Il rapporto dell’Istat “L’uso
e l’abuso di alcol in Italia” fotografa
una realtà preoccupante. I giovani italiani
bevono troppo e troppo presto. Aumentano
i morti sulle strade e il numero di intossicati
da alcol nelle comunità terapeutiche
Iniziano nelle scuole medie, a 12 anni. I ragazzi italiani, secondo la recente indagine dell’Istat “L’uso e l’abuso di alcol in Italia”, sarebbero i bevitori più giovani d’Europa. Quasi un quinto tra gli undici e i quindici anni ha bevuto almeno una volta negli ultimi dodici mesi. Il 7,5% dei ragazzi tra i 16 e i 17 anni beve fuori pasto almeno una volta alla settimana. Il 12,1% ha preso una sbronza nell’ultimo anno. In crescita il numero delle donne, che aumenta significativamente tra le laureate (il 70,9% contro il 49% con al massimo la licenza elementare). Scendendo sulle piste da ballo, poi, le percentuali salgono vertiginosamente. Secondo un’indagine condotta dall’Istituto Superiore di Sanità, il sabato sera nelle discoteche il 74% dei giovani (di cui il 67% tra i tredici e i quattordici anni) beve alcolici e il 20% si ubriaca.
Nonostante gli italiani consumino oggi 6,8 litri di alcol a testa ogni anno, contro gli 11 litri del 1985, il numero degli alcolisti è passato dai 29mila del 1996 ai 54mila del 2005. Un paradosso, si potrebbe pensare. In realtà, si beve meno ma si beve peggio, soprattutto fuori pasto e nei fine settimana, tanto che si parla di binge drinking, una sorta di “abbuffata” alcolica di sei o più drink nella stessa serata. Se fino a qualche anno fa resisteva il modello mediterraneo, che privilegiava il consumo di vino durante i pasti, ora prevale quello nordico: superalcolici fuori pasto e grandi bevute nei fine settimana.
Le statistiche e i sondaggi permettono di tracciare un identikit del giovane bevitore, di definirne le abitudini, le coordinate socio-culturali, il sesso e l’età, ma diagrammi e percentuali poco dicono sulla natura di un fenomeno estremamente complesso ed eterogeneo, che nasce da una profonda ferita nel corpo della società.
Il primo bicchiere, un rito di passaggio
Roma, Milano, Bologna, Napoli, Verona. Nei venerdì e nei sabato sera di qualsiasi città italiana non è insolito incontrare nugoli di ragazzi con il bicchiere in mano. Alcuni camminano aggrappati l’uno all’altro, altri sono seduti sui gradini di una piazza, sui marmi antichi, stretti, vicini. L’alcol fa evaporare le timidezze, allenta i freni inibitori, rilassa le tensioni. Con la testa leggera e le gambe molli la distanza che separa dall’altro si percorre meglio, ci si avvicina, ci si riesce a toccare e a sentire.
L’alcol è una sostanza che da modificazioni lente, ma se assunta secondo le modalità del binge drinking provoca un’alterazione potente e immediata. In tal senso, il consumo di alcol comincia a somigliare pericolosamente a quello della droga. L’alcol, però, è un ingrediente molto più accessibile e socialmente accettato, che si trova nelle nostre case e con il quale siamo continuamente a contatto. Le prime assunzioni, infatti, avvengono quasi sempre in famiglia, sia in occasione di feste che nella quotidianità, e spesso si connotano come veri e propri riti di passaggio ad un periodo della vita caratterizzato da maggiore libertà e indipendenza. In questi casi, l’alcol sembra essere un veicolo di crescita che consente l’ingresso nel mondo degli adulti. «Mi sentivo grande... potevo iniziare a bere vino e birra, bevande permesse ai grandi» dice Maria Pia, studentessa ventitreenne. «Magari alla luce degli altri eri uguale, però tu ti sentivi diversa perché avevi assaggiato un po’ dell’età adulta».
Per alcuni il ricordo della prima bevuta è ambivalente. Se da un lato è stata l’occasione per provare qualcosa di nuovo e di proibito, allo stesso tempo ne ha rivelato gli effetti negativi connessi ad un’assunzione esagerata o si è rivelata una delusione rispetto alle aspettative. «Sono stata male, malissimo» ricorda Elisa «penso sia nata da lì la mia misura nel bere».
