La struttura familiare e “orizzontale”
dell’organizzazione criminale calabrese
la rende meno vulnerabile, consentendole
un più stretto controllo del territorio
e l’espansione di traffici e affari
in altre Regioni italiane, in Europa, Stati Uniti,
Canada, Australia, America Latina
La strage di Duisburg, il suicidio del pentito del caso Fortugno, Bruno Piccolo, le inchieste del pm di Catazaro Luigi De Magistris e, infine, il pentimento di Angela Donato, la prima donna a tradire la ’ndrangheta, hanno, anche se a intermittenza, riacceso i riflettori su quella che viene ormai considerata la più potente organizzazione criminale italiana, con radici in Calabria e diramazioni in tutta Europa e in buona parte del mondo. Una holding criminale con un giro d’affari illegali da 30 miliardi di euro l’anno, che diventano quasi il doppio se si considerano le attività legali.
La ’ndrangheta è stata a lungo la meno indagata, la più sottovalutata delle mafie italiane, anche se non meno pericolosa della camorra o di cosa nostra. A differenza delle altre organizzazioni criminali meridionali, è fortemente incentrata sulla famiglia di sangue, e ciò, da sempre, favorisce la segretezza e provoca pochissimi pentimenti. Un controllo del territorio ferreo, asfissiante, l’imposizione del pizzo a commercianti e imprenditori con una pervasività simile a quella di cosa nostra a Palermo e Catania, il controllo dei grandi lavori pubblici, come la Salerno-Reggio Calabria, “l’autostrada della ’ndrangheta”. Il recente rapporto annuale di Sos Impresa, l’associazione della Confesercenti che si occupa di racket e usura, a tal proposito, riporta una frase di Nicola Gratteri, pm della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che non lascia dubbi: “Qui né le imprese né la politica hanno la forza di imporsi, perché la ’ndrangheta ha un potere più asfissiante di cosa nostra. Controllano le loro zone come i cani quando fanno pipì e da lì non si passa”.
La Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Francesco Forgiane, calabrese di Rifondazione comunista, ha deciso di concentrarsi sulla ’ndrangheta, con l’obiettivo di arrivare alla prima relazione su questa potentissima organizzazione criminale. (Sempre che la legislatura non finisca prima.) Sarebbe un fatto storico. In passato, la Commissione ha fatto relazioni sulla Calabria, ma mai sull’organizzazione in quanto tale e, dunque, su tutte le sue ramificazioni anche fuori dalla regione originaria.
Per capire cos’è ’ndrangheta, quale evoluzione storica ha avuto, in cosa differisce dalle altre mafie italiane, abbiamo intervistato Enzo Ciconte, storico della ’Ndrangheta, docente presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi sull’organizzazione criminale calabrese, sulle altre mafie, sul traffico di esseri umani. E’ consulente della Commissione Antimafia.
Dottor Ciconte, don Masino Buscetta, storico pentito di mafia, raccontò al giudice Falcone che i boss di ’ndrangheta e camorra erano affiliati a Cosa Nostra, aggiungendo che non esistevano tre organizzazioni mafiose, ma una sola, quella siciliana. Tanto che quando c’era guerra in Sicilia, questa si propagava nelle altre regioni. Cos’è cambiato da allora?
Si dà per scontato che Buscetta dicesse il vero, invece non lo diceva o non sapeva. È vero, all’epoca c’era la pratica di affiliare a cosa nostra i boss delle altre organizzazioni criminali del sud. Ma era una pratica reciproca.
Il discorso di Buscetta può valere per la camorra, che allora era pulviscolare e viveva di contrabbando, dopo che all’inizio del Novecento era stata sbriciolata dal procuratore Cuoco. E ciò fino all’avvento di Cutolo…
Dopo il terremoto dell’80 e gli affari conseguenti.
Cutolo fonda la nuova camorra organizzata, federando i clan, e apre una polemica politica con coloro che non ci stanno, che definisce “asserviti ai siciliani”. Politica criminale, ovviamente. Il rapporto di cosa nostra con la ’ndrangheta, che ha un pedigree più solido della camorra, era invece paritario. E ci sono fatti che lo dimostrano.
Negli anni Cinquanta, il dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone, viene confinato a Gioiosa Marina dove, come racconta il collaboratore Giacomo Lauro, aveva “rapporti di affetto, amicizia e ‘rispetto’ con don Antonio Macrì”. Mico Tripodo, all’epoca capobastone di Reggio Calabria, è compare d’anello di Totò Riina: ciò non sarebbe stato possibile senza un rapporto paritario. In realtà, c’era la doppia affiliazione, una pratica che durante gli anni Novanta è andata diffondendosi fra mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi.
La pratica della doppia affiliazione ricorda la leggenda dei tre fratelli spagnoli che, nel Seicento, si stabilirono in Sicilia, Calabria e Campania dove avrebbero fondato le tre organizzazioni mafiose.
