Una mostra al Pan di Napoli
(dal 5 luglio al 23 ottobre) ha raccontato
l’ossessiva ricerca della perfezione
nella società contemporanea. Svelando
che sotto la superficie di una cultura
incentrata sulla bellezza si annidano
angosce e disperazione
Sfidare la natura e il decadimento fisico, sconfiggere la morte, trovare l’elisir della giovinezza sono gli imperativi faustiani di una società che ha riposto tutte le sue aspirazioni e i suoi valori nel credo dell’apparenza, nella religione del corpo perfetto, simulacro di felicità e di successo. Ne sono prova le donne meravigliose che occhieggiano dai cartelloni pubblicitari, che popolano le riviste patinate e che sorridono dalle file dei concorsi di bellezza. Donne incredibilmente magre, giovani, dall’acconciatura impeccabile. Nel tentativo di emulare il loro corpo perfetto si è disposti anche a soluzioni radicali. Ma dove conduce la ricerca della bellezza a tutti i costi?
Questo è l’interrogativo su cui è stata concepita la mostra collettiva “Dangerous beauty – bellezza pericolosa”, al Pan (Palazzo delle Arti di Napoli) fino al 23 ottobre, realizzata prima al Jewish Community Center, e in seguito al Chelsey Art Museum di New York, a cura di Manon Slome. La mostra si propone di analizzare gli effetti prodotti dal vivere costantemente sottoposti al bagliore di immagini che ritraggono una bellezza che, senza manipolazioni, non potrebbe avere un’incarnazione umana. Immagini create per suscitare un immediato senso di inadeguatezza, su cui fanno leva aziende cosmetiche e case di moda al fine di stimolare i consumi, promettendo rimedi miracolosi alle nostre deprecabili imperfezioni. Da una recente indagine è emerso che negli Stati Uniti si spendono più soldi in cosmetici che in istruzione e servizi sociali, mentre solo nello scorso anno sono stati effettuati più di due milioni di interventi di chirurgia plastica. La situazione italiana non è più rassicurante: circa due milioni di ragazze tra i 15 e i 25 anni soffrono di disturbi alimentari, in significativo aumento anche fra gli uomini.
Le opere in mostra si propongono di mettere in discussione la nozione di bellezza nella società occidentale contemporanea, dando voce all’ansia e alla disperazione che si annidano nel culto della perfezione, analizzandone il legame con la violenza e la manipolazione del sé, con la fobia di invecchiare e il perenne senso di inadeguatezza che suscita in noi. Dipinti, sculture, videoistallazioni, fotografie che raccontano la malattia del nostro tempo, la bellezza a tutti costi, di cui non sono immuni neanche gli stessi artisti, che spesso narrano in prima persona il proprio disagio. Opere d’arte estremamente eterogenee che affondano il bisturi nel corpo malato della nostra società, sviscerandone ansie, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, manie, comportamenti borderline. Disseminati in stanze dalle pareti bianche, spoglie e asettiche come sale operatorie, anche gli oggetti più glamour diventano grotteschi e inquietanti. Come le 10.000 unghie finte con le quali D. Dooling ha ricoperto una camicia di forza in Camisole (da notare la disgiunzione linguistica tra titolo dell’opera e oggetto), simbolo delle restrizioni vincolanti imposte alle donne che si conformano al mito della bellezza, chiudendole rigidamente entro i confini della convenzione; l’opera, inoltre, allude al trattamento dell’isteria femminile, fondato in realtà sulla necessità di frenare le aspirazioni e la sessualità femminile, di sedare gli impulsi trasformandoli in uno stato di infermità.