In genere, però, gli eccessi nel consumo di alcol avvengono in compagnia degli amici, non solo durante feste o in luoghi come discoteche e pub, ma anche in occasione di vacanze e gite scolastiche. «Quando ero più ragazzina» racconta Michela, studentessa di ventidue anni «durante l’intervallo a scuola io e una mia amica andavamo a comprare la birra all’enoteca per poi raccontarlo ai nostri compagni! Credo fosse per la voglia di trasgredire». «Mi ricordo che alle feste di seconda media era il massimo della trasgressione che si potesse fare. Anche se avevamo bevuto una birra io e le mie compagne facevamo le ubriache, però non lo eravamo». In questi casi, il consumo di bevande alcoliche sembra essere una di quelle trasgressioni attraverso le quali nell’adolescenza si conquistano identità e nuovi saperi e che, come tale, tende ad essere abbandonata una volta raggiunta l’età adulta. Questo tipo di eccessi, dunque, può essere considerato “sano” e regolato, poiché si verifica in qualche occasione e si caratterizza per la presenza di una soglia. Può capitare che questa venga superata, ma in molti casi i ragazzi dichiarano di aver imparato proprio così a conoscere i propri limiti. E’ quello che gli inglesi chiamano edgework, cioè una particolare inclinazione dei giovani a sperimentare il proprio corpo, le sue reazioni, le sue potenzialità fino al limite estremo. «Io so più o meno dove posso arrivare» dice Daniele, studente diciassettenne «lo so perché mi è successo delle volte di superare il limite! Quindi adesso so che se bevo una o due birre sto bene».
E’ opportuno, dunque, fare una distinzione tra un’esperienza riconducibile alla tipica tendenza adolescenziale a trasgredire (che riguarda tutte le generazioni) e il consumo abituale e compulsivo di bevande alcoliche che si sta diffondendo oggi tra i giovani, rivelatore di situazioni problematiche.
Figli del nostro tempo
L’universo giovanile può essere analizzato a diversi livelli (individuale, di gruppo) e considerato secondo fattori culturali, sociali ed economici. Alcuni sostengono che il tratto distintivo della condizione giovanile oggi sia il dilatarsi della sua stagione e la conseguente perdita di significato dei tradizionali riti di passaggio (dei quali spesso non resterebbe altro che il superamento dell’esame di guida). Secondo altri, sarebbe fondamentale considerare il tipo di rapporto, conflittuale o meno, tra il mondo dei giovani e quello adulto. Altri ancora hanno parlato di crisi del ruolo genitoriale, in particolare della sua funzione pedagogica; l’ipotesi è che, accanto ai due modelli tradizionali del genitore “autoritario” e di quello “autorevole”, si sia sviluppato quello del genitore “amico”, sostanzialmente debole e incerto sul rapporto pedagogico con i figli. Ci sono, infine, coloro che ritengono necessaria all’indagine sulla peculiare condizione giovanile di oggi un’analisi sulle modificazioni prodotte dal processo di modernizzazione. All’interno di quest’ultima prospettiva si individuano posizioni diverse, anche se prevalentemente riconducibili all’idea che la società di oggi pone i giovani di fronte a dilemmi che spesso diventano fonte di gravi tensioni. Pensiamo alle numerose contraddizioni di cui la nostra società è portatrice, come ad esempio quella di essere giovani come ideale sociale (da cui l’insistenza, talvolta patetica e ossessiva, da parte degli adulti di perseguire a tutti i costi la giovinezza) e l’accento sulla gioventù come problema; oppure pensiamo al culto della magrezza come ideale di bellezza e la continua sollecitazione a consumare cibo, tipica della nostra cultura. E questi sono solo un paio di casi in cui c’è un’evidente discordanza tra il fine e la procedura per realizzarlo.
Uno degli effetti complessivi del processo di modernizzazione che pare potersi cogliere è quello di una “cultura della precarietà”: esiste un legame profondo tra una condizione sociale fluttuante, temporanea e incerta e la crescente solitudine dell’individuo nel definire il proprio io. Questo tratto della condizione giovanile si traduce spesso nella difficoltà (se non nell’impossibilità) di immaginare un futuro. “Il tuo futuro è ora”, recita la sigla di Extreme Radio, una famosa stazione radiofonica americana esclusivamente diretta al pubblico giovanile. O “Life is now”, per citare uno dei più diffusi tormentoni pubblicitari di questo periodo.
