Quattro esperti, ciascuno nel proprio campo
rispondono a domande sulla storia
e sulla evoluzione del fenomeno criminale
in Piemonte dall’Ottocento agli anni
Cinquanta. Il caso della banda Cavallero
Ricordi di un tempo antico che ormai non esiste più. Questa è la mala piemontese. La vecchia malavita di un tempo. Con la sua aurea romantica e le sue regole non scritte. Con il suo linguaggio, i suoi codici. E i personaggi spesso leggendari. Testimonianza di un periodo in cui la povertà, anche estrema, era endemica nel Regno sabaudo e nella prima Italia unita. Ma anche testimonianza di un modus operandi che non prevedeva, salvo rare eccezioni e tra queste annoveriamo la spietata banda Cavallero, la violenza gratuita. Di sicuro un angolo oscuro della storia del Piemonte, un po’ occultato dai cultori ufficiali della materia e dai vari Enti che si occupano della cultura piemontese. Eppure la mala piemontese ha fatto parte integrante della storia del Piemonte e di Torino. A presentare un affresco di quel mondo, quattro persone che, per motivi diversi se ne sono occupate. Giorgio Balocco, appassionato di musica e ricercatore di testimonianze della cultura popolare; Milo Julini, autore di libri sui personaggi legati al mondo della mala dell’800; Claudio Giacchino, cronista de La Stampa di vecchia data e Giuseppe Goria, che ha insegnato nelle carceri.
Giorgio e Roberto Balocco sono una coppia di ferro. Due fratelli legati non solo da una grande stima e un affetto reciproci ma anche dal comune interesse per la musica e le tradizioni popolari. In particolare per il repertorio musicale conosciuto sotto il nome di “canson d’la piola”. Repertorio cantato da Roberto. Insieme ad altri artisti tra cui il più conosciuto è Gipo Farassino. In queste canzoni ricorrono temi o personaggi legati al mondo della mala ma, a rendere ancora più interessante il tutto sono i quadri di vita dell’epoca passata, non necessariamente legata alla mala, che ne emergono. Giorgio si è occupato di ricercare e repertoriare il materiale cartaceo.
Molti fatti dell’epoca sono riportati nei fogli volanti. Cosa sono esattamente?
Per le nostre ricerche abbiamo raccolto molte canzoni e ci interessiamo al periodo dei cantastorie. I fogli volanti sono dei fogli in cui era riportato il testo di una canzone con il titolo. Erano i cantastorie stessi a venderli. Sotto forma di canzone il foglio volante era, pur con le sue peculiarità, un modo di informare. Di tutto: politica, costume e, ovviamente di “fattacci”. Se uno sapeva leggere e magari anche cantare poteva a sua volta cantarli e riferirli ad altri. Mancava però la musica. Al testo non erano associati spartiti musicali. Al massimo, in alcuni casi, si indicava l’aria di una canzone conosciuta che rappresentava un’indicazione per la melodia, il ritmo, etc. Ne abbiamo raccolti circa 150/200. Per le musiche mancanti mia nonna è stata una fonte importante. Quanto agli argomenti trattati troviamo fatti di natura locale, storia spicciola.
A parte la mala, quale era il mondo che amava la canson d’la piola?
Le canzoni sono generalmente allegre e, a volte, cariche di doppi sensi. Cantarle, magari in gruppo, era un modo goliardico di passare il tempo in compagnia. La piola è un’osteria. Agli inizi del ’900 ce n’erano circa 6:000 a Torino. Non erano certo dei luoghi per malavitosi anche se in alcune si ritrovavano delle bande. A parte però alcune eccezioni la piola era un luogo per famiglie, dove si faceva la “merenda sinoira”, si giocava a bocce. Ad esempio mia nonna andava con le amiche in un’osteria che si chiamava Majin dove chiacchierava bevendo del caffè o del vino chinato (vino aromatizzato). Mio nonno invece andava alla piola da Cappa. Lì c’erano dei vetturini che erano ospitati; uno di loro, Puno, conosceva un vasto repertorio di canzoni e allietava i pomeriggi o le serate degli avventori. La piola era un luogo di svago. Nella piola nasceva una sorta di atmosfera particolare. Ci si ritrovava, si cantava insieme in allegria.
Quindi i cantastorie erano dei personaggi quasi come i cantanti di oggi.