Osso, Mastrosso e Scarcagnosso: una leggenda che ha un suo fondamento. Non dimentichiamo che, dopo le stragi, il pentito siciliano Leonardo Messina venne in Commissione Antimafia e parlò di una “mafia mondiale”. E, a proposito delle stragi, ricordiamoci che, prima, Riina e gli altri boss convocarono i capibastone della ’ndrangheta chiedendo un sostegno che non ebbero.
Le organizzazioni di base sono uguali, mentre è diversa quella dei vertici; tutte hanno relazioni con la politica, la Chiesa, il padronato. I luoghi degli incontri, degli accordi, storicamente sono le carceri, le fiere e il Parlamento, ché i diversi referenti politici delle mafie si conoscono, si parlano.
Oggi è ancora così?
Il rapporto è cambiato, oggi la ’ndrangheta è più forte: cosa nostra ha subito la forte repressione dello Stato successiva alle stragi, è stata scompaginata da tantissimi collaboratori di giustizia; la ’ndrangheta, invece, è stata meno investigata, la sua struttura familiare la rende meno vulnerabile, rende più difficile il pentitismo e, sotto l’aspetto criminale, la fa essere più affidabile di cosa nostra.
In cosa consiste l’“orizzontalità” della ’ndrangheta? Come funziona un’organizzazione criminale non verticistica?
Nel ’91, con la “pace di Reggio Calabria”, che chiude la sanguinosa guerra degli anni precedenti, si crea una federazione tra le famiglie della Piana, della Locride e di Reggio i cui rappresentanti si riuniscono per decidere la spartizione degli affari e, quando questi riguardano l’intera regione, partecipano anche i rappresentanti delle famiglie delle altre province.
A differenza di cosa nostra, dove la Cupola decideva tutto, qui ci si riunisce solo per gli interessi comuni e i grandi affari. La pace di Reggio, fra l’altro, sancisce la chiusura di tutte le faide. Per i figli di Giuseppe Grimaldi la pace è dura da digerire, il padre era stato ucciso, decapitato e la testa presa a fucilate e fatta rotolare in strada. I Grimaldi preferiscono emigrare a Genova e, dopo qualche anno, si pentono e mandano in galera i propri nemici.
La strage di Duisburg farebbe pensare alla fine della pace. O una strage all’estero – con quell’impatto mediatico – è ammissibile?
Duisburg non è poi così lontana, “confina” con S. Luca. È a nordest di S. Luca. No, la pace non è finita. Però è vero che la Locride è il punto di maggiore sofferenza, dimostra l’incapacità della famiglia di S. Luca di governare il territorio, ed è un problema per tutta la ’ndrangheta.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a due fatti clamorosi che riguardano la Locride: l’omicidio di Francesco Fortugno e la strage di Duisburg. In entrambi i casi, una scelta diversa avrebbe dato significato diverso ai delitti: la strage di Duisburg non è frutto di necessità, potevano ucciderli uno alla volta, in momenti diversi; Fortugno, invece, se l’avessero ucciso un giorno prima o un giorno dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. Assassinarlo il giorno delle primarie dell’Unione è una scelta politica. L’omicidio non è stato deciso a Locri, ma dalla cupola, saldando gli interessi della ’ndrangheta con quelli di ambienti della sanità, pubblica e privata, ma anche con ambienti e legami storici della “Santa”.
Cos’è la Santa?
A metà degli anni Settanta la ’ndrangheta decise il suo ingresso nella massoneria. O meglio, lo decise in modo organizzato poiché pare che alcuni capibastone fossero già massoni. La decisione si accompagnò a una modificazione nella struttura di comando delle varie ’ndrine, utilizzata per creare una nuova denominazione, nuovi capi, nuove gerarchie: chi raggiungeva il grado di dantista era autorizzato a entrare nelle leggi massoniche.
La ’ndrangheta, che prima era subalterna alla massoneria, decise di affrancarsi e di entrare in contatto diretto col mondo delle professioni e con gli interessi che erano direttamente rappresentati dalle logge. Per tre motivi: gli affari economici, la rappresentanza politica diretta, il rapporto coi magistrati.
Ovviamente, parliamo di logge massoniche riservate, coperte, non quelle ufficiali. Logge come la P2 di Licio Gelli.
Un vero e proprio cambio di pelle, insomma; un cambio di ragione sociale che porta l’organizzazione ad avere rapporti diretti con la politica. E, storicamente, la ’ndrangheta ha una “colorazione” diversa da cosa nostra.
La ’ndrangheta è sempre stata vicina alla destra, specie alla destra eversiva. Basti pensare ai moti di Reggio, alla partecipazione al golpe Borghese, alla protezione di Franco Freda, fuggito dopo il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana; ma anche al coinvolgimento nel caso Moro o ai rapporti con la banda della Magliana.
Nella Locride, dove la povertà era maggiore e forte il senso di abbandono da parte dello Stato, c’era una vicinanza al Pci, che però finì durante secondo dopoguerra. Da allora, i referenti politici della ’ndrangheta sono stati nella Dc e nel Psi e, dopo, in Forza Italia.