Prescindere dai cambiamenti socio-culturali in una riflessione sull’abuso di alcol da parte dei giovani significa rimanere in superficie, galleggiare sull’onda dei luoghi comuni che vengono attribuiti all’universo giovanile. E’ importante partire dalle caratteristiche della società, perché, come diceva lo storico Marc Bloch, «gli uomini somigliano al loro tempo, più che ai loro padri». E non bisogna limitarsi alla nostra singola specificità nazionale, ma estendere l’analisi all’intera situazione europea, con la quale sono numerosi gli elementi in comune: il venir meno della dimensione diacronica dei progetti di vita e il conseguente accento sui consumi “qui e ora”; la centralità del vestire, dell’aspetto fisico e dei consumi nella costruzione della propria identità; il rinchiudersi nella propria intimità; il dilatarsi del “tempo vuoto” e l’atteggiamento passivo che caratterizza questa condizione.
La nostra è una società che vive repentini e drastici cambiamenti, altamente competitiva, in cui non è concesso sbagliare e in cui contano molto le prestazioni. E’ una società che vuole tutti perfetti e omologati, che annulla le differenze e schiaccia le diversità, in cui non è facile sopravvivere se non si hanno gli strumenti adeguati. Questi dovrebbero essere forniti dalla famiglia, che spesso provvede al benessere economico dei figli, ma trascura quello psichico e affettivo. Un bambino dovrebbe cogliere l’amore dei propri genitori, dai quali deve sentirsi desiderato e accettato, ricevere messaggi rassicuranti e imparare che ci sono dei valori saldi e sicuri nel mondo in cui vive; deve essere guidato nell’affrontare i cambiamenti ambientali e le difficoltà grandi e piccole della vita. In molti casi, invece, i figli crescono davanti a una televisione accesa o accuditi da eserciti di baby-sitter che si sostituiscono alla figura materna, spesso ridotta a pallido miraggio che compare la sera. I cambiamenti della nostra società hanno spezzato antichi equilibri che hanno inciso, prima che nella vita dei bambini, in quella degli adulti. Il nostro mondo chiede alle donne di essere ambiziose e di realizzarsi nel lavoro, di essere sempre belle e alla moda, libere e indipendenti. Il tempo che rimane per i figli è molto poco e soprattutto di scarsissima qualità. I padri sono figure che spesso rimangono nell’ombra, accondiscendenti quando noncuranti, privi di quella sicurezza nei confronti dei figli che il proprio ruolo pedagogico richiede.
Se durante l’infanzia la famiglia non è stata una “base sicura”, nell’adolescenza possono nascere problemi difficili da risolvere. Per molti giovani il contatto con la realtà è molto duro da reggere: la droga e l’alcol ne anestetizzano i colpi, creano uno stato di sospensione, neutralizzano l’angoscia e il senso d’inadeguatezza. E’ importante che i genitori stimolino i propri figli a porsi degli obiettivi e a imparare a programmare il loro tempo libero, perché la mancanza di interessi e l’assenza di scopi nella vita porta alla noia e a un devastante senso di inutilità. Molti giovani si accostano all’alcol proprio per vincere questi sentimenti e per sentirsi vivi emozionalmente.
L’abuso di alcol è il segnale di una diffusa e inarrestabile malattia che fiacca la nostra società. Le generazioni precedenti non dovevano confrontarsi con un opprimente senso di precarietà, con la paura di non trovare mai un lavoro o una casa in cui vivere. I giovani di ieri hanno vissuto stagioni politiche accese, hanno conquistato diritti e lottato per le loro idee, hanno contestato il mondo degli adulti con i loro capelli lunghi, le occupazioni e le minigonne. Quelli di oggi, invece, si trovano una classe politica vuota e sempre uguale a se stessa, che ha deluso tutti, incapace di appassionare e di coinvolgere la gente. Quelli di oggi crescono con i programmi della televisione commerciale e sognano di assomigliare ai personaggi che gli vengono propinati. Quelli di oggi si confrontano con dei genitori che sono diventati loro “amici”, compagni di viaggio con i quali scambiare abiti e confidenze.
