Trentaquattro anni ancora da compiere. Otto passati in Italia svolgendo un mestiere che oggi la riporta in patria, forte di una professionalità acquisita nel nostro Paese. Torna a Bucarest per lavorare in un centro d’accoglienza nato da un progetto partenariato Italia-Romania. Si chiama Nicoleta Mioara Ciobotaru, è operatrice sociale nonché mediatrice interculturale. Due occhi verdi che raccontano più di quanto le parole non dicano, e uno sguardo forte proiettato verso il futuro. Attiva da anni nella scolarizzazione dei bambini rom, si presta all’intervista nel tentativo di “affermare l’illogicità delle generalizzazioni”.
Agli italiani che dicono che rom e romeni sono lo stesso, che diresti?
La tv parla di malavita, di estorsioni, furti, violenze e raggiri. Voi per caso vi sentite simili a chi, pur italiano, si macchia di tali reati? E con questo, ci tengo a precisare, che non tutti i rom come non tutti gli italiani vivono nell’illegalità, ma che la parte di loro che compie gesti illegittimi non deve assurgere a totalità della popolazione. Quel che è certo è che mi resta difficile fare una separazione tra rom romeni e cittadinanza romena, ma non per una confusione concettuale, come avviene in Italia, quanto piuttosto perché in Romania siamo cresciuti come persone che hanno condiviso la stessa terra. Quindi inviterei i media a non incentivare il razzismo: se una persona, di qualsiasi nazionalità compie un reato è giusto che venga punita, al di là della propria appartenenza.
Quando sei arrivata in Italia come hai trovato la situazione dei rom?
Sapevo che c’erano diversi rom romeni in Italia perché sono stati tra i primi ad allontanarsi al momento della caduta di Ceausescu. L’hanno fatto presumibilmente per la loro cultura, visto che rom vuol dire anche persona camminante, un individuo che si sposta con forse minor paura di affrontare un contesto sconosciuto.
Quel che più mi ha colpita è stata la miseria in cui vivevano. Come operatrice ero molto contenta perché, attraverso lo studio, i più giovani potevano uscire dalla miseria. Per me questo è il senso dell’istruzione.
Sotto Ceausescu, qual’era la condizione dei rom?
Da piccola ho visto due tipi di gruppi rom: uno che si spostava con le carovane e, l’altro, sedentario, che viveva nelle case. Rispetto alla prima parte, ricordo che si muovevano per cercare nuovi posti in cui recuperare un po’ di cibo, magari raccattando bottiglie di vetro o abiti usati che rivendevano in strada o nei mercatini. Degli altri, ho un ricordo più vivido, visto che anche nel mio palazzo c’era una famiglia rom: io giocavo e studiavo con loro, mangiavo coi ragazzini rom. Non c’era nessuna distinzione: eravamo tutti romeni. Come noi potevano studiare sino all’Università, ma almeno la scuola dell’obbligo la dovevano frequentare.
Oggi qual è la loro condizione in Romania?
Come ogni altro romeno vivono chi in condizione di agio e chi di povertà e, come è ovvio, chi vive nel disagio è spinto a cercare altrove migliori condizioni di vita. Scelgono l’Italia perché attraverso la televisione arriva un’immagine di Paese democratico. Immaginavamo l’Europa come luogo di ricchezza, associavamo l’ovest al benessere, ma arrivando qui ci siamo resi conto che gli italiani lavorano duro per ottenere ciò che hanno, così anche noi ci dovevamo impegnare.
A influire sulla migrazione, anche il fatto che, all’indomani della caduta di Ceausescu, molti italiani hanno cominciato a venire in viaggio in Romania con auto di lusso e denaro da spendere: allora abbiamo cominciato a pensare che se potevano permettersi tutto ciò voleva dire che in Italia si stava bene.
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