Assolutamente sì. Alcuni vivevano nelle piole. Gli avventori offrivano loro da bere o da mangiare e davano loro qualche liretta. Era uno scambio. Loro intrattenevano e in cambio avevano di che campare. Non erano certamente ricchi come i cantanti di oggi però. Uno tra i più famosi, Veritas, era un conte caduto in disgrazia originario di Beinasco e diventato cieco a 30 anni che si era dato alla vita di cantastorie. Ha vissuto ed è morto in una piola di San Salvario. Ha composto diverse canzoni tra cui la più celebre è Buffalo Bill, sul circo americano che nel 1906 aveva fatto tappa a Torino.
Poi c’era Galacia il barbun che abitava nelle piole di Borgo Dora e usava pesanti doppi sensi. Molte delle sue canzoni erano incentrate sul mondo della prostituzione, evidentemente aveva successo. Poi c’era Tito Livido, giornalista, che aveva una scrittura raffinata e raccontava fatti più interessanti.
Gli avventori delle piole erano mescolati dal punto di vista sociale?
Direi di no. A parte qualche bohémien di famiglia benestante, i borghesi non si mescolavano col ceto popolare. Men che mai la nobiltà. Questo si riflette anche nelle case. Al piano terra c’erano i merciai e negozietti vari spesso con degli ammezzati all’interno che facevano le veci di magazzino, poi c’era il piano nobile, il primo, dove alloggiava la borghesia e nei piani alti c’era la servitù o la povera gente che abitava nelle soffiette, le mansarde.
Nelle canzoni il mondo borghese era preso in giro ma non in modo eccessivo, c’era sempre un rispetto di fondo. In ogni caso i borghesi frequentavano i cafè chantant, luoghi più eleganti e raffinati.
Come si è evoluto il mondo delle piole?
Negli anni del fascismo c’è stata una battuta d’arresto. Il dialetto era bandito e poi il potere temeva che le canzoni goliardiche venissero usate a scopi politici. In effetti c’è un filone di canti anarchici e comunisti in piemontese molto interessante ma io e mio fratello non l’abbiamo voluto approfondire. Si assiste quindi ad un vuoto corrispondente al ventennio.
Poi negli anni ’50 c’è una rinascita. Anche i cantastorie avevano ripreso a girare. Andavano nei cortili a cantare e la gente lanciava alcune monete avvolte in pezzi di giornale. La rinascita non è durata molto. A partire dagli anni ’60 è cominciato il declino. Intorno alla metà degli anni ’60 c’erano solo un paio di piole.
Ora non esiste nulla di quel mondo. Sono solo ricordi o, al massimo, tracce di insegne sulle facciate. Le piole ormai sono diventate dei locali alla moda.
La passione di Milo Julini per la microstoria dell’800 in Piemonte lo ha reso uno dei maggiori esperti dell’argomento. Si percepisce, nel sentirlo parlare, l’amore per la ricerca e la documentazione sui fatti del passato. Dagli aneddoti ai dati ufficiali non vi è nulla che sfugga, fin nei minimi dettagli, al professor Julini.
Professore, come è nato il suo interesse per la mala piemontese?
Già da bambino avevo la passione per la cronaca nera: mentre i miei coetanei raccoglievano le figurine dei calciatori, io ritagliavo dai giornali gli articoli che descrivevano rapine in banca e omicidi. Mi piaceva anche la storia, soprattutto quella del Risorgimento: a dieci anni rimasi estasiato quando a Torino si svolsero le celebrazioni di Italia 61, quelle definite dell’Unità d’Italia.
Anche dopo la laurea e l’inizio della mia carriera di docente universitario presso una facoltà scientifica dell’Ateneo torinese, nel 1974, ho sempre coltivato, sia pure in sordina, queste mie passioni giovanili. Mi ero anche avvicinato alla letteratura in lingua piemontese e leggevo studi di storia locale, in particolare quelli concernenti il periodo risorgimentale, ma restavo sempre insoddisfatto.
Verso il 1985, visto che non riuscivo a trovare in libri scritti da altri le notizie che mi interessavano, ho deciso di metterle nero su bianco io stesso, utilizzando come data di esordio il 1848, anno di nascita della Corte di Appello con dibattimenti processuali pubblici, per finire con i primi anni del Novecento.
