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Ottobre/2007 - La 'nera' al microscopio
Cronaca del delitto
Quella puntura di curaro
di Ettore Gerardi

1963: Ombretta Galeffi, 38 anni, tre figli,muore
per una iniezione letale di sincurarina. Il marito
Carlo Nigrisoli accusato e condannato
per uxoricidio. E se si fosse trattato di suicidio?


Quattordici marzo 1963: Ombretta Galeffi, moglie del medico Carlo Nigrisoli, muore a Bologna nell’appartamento situato in un’ala della clinica privata “Nigrisoli”.
Ombretta, 38 anni, madre di tre figli - Guido, Raffaele e Anna - secondo i primi accertamenti medico-legali, sarebbe morta per una iniezione di curaro.
Secondo l’accusa, il colpevole è il dottor Carlo Nigrisoli: si sarebbe così liberato della moglie, probabilmente per poter stare liberamente con l’amante Iris Azzali.
Tre giorni prima della tragedia Carlo e Ombretta Nigrisoli andarono insieme a farsi visitare da uno psichiatra. I motivi non sono chiari.
Vediamo, allora, di tracciare una sorta di radiografia dei due coniugi.
Ombretta è una donna mite, rassegnata, delusa, madre di tre figli e in quell’età che sente con una certa apprensione gli imminenti quarant’anni.
Carlo Nigrisoli, a dire il vero, è un medico fallito: nella clinica del papà è incaricato semplicemente dell’amministrazione; gli pesa tremendamente la tradizione familiare che lo ha costretto - insieme al fratello - a seguire una carriera, quella medica appunto, a lui del tutto non congeniale.
Gli piace la vita sportiva e brillante: partecipa ai rallies automobilistici, passa alla motonautica e infine si concede una amante.
Papà Nigrisoli, l’insigne professor Pietro, si compiace di rappresentare la classe medica bolognese di indubbio valore. Non per caso è nipote di Bartolo Nigrisoli, una figura alla Murri. La sua clinica, per quanto rinomata però, non rappresenta l’eccellenza.
Non stima suo figlio Carlo e dimostra solo condiscendenza per la nuora Ombretta (sarà lui, con gesto degno della storia, a consegnare il figlio alla giustizia dopo il fattaccio).
Ma torniamo ad Ombretta e Carlo. Da tempo c’è tensione fra i due. Forse lei è a conoscenza della relazione del marito con “l’altra”; riceve rimproveri dal marito perché non vuole seguirla nella vita brillante che l’uomo conduce. Resta fermo il fatto che l’amore di tredici anni prima si è trasformato, in lui, nella disistima e, forse, nell’odio.
Lei è profondamente infelice ma il suo naturale riserbo non le impedice di confidare ai parenti ed amici che “qualcosa non va”; nel pomeriggio che precede la tragedia, congedandosi dopo una visita ad una amica, le dice che forse non si sarebbero riviste più. Presagio di una tragedia o volontà di togliersi la vita?
Tarda serata del 13 marzo 1963: Ombretta entra in coma. Il marito la prende in braccio e la porta, ancora viva, nell’ambulatorio della clinica, a pochi metri giacché - come detto - i Nigrisoli abitano in un’ala della casa di cura.
Ombretta muore senza poter parlare. Sul suo comodino vicino al letto della sua camera, una siringa ed un flaconcino di sincurarina vuoto. I medici curanti della clinica (prima quello di guardia e successivamente un altro) si rifiutano di stilare l’atto di morte “per cause naturali”. Papà Nigrisoli cerca sul corpo della nuora ma non trova traccia di punture. Poi, non si comprende perché, inveisce contro il figlio Carlo; telefona ad un avvocato amico di famiglia. Quest’ultimo avverte il magistrato.
Carlo Nigrisoli viene arrestato. Il perito settore esegue l’autopsia e invia i reperti all’Istituto di Firenze: se è curaro, c’è una probabilità su cento che possa essere rinvenuto.
Se questi sono i fatti sicuri, tuttavia se ne possono esaminare altri due come probabili: Ombretta soffriva fisicamente di qualche malattia o di un grave esaurimento nervoso; il marito le praticava una cura ricostituente a base di calcio per via intramuscolare. La prima ipotesi è avvalorata da questi fatti: esiste un elettrocardiogramma di Ombretta e lei (insieme con il marito) ha visitato uno psichiatra; infine, una ventina di giorni prima della sua morte, ha accusato forti dolori.
Con questi elementi si può azzardare a ricostruire la storia di una morte (assassinio?).
Carlo Nigrisoli è sui quarant’anni, un tipo sportivo a cui piace immensamente la mondanità e un po’ meno il lavoro. Odia la medicina perché come detto rappresenta la sua “obbedienza” al volere familiare.
Ha sposato una piccola borghese, sorella di un compagno d’università; ricorda il matrimonio come l’unico atto di volontà della sua vita. I genitori infatti auspicavano che questo figliolo sposasse una donna “più su”, come aveva fatto il fratello di Carlo. Però, quell’atto di ribellione ai voleri della famiglia si trasforma in un totale fallimento, uno dei tanti della sua esistenza. Nascono tre figli ma cosa possono contare per un cervello che si rode continuamente? Di qui l’incompatibilità, l’irritazione profonda.
