Il provvedimento del prefetto di Treviso
divide il governo e la comunità musulmana.
Offesa alla dignità della donna o libera professione di fede?
Violazione della legge o tutela del segno di una cultura?
La polemica sul burqa non sembra trovare una soluzione.
Torna a rimbalzare tra le pagine dei giornali la polemica sul burqa, sollevata dalla recente decisione del prefetto di Treviso, Vittorio Capocelli, di permettere l’uso del velo integrale «per motivi religiosi», purché la persona si lasci identificare. Il provvedimento, che si fonda su una circolare del Dipartimento della Pubblica sicurezza del 2004 che ne legittima l’uso in quanto «segno esteriore di una tipica fede religiosa» e «pratica devozionale», ha scatenato una vera e propria bufera nella città dove tre anni prima l’ex sindaco leghista Giancarlo Gentilini aveva ordinato ai vigili di arrestare le donne con il burqa. La legge n. 152 del 1975, infatti, vieta di fare uso nei luoghi pubblici, salvo motivi giustificati, di caschi o altri indumenti che impediscano il riconoscimento della persona. A ribadire la posizione del suo predecessore è l’attuale sindaco di Treviso, Gian Paolo Gobbo, che definisce il burqa un «travestimento» sotto il quale potrebbe nascondersi un criminale o un kamikaze; e che ricorda come il velo sia un simbolo di schiavitù.
Immediata la reazione da parte del mondo politico. I leghisti Calderoli e Borghezio hanno chiesto la rimozione della figura del prefetto, definita un’ «istituzione inutile», mentre la Cdl si appella ad Amato per ripristinare la legalità. Il ministro dell’Interno non ha tardato a far sapere che considera l’uso del burqa inaccettabile, definendolo «un’offesa alla dignità della donna islamica», e che verificherà l’esistenza della circolare del 2004 sui cui si fonda il provvedimento di Capocelli.
Diviso, invece, il centrosinistra. Rosy Bindi ha dichiarato di essere d’accordo con la decisione del prefetto di Treviso, se indossare il burqa è una libera scelta fatta da una donna che crede nella sua religione; e afferma che come viene accettato il crocifisso nelle scuole, così dovrebbe essere rispettata la volontà di indossare il velo. Anche il ministro Ferrero si schiera dalla parte di Capocelli, definendo il suo provvedimento intelligente e frutto del buonsenso. Il ministro Barbara Pollastrini, invece, si dichiara «sconcertata e indignata» da questa decisione, perché la copertura integrale del volto della donna è una lesione alla sua dignità. Dello stesso parere anche il presidente del Consiglio Prodi, che ribadisce l’incompatibilità del provvedimento di Capocelli con la legge italiana, che vieta di indossare qualsiasi capo che impedisca l’identificazione della persona. Il sindaco di Roma e nuovo segretario del Pd, Walter Veltroni, schiva la polemica, ma dichiara di non condividere la linea seguita dal prefetto.
Dal centrodestra si alza invece un no secco e senza mezze misure. Da più parti viene sottolineata l’illegalità del provvedimento e c’è chi, come Margherita Boniver di Fi, afferma provocatoriamente che di questo passo sarà legalizzata anche la cintura di castità.
Anche la comunità islamica è divisa. L’imam di Verona Mohamend Abdessalem Guerfi, pur difendendo la legislazione italiana, ricorda che nel quotidiano non esiste una legge che vieti di coprirsi il volto. Diversa l’opinione di Mario Scialoja, consigliere della Lega musulmana in Italia, e di Souad Sbai, presidente dell’Associazione delle donne marocchine, che giudicano la misura di Capocelli inopportuna, in quanto il burqa non è un obbligo religioso, ma solo un’usanza di alcune popolazioni islamiche.
Il cortocircuito normativo certo non aiuta a risolvere l’annosa questione; alcuni sostengono che per porre fine a questo conflitto basterebbe abrogare la circolare del 2004. Altri accusano il prefetto di aver travalicato, in quanto funzionario amministrativo, le sue competenze e di aver invaso il campo della magistratura e della politica.
In questo polverone di interventi e dichiarazioni sarebbe opportuno dissipare il velo di ipocrisie che nasconde una ben più complessa questione, che non può essere solo politica, ma anche sociale. Sarebbe opportuno interrogarsi sul significato di questo indumento all’interno della società, la nostra e quella musulmana; spesso, invece, prevale una vuota schermaglia politica, che strumentalizza il burqa per criticare (e a volte offendere) la cultura al quale appartiene o per strizzarle l’occhio, in nome del politically correct. Occorrerebbe forse riflettere sul senso di una scelta, sui condizionamenti della società e sulla pressione esercitata dalla propria cultura. Problemi che non riguardano solo il mondo islamico, ma anche il nostro.
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