Ho così iniziato la ricostruzione delle vicende di banditi di strada, di ladri matricolati, delle associazioni criminali torinesi della seconda metà dell’Ottocento. La mia formazione scientifica mi ha aiutato a ricostruire questi avvenimenti “di prima mano”, utilizzando documenti di archivio e i giornali coevi, impegnandomi sempre per chiarire al lettore il contesto socio-politico in cui erano avvenuti i fatti criminali.
Ho anche raccolto i racconti popolari ancora vivi nelle campagne piemontesi, riguardanti le imprese di alcuni malfattori, la cui figura appare profondamente trasfigurata dall’immaginario collettivo. Ho scritto vari libri, per la maggior parte apparsi nella collana editoriale “Crimini & Misfatti nel Piemonte dell’Ottocento” della Libreria Piemontese Editrice di Torino. Sono anche autore di vari articoli, apparsi su quotidiani e su periodici locali. Ho descritto i malfattori piemontesi ottocenteschi in conferenze e mostre.
Che tipo di criminalità era quella esistente in Piemonte? Che tipo di evoluzione ha avuto e quale era la risposta dello Stato?
Si trattava principalmente di una criminalità rurale. La campagna all’epoca rappresentava un vasto territorio indifeso che offriva ai ladri facili prede: contadini colti di sorpresa dal ritorno dai campi, massaie sole nella fattoria, pastori assaltati nel pascolo. Inoltre la campagna offriva anche facili nascondigli. Non solo per i ladri ma anche per i disertori. All’epoca infatti il militare durava anni e diversi giovani si davano alla macchia per non essere arruolati.
In alcuni casi le ruberie erano minime, i ladri si limitavano a rubare ad esempio le galline. In altri casi i colpevoli venivano accusati di grassazione che è una rapina associata alla violenza contro la vita altrui e la proprietà.
I grassatori erano considerati dei criminali pericolosi. Non a caso durante le varie ondate repressive nel regno dei Savoia che colpivano anche i ragazzini che si macchiavano di piccoli furti a causa della povertà, si diceva: “Si comincia con i fazzoletti e si finisce sulla forca come grassatore”.
Nelle campagne c’erano dei momenti dell’anno in cui i furti e le ruberie aumentavano. Questo avveniva nel periodo tra settembre ed ottobre; il grano era stato mietuto e si cominciava con la vendemmia. I contadini andavano al mercato a vendere i loro prodotti e il ladro sapeva degli eventi e spesso organizzava delle imboscate. Non bisogna dimenticare inoltre che gli spazi aperti della campagna generavano fenomeni di omertà obbligata a causa, ad esempio, della minaccia di incendiare il fienile. In altri casi l’omertà tra i contadini poveri scaturiva da una sorta di ammirazione per il bandito che era considerato come un uomo coraggioso che rubava ai ricchi.
Accanto al ladruncolo di campagna che viveva di espedienti e di furtarelli c’erano anche delle piccole bande che si riunivano nelle osterie per pianificare i colpi e poi disperdersi. Una figura di contorno della malavita dell’epoca era costituita dal sensale delle case di campagna che, conoscendo a fondo la situazione economica delle varie famiglie, riferiva ai ladri chi potevano andare a rubare. A questo bisogna aggiungere il fatto che, spesso, il sensale faceva il doppio gioco con le Forze dell’ordine.
Per quanto riguarda il controllo della legalità questa era costituita dai Carabinieri che erano i prescelti dell’Esercito che però concentravano la loro attività sul controllo del dissenso politico interno al regno. La Polizia invece si occupava della criminalità comune, senza contare l’uso sproporzionato che si faceva delle spie, prostitute e sensali in primis. Le Forze di polizia all’epoca muovevano i primi passi. Fu Carlo Alberto ad inventare la figura del questore. I giudici all’epoca si fidavano molto della Polizia nei cui ranghi si trovavano molti cadetti di famiglie nobili. Non bisogna certo immaginare la Polizia odierna. All’epoca, giusto per fare un esempio, nella città di Asti erano in servizio 7/8 agenti. Anche nella città di Torino il Ministero degli Interni poteva contare solo su 14 agenti, mentre il Municipio di Torino aveva a sua disposizione la sua Polizia chiamata Polizia del Vicariato, usata per controllare gli studenti universitari e gli eventuali elementi considerati sovversivi al loro interno.