“Mi sentivo a disagio? Bastava buttare giù due, tre bicchieri...”
A prima vista non diresti mai che Annalisa ha avuto un passato di alcoldipendenza. Ha un viso dolce e pulito, gli occhi grandi, il naso all’insù. Poi inizia a parlare della sua esperienza, si schiarisce la voce e il suo sguardo si allontana chissà dove. «Ho sempre pensato che la mia vita fosse normale. Certo, avevo dei problemi di relazione ed ero timidissima. Da bambina mi sentivo a disagio con i miei compagni, fuori posto, non riuscivo a socializzare.» Il suo primo incontro con l’alcol avviene a tredici anni. «Durante una gita scolastica, di sera, ci si trovava tutti in una camera. I miei compagni compravano un sacco di cose da bere. Birra, gin, vodka. E’ stata la prima volta che mi sono ubriacata. Mi sentivo euforica, a mio agio, padrona della situazione, in un modo favoloso. Inutile dire che il giorno dopo stavo da schifo. Da lì ho cominciato a pensare che potevo dominare i miei problemi con l’alcol. Mi sentivo a disagio? Bastava buttare giù due, tre bicchieri e diventavo subito una gran chiacchierona, allegra e disinvolta». Con l’andare del tempo, però, la situazione le sfugge di mano. Invece che avvicinarla agli altri, l’alcol la stava lentamente isolando. «Non mi rendevo conto che mentre bevevo le mie paure e i miei problemi si radicavano sempre più a fondo. La cosa assurda è che ho cominciato a bere per stare meglio con gli altri, ma più passava il tempo e più diventava insopportabile frequentare altre persone. Vedevo gli altri sereni e realizzati, padroni delle loro vite, mentre io affondavo sempre di più. Ero completamente sola». I suoi genitori si sono separati quando aveva otto anni. «Mio padre era una persona totalmente assorbita dal suo lavoro, stava fuori casa per lunghi periodi e quando tornava non mi dava mai un po’ della sua attenzione. Mia madre era una donna stravagante. Quando tornavo a casa ubriaca non mi diceva niente, al massimo il giorno dopo mi faceva qualche battutina, come fosse una mia amica. Diceva che si fidava di me, che io ero molto matura e che anche lei aveva fatto queste cose quando era giovane». Annalisa sorride. «Allora io ho iniziato a esagerare. Quando l’alcol non bastava più, ho cominciato a prendere di tutto. Psicofarmaci, anfetamine, cocaina, eroina, tutto bagnato dall’alcol. A scuola non ci andavo mai, il preside ha convocato mia madre e lei mi ha obbligato ad andare dallo psicologo. Bevevo persino prima dei miei colloqui con lui. Dopo un anno ho smesso di andarci, mi sembrava di perdere tempo». Continua a raccontare, come un fiume in piena. «Tutta la mia adolescenza l’ho passata a distruggermi, sentendomi ignorata, anestetizzandomi con sostanze che non facevano altro che aggravare la mia sofferenza. Passavo da una relazione all’altra, nessuna di durata consistente, con ragazzi molto diversi dai quali mi sentivo totalmente dipendente. Vivevo con l’idea di non meritare amore e con la fobia di essere abbandonata».
Quattro anni fa Annalisa è entrata in clinica, dopo essersi ripetuta per anni che poteva smettere quando voleva. I segni che quell’inferno ha lasciato sui suoi denti opachi stanno lentamente scomparendo dalla sua anima. «Il mio percorso terapeutico continua tutt’ora, non posso dire di aver risolto tutti i miei problemi. Quello che è cambiato, però, è il modo di affrontarli. Ho iniziato a fare progetti, ricominciato a sognare e a provare vere emozioni. Mi sono anche innamorata. Stavolta davvero.»
“Più che l’alcol, il problema sono io”
Gabriele è al suo quarto tentativo di disintossicazione. Potrebbe sembrare un veterano degli Alcolisti Anonimi, invece ha solo vent’anni.