Facciamo un passo indietro. Che vuol dire che Duisburg confina con S. Luca?
Semplice, vuol dire che dagli anni Sessanta in poi, oltre alla normale emigrazione, la ’ndrangheta ha spostato pezzi di cosche dalla Calabria alle città italiane e all’estero. E ormai le più importanti famiglie hanno due sedi.
Come Cutro e “Cutro due”, cioè Reggio Emilia?
Esatto. Ma ciò accade in tante altre città, in Italia e all’estero. In tal senso Duisburg confina con S. Luca.
Si spiega così il fatto che i due soli Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, fuori dalle cosiddette aree tradizionali – Bardonecchia, in Piemonte, nel ’95; Nettuno, nel basso Lazio, nel 2005 – è coinvolta la ’ndrangheta?
È la riprova della capacità di infiltrazione e di condizionamento dell’organizzazione.
E le sue proiezioni internazionali? Oggi la ’ndrangheta viene riconosciuta come l’organizzazione leader in Europa nel traffico di cocaina. In quali nazioni è radicata?
La ’ndrangheta è presente in tutti i Paesi europei. Ma anche in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina.
E con le altre mafie, con quelle non italiane, che tipo di rapporti intrattiene?
Solo rapporti finalizzati al traffico di droga. Niente che possa lontanamente somigliare a quello con cosa nostra di cui si parlava prima.
Nel ’93 un rapporto della Dia sosteneva che il 27 per cento della popolazione calabrese sarebbe in qualche modo coinvolta con la ’ndrangheta. Una percentuale abnorme, più di un quarto della popolazione. E poi c’è il fatto che la Calabria, per la sua conformazione, è fatta di Comuni piccoli e piccolissimi, molti dei quali sotto i mille abitanti. Ciò facilita la capacità di condizionamento?
Che significa “coinvolta”? E poi, come si fa a quantizzare? A me sembra una percentuale spropositata. Però, al di là delle dispute numeriche, c’è l’altro aspetto che è fondamentale: la più grande città calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè quanto un quartiere di Palermo. Nei piccoli centri, cioè nella maggior parte dei Comuni calabresi, basta una decina di mafiosi per esercitare un controllo fisico, visivo delle persone, per condizionargli la vita.
Come succedeva a Calanna, mille abitanti, dove il boss locale, Giuseppe Greco, imponeva una sorta di jus primae noctis, prendendosi tutte le donne che gli piacevano. Greco, in una telefonata intercettata, si vantava anche di potere controllare come votava ogni cittadino, di potere “mettere le mani nelle urne”. Avviene così in ogni Comune?
Be’, il controllo del voto non è una sua prerogativa e nemmeno della sola ’ndrangheta. Con la preferenza multipla lo facevano anche i partiti. Ma anche con la singola preferenza lo si può fare, trovando altri tipi di combinazioni: Mario Rossi, dottor Mario Rossi, Rossi dottor Mario e così via. E poi c’è la “scheda matta”. Ci si impossessa di una scheda elettorale, si esprime il voto di preferenza, la si dà all’elettore, che la deposita nell’urna e riporta la scheda cianca che gli è stata consegnata nel seggio, in modo che il mafioso possa votarla e consegnarla a un altro elettore…
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Una geografia particolare
Dei circa 150 Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose dal 1991 in poi, il 95% per cento si trova in Campania, Sicilia e Calabria.
Circa un quinto di questi, 31, sono in Calabria, una regione particolare fra quelle del Sud condizionate dalle mafie, per via della polverizzazione dei suoi Comuni dovuta alla conformazione del territorio: una stretta striscia di terra sormontata dagli Appenini. E in montagna non ci sono grandi città, ma piccoli e piccolissimi paesi.
La Calabria conta due milioni di abitanti, suddivisi in 409 Comuni mentre, ad esempio, in Sicilia vivono cinque milioni di persone distribuite in 390 Comuni.
Se si dà un’occhiata alla lista dei Comuni i cui Consigli sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose, ordinata per numero di abitanti, ci si accorge che solo uno, Lamezia Terme (sciolto due volte), con i suoi 70mila abitanti, che ne fanno la quinta città calabrese, si trova nelle parti alte, al quinto posto.Per trovare un’altra città calabrese, bisogna scendere fino al 51°, dove si trova Gioia Tauro, 18mila abitanti; poi Taurianova, 15.800 abitanti, al 55°, e Rosarno, 15mila abitanti, al 56°. Continuando a scorrere la lista, si arriva al 68° posto di Melito Porto Salvo (10.500 abitanti).
Gli altri 26 Comuni sono tutti sotto i 10mila abitanti, 22 dei quali hanno meno di 5000 abitanti e, di questi, 8 ne contano meno di 2000.
NELLA FOTO: Enzo Ciconte, consulente della Commissione Antimafia
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