Le due Polizie erano in rivalità tra di loro e, comunque, il termine Polizia all’epoca era odiato. La popolazione considerava i poliziotti al servizio dei ricchi. Non sono mancati però elementi di spicco come l’ispettore Temistocle Solera che è stato il paroliere del Nabucco. Detto questo però occorre ricordare che si delinqueva per miseria. Quanto alle aree geografiche non esistevano zone in cui la vita criminale era più intensa rispetto ad altre anche se, ad esempio, la Lomellina era considerata tranquilla.
Quali erano invece i fenomeni criminosi nelle aree urbane?
Quelle che oggi sono delle città all’epoca erano dei paesi grandi circondati dalle campagne. L’unica città davvero considerevole in Piemonte all’epoca era Torino, la capitale che contava circa 150.000 abitanti. E come capitale Torino era collettore delle miserie. I poveri accorrevano a Torino anche per via della carità privata che offriva assistenza sia in chiave cattolica che laica. Aiutavano i molti malati e mendicanti che giravano per le vie della città il cui aspetto è ben diverso da quello odierno. La centralissima Via Roma aveva case vecchissime.
Per quanto riguarda i fenomeni criminosi occorre dire che non è mai esistito alcun tipo di fenomeno di tipo mafioso. Anche a Torino si trattava di piccoli furti, ad esempio di vestiti. La Polizia era solita controllare coloro che non erano visibilmente di ceti sociali elevati per verificare quanto denaro avessero addosso. Se i marenghi d’oro, la moneta corrente, erano più di quanto lo status sociale della persona poteva giustificare, allora scattava l’arresto. In seguito all’unificazione Torino perse le industrie di Stato e ci furono delle sommosse popolari con assalto ai forni del pane. A livello di repressione spesso si mettevano sullo spesso piano il ladrocinio e le lotte sindacali.
Esisteva il coinvolgimento di donne e bambini nelle attività criminose?
Non esisteva la criminalità femminile in senso stretto. Il ruolo della donna all’epoca era controllato socialmente in maniera molto rigida, nel bene e nel male. La partecipazione femminile ad attività illecite era assolutamente marginale. C’era la ladra domestica che era punita con la forca fino al 1831. L’aver rubato in casa dopo che una famiglia aveva dato fiducia era considerata una cosa gravissima. La sfera familiare era riservatissima, ci si dava del lei anche tra coniugi e non ci si chiamava per nome nemmeno tra amici di vecchia data. C’erano comunque le tenutarie dei bordelli, le infanticide, le donne assassine per gelosia, le prostitute collaboratrici con le piccole bande di ladri.
Quanto ai bambini se poveri erano dediti all’accattonaggio o al borseggio. Lo stato non era certo uno stato sociale e la povertà, che generava questi fenomeni, era diffusissima.
C’erano poi le cöche, bande di ragazzini appartenenti ad un dato quartiere che a volte affrontavano le altre bande. I bambini non erano assolutamente considerati dal punto di vista sociale, i piccoli garzoni che lavoravano nelle botteghe erano spesso maltrattati. Anche per la giustizia il bambino era considerato un adulto imperfetto da correggere.
Mentre la violenza contro le donne all’epoca non era quasi mai presa in considerazione.
Quale era l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso i criminali?
Erano considerati fratelli che sbagliavano. Anche perché, come già sottolineato, erano veramente in situazioni di povertà estrema. C’era poi l’assistenza spirituale carceraria per la quale era celebre don Cafasso. In Piemonte ci sono delle figure di santi che nella loro vita si erano impegnati nel sociale come don Bosco. In campo femminile posso ricordare la marchesa di Barolo. La loro azione aveva uno scopo di redenzione.
Chi erano i banditi più famosi dell’epoca?
Sicuramente Mayno della Spinetta (operante nell’allessandrino all’inizio dell’Ottocento), vero fuorilegge rurale che nell’immaginario contadino vestì i panni dell’eroe, ribelle per sete di giustizia, paladino dei poveri, nemico delle aurorità, un bandito gentiluomo con il gusto della beffa. E poi ancora i briganti: Solej del saluzzese; Domenico Becchio (ël dragon d’Caramagna); Carlo Belliardo di Verzuolo; Tommaso Francescotto; Combòt, capo dei briganti di Narzole; Giovanni Andorno da Vigliano; Carlo Castino (il Romano) da Mombercelli; Cristoforo Ferro (Tòfo d’Fer); i langaroli Scarsello, Vivalda e Perno; Andriselli vercellese.