Viene da una cittadina veneta, è il più piccolo di tre fratelli. «La mia è una di quelle famiglie normali, i miei lavorano tutti e due, non ci è mai mancato niente». Ha iniziato a bere cinque anni fa, quando ha cominciato ad andare in discoteca con gli amici, a uscire con le ragazze. Mette subito in chiaro che non si ubriacava per andare dietro i suoi compagni, né per sentirsi accettato. «Per me l’incontro con l’alcol era inevitabile. A casa mia ognuno si faceva i fatti suoi, io praticamente sono stato cresciuto da mia sorella. Mi sono sempre sentito abbandonato, bisognoso d’affetto, terribilmente insicuro. Come se il peso del mondo intero gravasse sulle mie spalle. Mi sentivo schiacciato». Sembra che a casa di Gabriele, in realtà, qualcosa sia mancato. «A un certo punto ho iniziato a provare un forte senso di ribellione contro tutti e contro tutto. Non davo più retta a mio padre, e più lui cercava di correggermi, più io reagivo con forza. In me c’era un tale risentimento verso la vita che mi induceva a fare tutto il contrario di ogni cosa giusta. Ho iniziato a bere quasi tutti i giorni. L’odio per il mondo e per la vita è diventato odio per me stesso. Non facevo altro che distruggermi, bicchiere dopo bicchiere. L’alcol mi dava quello stato di torpore che ti impedisce di pensare e di riconoscerti per quello che sei diventato. Una larva.»
I suoi genitori, ora, non lo mollano un attimo. «Oggi riconosco i grandi sforzi fatti dai miei per aiutarmi, dissuadermi, correggermi, amarmi. Ma finora non sono valsi a nulla. Non so più in quante comunità terapeutiche sono stato e quante volte ho tentato di scappare. Mi sento in un vicolo cieco. Più che l’alcol, il vero problema sono io».
Meglio una sbronza che la droga?
«Mio padre non mi dice niente. Lo sa. Diciamo che si fidano di me, sanno che non esagero, che sono una tipa coscienziosa» spiega Flavia, studentessa di diciotto anni. «Neanche i miei direbbero niente» dice Francesca «la prenderebbero a ridere, perché sono cose che bene o male hanno fatto anche loro». «I miei» interviene Matteo, anche lui diciotto anni «se mi vedono ubriaco non si arrabbiano, lo sanno che sono responsabile, quindi mi lasciano fare, perché sono consapevole dei rischi a cui vado incontro».
Più o meno a conoscenza dei consumi alcolici dei loro figli, molti genitori sembrano non preoccuparsene. E’ raro che li rimproverino per il semplice fatto di aver bevuto; semmai, la loro preoccupazione è per i possibili pericoli connessi alla guida in stato di ebbrezza. Per il resto, c’è una diffusa comprensione per gli episodi di abuso, dovuta alla sostanziale condivisione di esperienze fatte a loro volta da giovani. Nei genitori, dunque, è ancora radicata l’idea che ubriacarsi rientri in quelle sperimentazioni e in quei riti di passaggio che segnano l’ingresso nell’età adulta.
Probabilmente questo sostanziale atteggiamento di tolleranza è dovuto anche al fatto che l’alcol, nella tradizione mediterranea, è da sempre integrato nell’uso alimentare. Spesso, quindi, il bere non è avvertito come un pericolo o comunque si preferisce al consumo di droghe. Un errore, questo, gravissimo, perché la modalità di assunzione alcolica che caratterizza il binge drinking somiglia sempre più alla tossicodipendenza. Come ha recentemente sottolineato l’Istituto superiore di sanità, infatti, l’alcol è in grado di indurre dipendenze peggiori di quelle delle droghe e che il rischio di subire danni esiste a qualunque livello di assunzione.
In tal senso, anche la nuova campagna di regole risulta inadeguata. Il messaggio che viene dato ai ragazzi è: bevi pure, ma non guidare. Bevi, ma stai attento ai pericoli. Poi tornano a casa, accendono la televisione e vengono bombardati da decine di spot pubblicitari che li invitano a consumare alcolici.
In realtà, anche gli studi scientifici che hanno attribuito all’uso moderato di alcol effetti positivi sul sistema circolatorio sono stati recentemente smentiti. Sempre più diffusa nella comunità scientifica è l’impressione che i pochi benefici siano vanificati da rischi ben maggiori, e non solo al volante. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha ufficialmente classificato come cancerogeno l’etanolo contenuto negli alcolici, in seguito alla scoperta che il consumo regolare di alcol incrementa le possibilità di sviluppo di tumori della cavità orale, della faringe, della laringe e dell’esofago, oltre che del fegato, del seno e del colon retto. Con 50 grammi di alcol al giorno (pari a mezza bottiglia di vino) raddoppiano o triplicano le possibilità di ammalarsi di cancro rispetto a un astemio.