Si fa un’amante; poi un’altra, infine la terza che è quella giusta e che lo fa innamorare follemente. La moglie sembra percepire che qualcosa non va e decide per camere separate. Carlo, però, non si accontenta e nella sua mente si fa strada un’altra possibilità. La casa di cura è un luogo particolare, dove si può anche morire (o uccidere, come nel suo caso) senza particolare trambusto. Tanta gente muore in ospedale. E poi ci sono i medici che sono suoi amici, dipendenti e pagati da Nigrisoli.
Nella farmacia della casa di cura ci sono tante boccette interessanti. Il curaro, ad esempio; che non lascia traccia nei tessuti, provoca un rilassamento dei muscoli e fa morire per soffocamento dovuto a mancanza di ossigeno. L’avvelenamento da curaro non può neanche gridare perché le corde vocali non vibrano. Ecco, Carlo Nigrisoli sceglie il curaro. Bisogna iniettarlo e dunque convince la moglie a farsi fare una puntura che le farà bene. Ombretta non è persona molto colta ma se leggesse sul flacone “sincurarina” direbbe di no. Bisogna perciò architettare un piano preciso.
Data la situazione matrimoniale per Carlo è facile suggerirle di farsi visitare. E ci vanno insieme.
La prima cosa consigliata è una cura ricostituente, iniezioni, appunto. Sarà facile, al momento opportuno, arrivare dalla moglie con la siringa già pronta. Poi Carlo sarà finalmente libero di andare con “l’altra” che aspetta. Carlo pensa: i medici della clinica sono amici e dipendenti, rimarranno addolorati per la morte della signora. Ma come è successo, di cosa soffriva? Mah, risponderà lui, l’ho sentita rantolare e sono accorso ma non c’era più niente da fare. Un collasso cardiaco? Sì, lei soffriva di cuore, l’ho fatta anche visitare. I medici della clinica stileranno il certificato di morte e tanti saluti.
Questa una prima ipotesi. Ma se ne può fare un’altra, quella del suicidio.
Ombretta, ragazza di provincia, entra in una famiglia molto abbiente. Lei non ha pretese, tanto meno ambizioni se non quella di una vita onesta e dignitosa. E’ accolta dai suoceri piuttosto freddamente anche se, con il tempo, si è fatta benvolere e stimare anche per il dono dei tre nipotini. Eppure è proprio il marito a darle la prima delusione. Non è il Nigrisoli che immaginava, ma solo un mediocre. Il gelo scende a poco a poco fra loro.
Era una bella e fiorente ragazza; ora è una mamma vicina alla maturità. Ha capito che il marito ha un’amante e questo la rende confusa, esaurita; avverte disturbi di cuore ma il marito non le offre un aiuto se non quello, un po’ cinico, nascosto nella frase: “Fatti visitare...”
E lei finisce per accettare questo suggerimento e andrà a farsi visitare, insieme con il marito, pochi giorni prima della tragedia. Tornata a casa, si fa strada in lei un pensiero: farla finita, nonostante i tre figli. La sera fatale attende che tutti riposino; ha già fatto visita alla farmacia della clinica ed ha preso un flaconcino di sincurarina.
Sul flacone ha notato il teschio con la dicitura “veleno”. Si farà una iniezione su una gamba (ecco perché, ad un primo esame, il suocero non ha trovato tracce di puntura). Poi lascerà sul comodino la siringa e il flaconcino vuoto.
Carlo sente ad un certo punto, dalla sua stanza, la moglie che rantola, va da lei e la trova stravolta, incapace di parlare. Rapidamente la crisi precipita; Ombretta si fa cianotica, Carlo la solleva e la porta nell’ambulatorio alla fine del corridoio. Non si rende nemmeno conto che a quel punto tutto è contro di lui. Se ha guardato e poi toccato il flacone e la siringa per rendersi conto di quanto è accaduto, le sue impronte saranno rimaste.
Infatti alle prime domande lui è confuso, non sa che rispondere. C’è confusione intorno al letto dove ormai giace cadavere Ombretta. E poi il padre che lo investe: “L’hai uccisa!”, ma lui la intende in un altro senso: “sei tu che con il tuo comportamento l’hai portata al suicidio”. Si rende conto che forse è vero. Si agita e urla. Lo chiudono in una stanza. Poi arrivano i Carabinieri, il magistrato e lui si sente inebetito.
Ecco, queste le due possibili alternative per la morte di Ombretta. Tuttavia occorre fare una considerazione.
D’accordo, il “delitto perfetto” non esiste (così dicono...), ma come poter accettare, nella ipotesi dell’uxoricidio, che un padre di tre figli, dopo aver superato ogni orrore della premeditazione con freddezza e con cinico calcolo, finisca poi per compiere sbagli di una ingenuità infantile? Perché un marito che uccide la madre dei suoi figli con il proposito di assistere impavido alla spaventosa agonia (che lui, medico, conosce) non può essere il tipo da dimenticarsi siringa e flacone, con scritto curaro, sul comodino; non può essere il tipo che fa accorrere i colleghi perché si avvedano in tempo dei palesi effetti di un veneficio in atto.


NELLA FOTO: I CONIUGI NIGRISOLI IL GIORNO DEL LORO MATRIMONIO

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