Nel torinese si favoleggiava di Antonio Bruno detto “Cit d’Vanchija”; l’uomo che aveva fatto sempre da arbitro nelle aspre contese che scoppiavano fra la “Còca dël Moschin”, quelle del “Gambero” e delle basse di Dora con i capi briganti Cibolla e Pitocca. Complici di Bruno furono Carlo Rivolta, Anna Bertola, Suardi detto “Carbonaio”, Carlo Penassio detto “Nino dël Moschin”. Le cronache dell’epoca ricordano anche un certo Torquato Bertoglio “Sor Baron” nato a Superga e conosciuto anche per le sue doti ipnotiche. Altre figure di leggendari “barabba” furono i fratelli Artusio e la loro banda, e la brigantessa Isabella Ferraris. Un figuro più documentato fu Pietro Luigi Mottino, brigante noto con il nome di battaglia “Mutin ‘l bersajé” che, dopo avere disertato dall’Esercito si diede alla macchia compiendo numerosi misfatti. Catturato, venne poi giustiziato al “Rondò dla forca” dal boia “Gasprin” con l’assistenza religiosa del prete “Taluch”.
Che tracce ci sono nei giornali e nella cultura dell’epoca della mala?
C’è una letteratura minore in lingua piemontese che rievoca fatti drammatici o briganti famosi. Molti documenti sono andati distrutti durante la guerra. C’erano anche, e questo fa parte della cultura popolare, delle statue di cera che mostravano efferati fatti di sangue e che venivano mostrate nelle fiere di paese per attirare ed impressionare la gente. Ho parlato personalmente con alcuni anziani che ne hanno un vago ricordo di quando erano bambini. C’erano poi i rendiconti processuali fatti nei giornali.
Gli strilloni venivano mandati nelle strade per attirare la gente e nelle copertine venivano disegnate le immagini raffiguranti fatti discussi nei vari processi. La Gazzetta del Popolo, giornale di area cattolica, non pubblicava questi disegni dal momento che li considerava diseducativi. Anche le esecuzioni pubbliche che venivano considerate un deterrente facevano parte del patrimonio iconografico dell’epoca. C’erano poi le marionette che, in origine, erano spettacoli per adulti tutt’altro che allegri e divertenti. Le storie rappresentavano efferati delitti che all’epoca avevano fatto scalpore ovviamente riadattati alla rappresentazione con le marionette.
Quali erano i mezzi investigativi usati dalla Polizia?
La Polizia Scientifica nasce solo nel 1902. I metodi investigativi erano artigianali. A parte l’uso di spie e di informatori a volte le confessioni si avevano in modi oggi impensabili. Il sospettato, brigante od omicida, veniva avvicinato in osteria e gli si offriva da bere in abbondanza. L’atmosfera allegra e il vino allentavano la sua soglia di attenzione e la confessione arrivava spesso spontanea.
Claudio Giachino, cronista de La Stampa, ha vissuto in prima persona l’ultima fase della mala piemontese, quella del declino. Accompagnata dall’emergere di una malavita di importazione e da alcuni fatti di sangue che, a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, hanno appassionato l’Italia. Fatti da lui raccontati nei suoi libri: “L’ultima notte con Martine” e “Amanti coltelli” delle Edizioni Graphot. Un testimone d’eccezione di quegli anni.
Quale criminalità esisteva a Torino nel secondo dopoguerra?
La criminalità era per lo più artigianale: furti d’auto, commercio di sigarette, quest’ultimo gestito dai napoletani. Negli anni ’60 c’è stato il fenomeno dell’immigrazione massiccia dal meridione con i connessi problemi di natura sociale. Oltre a tanti onesti lavoratori c’erano anche diversi giovani che non avevano né arte né parte. Il fenomeno della prostituzione è esploso.