Più poliziotti sulle strade, meno divieti nei locali
In Italia non si conosce con precisione il numero di incidenti determinati dalla guida sotto l’effetto di alcol, ma si presume sia molto elevato. La relazione del ministro della salute fatta nel dicembre 2005 evidenziava che il 46% degli incidenti stradali erano stati causati da stato di ebbrezza.
Se dopo l’entrata in vigore della patente a punti nel 2003 si era registrato un calo significativo del numero delle vittime su strada, già nel 2004 l’effetto era meno forte. Il numero dei morti era diminuito del 5,2%, mentre quello degli incidenti tornava a salire. Nel 2006 polizia e carabinieri hanno contato 3447 morti contro i 3475 del 2005. Un calo che sfiora l’1%. In preoccupante aumento anche il numero di persone colte a guidare con un livello di alcol nel sangue superiore a quello consentito: 14.836, il 38,1% in più.
Nel nostro Paese sono circa 400.000 i controlli del tasso alcolemico effettuati ogni anno dalle forze dell’ordine, quattro volte superiori rispetto a cinque anni fa, ma nettamente inferiori a quelli di altri paesi europei. In Francia, dove tra il 2002 e il 2005 i morti sulle strade sono diminuiti del 35, 4%, se ne contano circa 11 milioni l’anno. Altrove hanno scelto strade ancora più radicali. In Australia, dopo aver constatato che il rischio di incidenti sale vertiginosamente quando i ragazzi escono insieme in macchina, i neopatentati per i primi tre anni non possono trasportare coetanei tra le dieci di sera e le sei del mattino.
Se da una parte si denuncia una situazione allarmante per quanto riguarda le morti causate da guida in stato di ebbrezza, dall’altra progetti di educazione al bere vengono cancellati per mancanza di fondi, gli accertamenti clinici non sono uniformi sul tutto il territorio nazionale e le analisi del sangue non sono obbligatorie. C’è chi, come Franco Lodi, direttore della Tossicologia forense di Milano, afferma che una soluzione davvero efficace esiste. Sottoporre a un’analisi del sangue chiunque risulti positivo all’etilometro. E se si rifiuta, la conseguenza deve essere la sospensione automatica della patente. In tal modo possono essere individuati i bevitori abituali, ai quali la patente non deve essere restituita fino a quando le analisi del sangue non risultino negative.
Le iniziative prese finora dal governo per limitare l’abuso di alcol da parte dei giovani sono risultate per lo più inefficaci. Come il codice etico firmato insieme alle associazioni di categoria, che prevede la distribuzione di braccialetti all’entrata delle discoteche per chi deve riportare gli amici a casa, al quale non verranno somministrati alcolici. A questa si accompagnano iniziative come quella promossa da Polizia e Ania, che consiste nella somministrazione di alcoltest gratuiti all’uscita di discoteche e biglietti gratis d’ingresso per i conducenti che, sottoposti ai controlli, risultano negativi. Provvedimenti che vengono ignorati dalla stragrande maggioranza dei locali e che finiscono ben presto nel dimenticatoio.
Inefficace quanto anacronistico il recente divieto di bere dopo le due di notte, che non solo induce i ragazzi a bere più in fretta e peggio, ma incentiva anche l’utilizzo di droghe. Chiunque, inoltre, è in grado di aggirare questo provvedimento. In molti locali è possibile comprare delle boccette riempite di vodka, gin o rum da tenere in tasca. Dopo le due basta chiedere al barista acqua tonica o Coca cola e il cocktail te lo fai da solo. Anche la proposta del ministro della sanità Livia Turco appare alquanto contraddittoria. Chiede alle aziende produttrici, alle farmacie e ai pubblicitari di dare informazioni corrette attraverso etichette “choc” come quelle sulle sigarette, che mettano in guardia sui danni causati dall’assunzione di alcol. Ma ancora non esiste una regolamentazione chiara che ponga dei limiti agli spot di bevande alcoliche, sempre più accattivanti e seduttivi.