Negli scatti di Margi Geerlinks, invece, viene immortalata la triste illusione di chi, pur consapevole della falsità dell’industria cosmetica, che promette fantasmagoriche possibilità di autotrasformazione, continua a sperare che queste false speranze diventino realtà. Ai personaggi che tentano di rimanere giovani affidandosi ai miracoli della cosmesi fanno eco quelli raccontati da Erwin Olaf che, irrimediabilmente invecchiati, indossano mise audaci nel tentativo di rispolverare i vecchi fasti. In Rain, l’artista olandese porta alle estreme conseguenze il feticismo relativo a una o più parti del corpo, mostrando due esemplari di donna sottoposti alla ridefinizione totale mediante la chirurgia estetica: una lastra sottopelle stira la fronte, mentre due luccicanti ganci metallici sorreggono labbra, zigomi e palpebre, evidentemente sostituiti da protesi. Anche Beth B esplora l’ossessione della modificazione del sé, montando delle protesi di silicone su un corpo esposto dietro una vetrinetta illuminata. Alcuni artisti sperimentano su loro stessi l’esperienza del tavolo operatorio: Nicola Costantino offre il proprio corpo al pubblico consumo, suscitando nello spettatore un iniziale senso di disagio, se non di vero e proprio disgusto. Il suo corpo, infatti, viene presentato sotto forma di un lussuoso sapone da bagno costituito per il 3% proprio da “essenza di Nicola” - grasso estratto dalle sue cosce mediante una liposuzione -, con tanto di ammiccante spot pubblicitario, nel quale l’artista sussurra: prends ton bain avec moi. Anche Orlan, artista trasformista che fin dagli anni Sessanta studia gli effetti devastanti prodotti dall’adesione agli standard imposti dalla società, si sottopone deliberatamente a interventi di chirurgia facciale al fine di documentare, con spietata precisione, i postumi dell’intervento: da una maschera di ematomi e tumefazioni fino alla scomparsa dei segni dopo 40 giorni.
Altri artisti concentrano il loro sguardo impietoso sul feticismo degli oggetti, ritraendo scarpe dai tacchi vertiginosi e gioielli che emanano una luce accecante; altri ancora riflettono sulla contaminazione dell’umano con il cyborg, rappresentando una bellezza ibrida, virtuale, scomposta e rimontata, transessuale e trans-razziale. E infine, la galleria degli orrori della magrezza ad ogni costo: autentiche protagoniste della scena le anoressiche, fotografate dall’obiettivo di Lauren Greenfield, che ha documentato sei mesi di storie, diete e rituali ossessivi delle ragazze in cura nel Renhew Center. Le gemelle L. A. Raeven attuano una vera e propria teatralizzazione della malattia e del rituale dell’astinenza assoluta dal cibo, che si amplificano nella personificazione del doppio. Nella ripetizione ossessiva di un gesto si coglie il dramma di una schiavitù alla quale è difficile sottrarsi: il controllo della fame, sedata dall’assunzione di enormi quantità d’acqua, documentata dalle videoistallazioni di Joshua Neustein. Davis&Davis, invece, propongono un ritratto dissacrante di una famiglia giocattolo, in cui Mon, Dad, Sis e Baby si avvicendano in un lezioso bagno rosa per vomitare.
Incubo, croce e delizia della vita di una anoressica, la bilancia viene assunta da Jacob Dahlgren come oggetto d’arte: un immenso tappeto, minaccioso e attraente, fatto di bilance rosse, bianche e blu, che invita lo spettatore ad attraversarlo, costringendolo a mostrare in pubblico il suo peso e scoprendo, con gran sollievo, che ogni bilancia è stata in realtà alterata.
Sulla scia del controverso divieto di sfilare imposto alle modelle sottopeso in occasione della settimana della moda di Madrid, e delle recenti (e tanto pubblicizzate) morti di alcune modelle per anoressia, l’industria della moda e i mezzi di comunicazione sono entrati in un frenetico quanto effimero momento di autoriflessione, interrogandosi sui limiti della magrezza. Forse non basta immortalare il corpo nudo di una ragazza anoressica per pubblicizzare una casa di moda che di quei corpi si serve per vendere i suoi vestiti. Un cambiamento sembra ancora improbabile, poiché in un contesto in cui la magrezza equivale al successo, la spinta a perdere peso è enorme. Quella bellezza che per Dostoevskij avrebbe salvato il mondo, oggi lo logora come una metastasi inarrestabile.
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