Secondo la questura all’epoca si contavano in circolazione circa 9.000 prostitute che si aggiungevano a quelle storiche, che parlavano in dialetto piemontese e che esercitavano in via Ormea e nelle via intorno a via Garibaldi, nel centro storico. A queste si devono aggiungere ancora i circa 600 travestiti molti dei quali esercitavano nel quartiere bene della Crocetta. Non so spiegare il motivo ma molti erano lucani. La prostituzione aveva i suoi protettori e le varie faide con conseguenti lotte e vendette. Tra il 1972 e il 1973 c’è stata una escalation di omicidi connessi al mondo della prostituzione. Venne invocata la chiusura del Parco del Valentino che era diventato un circo del sesso e venne organizzata una raccolta di firme. Ben 200.000! Una cifra enorme per l’epoca. In via Roma, nella sede degli uffici al pubblico de La Stampa, c’erano file lunghissime di cittadini.
Spesso si parla del passato in termini idilliaci. Non sempre è cosi’.
La Torino degli anni ’60 e ’70 era molto violenta. C’erano fatti di sangue clamorosi. E alla criminalità preesistente autoctona si andava affiancando e sostituendo quella dei nuovi arrivati che avevano più fame ed erano pronti a tutto. C’è stato un balzo in avanti sia a livello quantitativo che qualitativo. La vecchia criminalità ad esempio non avrebbe mai sparato contro le Forze dell’ordine. Ad eccezion fatta per la banda Cavallero, conosciuta per la sua spietattezza.
I nuovi immigrati provenienti dal meridione erano concentrati in quartieri ghetto: Mirafiori, Vallette, via Artom. Grandi casermoni anonimi o case di ringhiera. Erano gli anni del famoso treno del sole. Alla stazione di Porta Nuova arrivavano di continuo immigrati con le valige di cartone.
Quale tipologia di crimine era maggiormente presente?
Le rapine ad esempio avvenivano in continuazione. Mentre la microcriminalità non era eccessivamente un problema. Ma le rapine erano tantissime e anche violente. Stampa Sera e La notte di Milano avevano un bollettino giornaliero delle rapine che usciva alle 16. Inoltre le rapine si accompagnavano a sparatorie, feriti, morti e azioni violente. Un altro problema grave era costituito dalle infiltrazioni della ’ndrangheta nel settore dell’edilizia. C’erano tantissime morti bianche nei cantieri e i lavoratori non erano assolutamente tutelati. Si recavano a Porta Palazzo al mattino presto e lì venivano reclutati per la giornata.
Quale è stata la risposta delle Forze dell’ordine di fronte all’improvviso aumentare della malavita?
La Polizia era stata presa in contropiede da questa esplosione di fenomeni criminosi. Ricordo però figure eccellenti all’epoca come il brigadiere Gerardo Rizzo che aveva un’eccellente memoria fotografica che in diverse occasioni gli era stata utile per le indagini.
Si può dire che era una malavita indotta dalla povertà come spesso accadeva nell’800?
Certo la povertà, l’esclusione sociale e la ghettizzazione avevano il loro ruolo. La scuola e i servizi sociali facevano quello che potevano. Era una situazione difficile. Basti pensare che in quegli anni circa il 50% dei ragazzini aveva il padre in carcere. Molti di questi ragazzi finivano arruolati nelle fila della ’ndrangheta o nei gruppi malavitosi dei catanesi. Alcuni di loro cominciavano con dei semplici furti. I marsigliesi erano già in declino e non avevano una grossa influenza. I più micidiali erano i calabresi: organizzavano sequestri di persona, estorsioni e gestivano il mercato delle armi. Ad esempio affittavano le pistole a bande minori.
Ci fù però sul finire degli anni ’60 una banda composta da giovani benestanti che organizzava rapine per senso di avventura. Anche la politica cercava di immischiarsi in questi ambienti. I gruppi che facevano parte dell’estrema sinistra come potere operaio o lotta continua cercavano di avvicinare gli emarginati per coinvolgerli nelle loro azioni di lotta alla Polizia.
I criminali erano in qualche modo riconoscibili?
In genere sì. Giravano con bei vestiti e belle scarpe. Amavano frequentare night. Senza contare le macchine vistose. Le auto che sceglievano per effettuare le rapine erano italiane: la Giulia, la 124, la 125.
Com’era la situazione nelle carceri?
C’è stata una vera trasformazione. In pochi anni sono cambiati i cognomi dei detenuti che prima erano tutti piemontesi. Il ricettatore, il ladro d’appartamenti, il truffatore erano comunque ancora piemontesi. Continuavano le loro attività in secondo piano. Le carceri diventano in ogni caso stracolme e col ’68 arrivano i politici coinvolti nelle lotte violente.
