini non possono vedere neanche vagamente le forme del corpo femminile, allora il compromesso è impossibile. L’attività sportiva verrà limitata al massimo o a contesti in cui ci si ritrova tra donne. Da qui la pretesa crescente di aprire le piscine pubbliche agli uomini o alle donne in giorni diversi. Parlando di sport ad alti livelli, se molte sono le donne musulmane atlete, per quelle che vivono in Paesi islamici dove il velo è la regola, le possibilità sono limitate; senza prendere in considerazione le questioni di carattere tecnico e pratico relative alla pratica di diverse discipline sportive. I Muslim Women Games sono dei giochi olimpici dedicati esclusivamente alle donne musulmane che indossano il velo. Lontano dagli sguardi degli uomini, mantenuti alla larga dalle gare, queste donne si ritrovano in un mondo a parte.
Un discorso simile vale per le donne facenti parte delle Forze di polizia. Nei Paesi islamici il fatto che le donne poliziotto siano velate, anche se non sempre, può anche essere un dettaglio. Ciò che conta realmente in tal caso è che le donne abbiano accesso alla professione e che contribuiscano attivamente e visibilmente al mantenimento della sicurezza pubblica. Diverso è il discorso nei Paesi occidentali, come a Londra in cui le locali Forze di polizia hanno fatto un’eccezione per la divisa permettendo ad una donna musulmana di indossare il velo con l’uniforme.
Rimane da vedere se ci saranno altre richieste in tal senso e di che entità saranno.
Un contesto invece sul quale davvero non ci sono preoccupazioni è quello relativo al velo islamico indossato dalle donne nelle moschee. Trattandosi di un luogo di culto, l’utilizzo del velo, in questo caso specifico, non è un elemento di sorpresa e non crea alcun precedente o eccezione all’impianto comune delle regole condivise della società. A sconvolgere gli islamisti durante le preghiere guidate dalle prime donne imam, svoltesi in Canada e negli Stati Uniti, è stato il fatto che fosse una donna a farlo. Per quanto perfettamente velata.
L’uso del velo islamico rimane una questione aperta di non facile soluzione. Difficilmente il fenomeno diminuirà, almeno fino a che l’integralismo islamico, grazie anche ai proventi del petrolio, avrà il vento in poppa. Ci possono però essere delle linee guida, delle strade da prendere in considerazione. Come quella della Francia. A distanza di tre anni dalla sua applicazione la legge francese sulla laicità ha avuto successo. Il numero di ragazze velate non è diminuito ma, le stesse ragazze rispettano la legge. Se il primo anno di applicazione il ministero dell’Educazione recensiva centinaia di casi di ragazze recalcitranti, l’anno dopo i casi problematici erano solo poche decine fino a sparire del tutto quest’anno.
Il messaggio, evidentemente, è passato. La legge è uguale per tutti. Non c’è velo che tenga.

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