Prevenire è meglio che curare?
«Io penso che né l’alcol né la droga possono essere sconfitti dentro le scuole, perché il primo indirizzo deve partire dai genitori. La scuola può dare un’informazione, ma come tutte le cose che si fanno a scuola sono pallose. Se mi fai la lezioncina sul consumo di alcol, io il giorno dopo vado a bermi sei litri di birra, perché per me è proprio la risposta all’avermi fatto due palle così sui danni che produce!» confessa Giacomo, sedici anni.
L’informazione è certamente utile, ma è importante che i messaggi non siano intrisi di moralismo. Molto spesso, quando i docenti impongono il loro modello di comportamento, nei ragazzi scatta la rivendicazione della propria autonomia di pensiero e del proprio diritto di scelta. La prevenzione primaria, prima che nelle scuole, deve iniziare fra le mura domestiche e molto precocemente.
L’influenza dei genitori, infatti, è molto più forte nell’infanzia che durante l’adolescenza, quando maggiori sono il condizionamento dei coetanei e la spinte oppositive verso il mondo degli adulti. A quell’età si dovrebbe continuare un’educazione alla salute già iniziata alle scuole elementari e discutere con i ragazzi sui rischi che il consumo di alcol e droga comporta.La prevenzione migliore deve basarsi, oltre che su un’informazione precoce, su legami familiari saldi e sicuri. E’ nella prima infanzia che il bambino acquisisce quella sicurezza di essere accettato e amato necessaria alla costruzione della sua personalità. Senza queste premesse nessuno spot pubblicitario, per quanto scioccante possa essere, né la testimonianza di chi ci è già passato possono tenere lontano i giovani dalla bottiglia.
[Web: www.iss.it/ofad
www.alcolisti.anonimi.it/aa.htm
www.ministerodellasalute.it/promozione/alcool/senzAlcool.jsp?label=alc_dati]
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Germania: tolleranza zero
Divieto assoluto di bere per i giovani tedeschi: nessun tasso alcolemico viene tollerato prima di mettersi al volante, neanche inferiore al limite italiano di 0,5 grammi per litro di sangue. La norma, approvata qualche mese fa dal Bundestag, la Camera Bassa del Parlamento federale tedesco (grazie anche ai voti dell’opposizione), vale per tutti i giovani al di sotto dei 21 anni e per tutti i neopatentati. Un divieto analogo è già in vigore da tempo per i conducenti professionisti (tassisti, autisti di veicoli a noleggio, trasportatori), con l’aggravante della sanzione oltre la soglia degli 0,11 grammi di alcol nel sangue. Le Forze di polizia tedesche possono obbligare il conducente non solo a sottoporsi all’etilometro, ma anche ad analisi del sangue presso strutture ospedaliere.
Il nuovo provvedimento si aggiunge a una normativa in fatto di sicurezza stradale già molto rigida, nonostante la Germania sia uno dei massimi produttori di birra e figuri tra i maggiori consumatori di vino e superalcolici.
Per chi violerà la legge sono previsti 125 euro di multa, oltre alla decurtazione di due punti dalla patente. In caso di incidente stradale, però, il discorso diventa penale. Per i neopatentati le sanzioni si raddoppiano e, anche nel caso di una minima traccia di alcol nel sangue, il periodo di prova della patente da due anni si estende a quattro.
Il ministro dei trasporti Wolfgagn Tiefensee e le Forze dell’ordine si dichiarano soddisfatti degli effetti prodotti da questo provvedimento. Solo nel 2005, in Germania, più di duemila giovani al volante tra i 18 e i 21 anni sono rimasti coinvolti in incidenti stradali a causa di guida in stato di ebbrezza.
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Gli effetti dell’alcol sulla guida
Con soli 0,2 grammi di alcol per 1 litro di sangue i riflessi possono iniziare ad appannarsi e la percezione del rischio diminuire. Dalla soglia legale (0,5 grammi per 1 litro di sangue) il campo visivo si riduce e diminuisce la percezione degli stimoli sonori, luminosi e uditivi. A 0,9 si modificano la valutazione di ingombri e traiettorie e le percezioni visive simultanee: di due auto nel proprio campo visivo, ne viene vista solo una. Un grammo produce effetti di vera e propria ebbrezza e sonnolenza.
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