Ha accennato alla banda Cavallero. Un nome, a quanto pare, rimasto nella memoria.
Assolutamente sì. La banda Cavallero furoreggiava. Sono gli ultimi rappresentanti della mala piemontese anche se agivano con una violenza fino ad allora sconosciuta. Estranei alla malavita organizzata, agivano a briglia sciolta. Sono stati degli innovatori della rapina, passando da quella singola a quella multipla. Assaltavano anche tre banche una dopo l’altra. Così aumentavano la confusione nelle forze dell’ordine che non si aspettava facessero altri colpi immediatamente dopo la prima rapina.
Cavallero, il capo banda, era furbo e anche sfrontato. Aveva un lavoro di copertura come rappresentante di biancheria ed un ufficio proprio di fronte alla questura. Con tanto di segretaria. Si definiva comunista. Aveva fatto scalpore quando, una volta imprigionato e processato, aveva cantato Bandiera rossa mentre il giudice leggeva la sentenza. Con lui c’era Rivoletto, abilissimo a guidare la macchina ma, per altri aspetti sempliciotto. Una volta aveva rubato 400 coppie di scarpe. Tutte sinistre. Il terzo elemento era Notarnicola, un pugliese trapiantato a Torino che aveva conosciuto Cavallero. Fecero l’ultimo colpo a Milano nel 1968, una rapina con uno strascico di inseguimenti e sparatorie che lasciò una scia di morti e feriti. La banda Cavallero davvero non scherzava. Erano famosi in tutta Italia. A loro è ispirato il film “Banditi a Milano”.
A parte la banda Cavallero ricorda altri avvenimenti criminosi dell’epoca?
Ogni periodo aveva la sua Cogne. C’è stata l’uccisione della prostituta francese Martine Beauregard, il delitto passionale che ha visto coinvolti Paolo Pan e Franca Ballerini e, prima ancora, nel 1962, il delitto della valigia. Protagonista Lucia Montalbano, una siciliana che abitava a Chiasso che uccise il marito di ritorno dal carcere perché non scoprisse che lei lo tradiva. Lo uccise con la complicità dei familiari, fece a pezzi il corpo e lo mise in una valigia. Nel 1966 ci fu il caso di un uomo originario di Benevento che uccise la figlia perché si era innamorata di un ragazzo piemontese.
Giuseppe Goria è un esperto del linguaggio della mala (vedi riquadro). Ha curato un vocabolario della mala piemontese per la casa editrice Il Punto. Insegnante, ha svolto attività di docenza anche nelle carceri. Venendo a contatto con gli ultimi rappresentanti della mala piemontese.
Quali sono le caratteristiche peculiari del linguaggio della mala?
Il linguaggio della mala è peggiorativo, presenta le cose in maniera negativa. Troviamo tanti termini diversi per indicare ladro o prostituta.
Che tipo di malavitosi c’erano nelle carceri e che relazione avevano tra di loro?
Nelle carceri i protettori erano disprezzati, mentre gli assassini erano temuti. I ladri erano una via di mezzo. Anche perché la rapina non prevede mai la morte del derubato. L’omicidio casomai, è frutto della passione estrema, della gelosia. La droga, detta in piemontese l’a summia aveva un’incidenza minima tra coloro che finivano in carcere.
Stando alla sua esperienza ci sono ancora malavitosi piemontesi?
Ancora negli anni ’80 i piemontesi avevano il loro piccolo giro. Oggi rubano tappeti o oggetti di antiquariato. Hanno studiato e hanno una tendenza all’efficentismo. Mirano a fare soldi per poi aprire un’attività commerciale e ritirarsi.
E quelli della vecchia mala, li ha mai incontrati?
Quelli che sono ancora vivi della mala di un tempo sono oggi anziani pensionati. Alcuni vivono di assistenza. Avevano un loro codice d’onore. Quelli con cui ho parlato ad esempio condannavano con grande forza i giovani che lanciano sassi dal cavalcavia.
Una volta usciti dal carcere tendono ad andare nell’anonimato, a dimenticare e a far dimenticare il passato. Non è certo un vanto finire in carcere. Avere un membro della famiglia in carcere era considerato davvero disdicevole. Pochi lo raccontavano all’esterno.
C’è stato un incontro in carcere tra i suoi allievi che l’ha colpita?
Mi è capitato un detenuto che era stato killer con i marsigliesi; era educato e distinto e aveva dichiarato di avere solo la terza media. Come tutti quelli che studiavano in genere si comportava bene. Studiava per passare il tempo.
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La canzone della malavita
(canzone popolare elaborazione di Roberto Balocco)
Con l’anello di brillanti e l’orologio da taschino,
col cappello, col cappello e il bastone di canna,
quando passa, quando passa “la volante”,
faccio il bello, faccio il bello e il damerino.
La notte bighellono nei ristoranti
Con la combriccola dei “protettori”,
se poi capita il più piccolo affronto
c’è qui il coltello, il coltello è sempre pronto.
Il mio “bidone” è la mia gioia,
lei mi veste, lei mi veste e mi finanzia,
io la ingrasso, io la ingrasso a bastonate
io la rabbonisco, la rabbonisco con gli schiaffoni.
La notte bighellono nei ristoranti
Con la combriccola dei “protettori”,
se poi capita il più piccolo affronto
c’è qui il coltello, il coltello è sempre pronto.
E il più furbo, il più furbo dei “protettori”
Vuol allettare, vuol allettare la mia fortuna,
è una rendita, una rendita sicura,
la patente, la patente dell’autista.
La squadra mobile io la faccio correre,
gli agenti in borghese sono il mio terrore,
se poi capita il più piccolo affronto
c’è qui il coltello, il coltello è sempre pronto.
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La carriera di “Biondin”
brigante vercellese
Francesco Demichelis detto “Biondin” che ebbe larga e triste fama a cavallo fra l’800 e il ‘900, spargendo il terrore nel Basso Vercellese. Nato il 16 marzo 1871 a Villanova Monferrato da Maria Mangiotti di Stroppiana e da Giuseppe Demichelis di Rosignano Monferrato, crebbe in una normale famiglia di povera gente, la madre mondina e il padre fornaciaio e, dopo il servizio militare, trovò occupazione come carrettiere presso un trasportatore di Vercelli. Durante un viaggio di lavoro notturno venne fermato da un malintenzionato. Il Biondin per difendere il carico reagì uccidendo il malcapitato, poi invece di costituirsi, si diede alla macchia diventando un “camminante” e iniziando la sua vita grama di bandito che per sette anni lo portò a triste fama in tutto il vercellese.
Quando morì, la sera del 7 giugno 1905, presso la Cascina Campesio di Carisio, per un colpo al cuore sparatogli dal carabiniere Raffaele Soverini, trovarono nelle sue tasche solo 25,70 lire, sette anelli di poco valore, due orologi (uno di nichel e l’altro d’argento) e un cavaturaccioli. Il bottino delle sue rapine l’aveva sperperato tutto in donne o regalato in beneficenza per aiutare la povera gente. La cittadinanza vercellese, per riconoscenza verso il carabiniere Soverini, che era rimasto ferito nella circostanza, indisse tramite il giornale “La Sesia” una pubblica sottoscrizione che fruttò la magrissima cifra di Lire 336.
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Il gergo della mala
Abito, Tapa
Acqua, Slensa
Addormentato, Poleggia
Ambulante, Dritto
Bambino, Pivel
Banca, Baita dla pila
Bello, Tògo
Bere, Cirire
Bicicletta, Rolin-a
Camminare, Scarpiné
Carabiniere, Gian – Giovan
Carne, Sfilosa
Cavallo, Balarin
Cieco, Sutto
Coltello, Lingher
Denaro, Pila
Donna, Contrasto
Dormire, Poleggiare
Fame, Granda
Gallina, Caccagna
Giacca, Carmagnòla
Gioco, Spillo
Ladro, Rufidor
Litro, Scalfo
Mangiare, Smòrfire
Mano, Sera – Pantofla
Marito, Marco
Miseria, Leggera
Morto, Sbalato
Niente, Neca
Nonna, Grima
Notte, Brun-a
Oro, Polenta
Orologio, Bògo
Pane, Maròcco
Pistola, Cagafeu
Prete, Pisto
Rubare, Rufire
Signora, Vasca
Strada, Cora
Tasca, Berta
Vecchia, Grima
Vino, Scabio
Zoppo, Trabucco
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