Sandro Curzi, giornalista, consigliere Rai,
tra gli innovatori del servizio pubblico
negli anni ’70 e ’80, traccia un quadro a tutto
campo del settore televisivo: per cambiare
occorre lavorare a lungo e in profondità
Sandro Curzi, è la televisione che “fa male” alla società, e ne modella gli aspetti e i comportamenti, oppure la televisione si limita a riprodurre quello che la società, nella sua larga maggioranza, è di fatto?
Per la televisione vale solo sino ad un certo punto il principio che bisogna tenere presente per altre splendide invenzioni dell’uomo quali l’automobile, il telefonino o Internet: che sono mezzi per definizione neutri e non responsabili dell’abuso che spesso se ne fa e delle sue conseguenze in termini degenerativi della vita individuale e collettiva. La televisione non è neutra, perché contiene e veicola contenuti, valori, modelli di comportamento, cultura ecc. Detto questo, v’è da dire che sino a un paio di decenni fa la tv italiana tendeva, anche se non organicamente, a rappresentare il reale. Nel frattempo ha acquisito una sua autonomia, attorno ad essa è nata una economia, si è formato un ampio ceto artistico e professionale, si muovono interessi ormai colossali, sono maturati forti meccanismi di consapevole ed efficace manipolazione della realtà, dell’audience, dei consumi e del consenso democratico.
No, non mi sento proprio di dire che quello che vediamo in televisione oggi rappresenta la società italiana. Credo che - rispetto alle cose positive e alla spazzatura che vediamo in tv - nella società italiana vi siano molte di più delle prime (anche se soffocate e scoraggiate dal sistema mediatico) e molto di meno della seconda. Diciamo che, così com’è, la tv è elemento costitutivo del sistema mediatico e complessivamente di quella che oggi si chiama “casta” (che non è solo politica). E la casta, no, non è effettivamente rappresentativa della società italiana, con i suoi difetti e i suoi bassi istinti, ma anche con le sue virtù, i suoi slanci, la sua generosità e la sua cultura sociale.
Si parla sempre di distacco della “gente” dalla politica, e di questo qualcuno indica come primo responsabile proprio la televisione: nel senso che ritualmente, quotidianamente, la politica è rappresentata sempre dalle stesse facce, che ripetono le stesse cose, sia nei tg sia nei talk-show. Se è così, ritiene possibile elaborare modi radicalmente nuovi di esporre e spiegare i problemi della politica, che per definizione dovrebbero essere i problemi di tutti?
Anche per le cose che ho detto prima, non attribuirei alla televisione la responsabilità del distacco della politica dalla gente. Si tratta di un fenomeno assai grave e complesso, che ha origini lontane e ramificate nella anomala storia politica e istituzionale italiana (dal ritardo secolare dell’unità nazionale a causa della presenza dello Stato pontificio, al fascismo, alla Dc, alle ricadute della guerra fredda in un Paese con il più grande partito Comunista d’occidente, all’interruzione del processo di evoluzione e liberazione del Paese alla fine degli anni Settanta con lo sciagurato ricorso alla strategia della tensione, al craxismo, a Tangentopoli, al berlusconismo, ecc.).
E’ indubbiamente la politica che, manipolando il servizio pubblico e utilizzando spregiudicatamente la tv commerciale, ha imposto il linguaggio e sempre le “stesse cose” e le “stesse facce” nei tg e nei talk-show.
Ma è altrettanto indubbio che gli operatori dell’informazione, per mancanza di coraggio e anche di esperienza professionale (e qui si dovrebbe parlare dei modi in cui sono state selezionate le ultime leve giornalistiche e dello stato di precarizzazione in cui sono costretti a lavorare i più giovani), hanno fatto poco per sottrarsi alle richieste e ai bassi istinti della politica, e ancora meno per elaborare modi radicalmente nuovi di raccontare la realtà e la politica, magari recuperandoli dalla migliore tradizione giornalistica italiana, che non è priva di riferimenti e modelli di grande professionalità e impegno civile (si pensi in particolare a Paese Sera e al Giorno, ma anche alla vecchia Unità, alla prima Repubblica e, perché no? anche al Tg3 definito Telekabul e alla Rete Tre diretta da Angelo Guglielmi).
Con rammarico debbo dire, come vecchio giornalista da due anni consigliere di amministrazione in viale Mazzini, che proprio questo è il mio maggiore cruccio: non essere riuscito a dare una mano seria perché la descrizione della società e della vita politica italiana da parte dei tg facesse l’auspicato salto di qualità.
Dopo la politica, e magari prima della politica, c’è l’“intrattenimento”. La televisione, al di là delle distinzioni fra pubblico e privato, deve assumere il ruolo dei “circenses” di antica memoria, indicando alla “plebe” come deve divertirsi, commuoversi, distrarsi, senza possibilità di scelta?
La tv spazzatura, gli appalti esterni, il peso eccessivo e indebito dei cosiddetti “agenti” e dei produttori privati sui contenuti e sui palinsesti, l’annullamento delle differenze fra i “generi”, insomma la marmellata mediatica: è stato un vero tsunami, prodotto dalla tv commerciale e dalla degenerazione complessiva del linguaggio e dei contenuti dei nostri giornali, al quale il servizio pubblico non è stato in grado di resistere rimanendone travolto. Bisognerà lavorare a lungo e in profondità per rimuovere dai palinsesti, dalle pratiche operative e dalla cultura aziendale le scorie di questo bruttissimo periodo del nostro sistema della comunicazione, che ha saputo sciaguratamente accumulare e intrecciare i vizi della vecchia subalternità al potere ai vizi del moderno cinismo mediatico.
Dalla televisione in generale, passiamo a Mamma Rai, che lei conosce molto bene, non solo perché è consigliere d’amministrazione dell’azienda pubblica. A proposito, come ricorda i tempi eroici di Telekabul, che lei ha inventato e diretto?
Li ricordo per quelli che sono stati: una splendida stagione di innovazione, di sintonia con la gente (sì, la gente) e di rispettosa ma autonoma descrizione della politica. Non c’erano solo il nostro entusiasmo e le nostre capacità, né solo gli spazi inevitabilmente più ampi accordati ad una iniziativa nuova che doveva farsi spazio tra agguerriti concorrenti. C’era, ancora, anche la positiva, residua ricaduta di una splendida stagione della storia del Paese - i processi di liberazione degli anni Settanta - che sarebbe stata travolta negli anni Ottanta dalla restaurazione. Diciamola questa parola: restaurazione.
La competizione tra Rai e Mediaset, arbitrata dall’onnipotente Auditel, comporta per entrambe le aziende un incremento continuo dei costi, sotto forma di contratti astronomici e acquisti di format. Pensa che sia opportuno, e possibile, concordare una divisione dei ruoli? A Mediaset l’intrattenimento, alla Rai il servizio pubblico, dalle inchieste alla cultura?
L’Auditel, così come organizzata, è una cosa deleteria, anzi devastante. Credo anche, ormai, per la tv commerciale (gli stessi inserzionisti pubblicitari hanno bisogno di trasmissioni credibili e di pubblico fidelizzato). Per questo la Rai ha finalmente preso l’iniziativa di rivedere quel sistema, affinché nella valutazione dell’audience si tenga conto, oltre che di dati quantitativi, anche di dati qualitativi.
Detto questo, non mi pare assolutamente auspicabile una divisione di ruoli, con l’intrattenimento riservato (e regalato) a Mediaset. Una ipotesi del resto resa impraticabile dall’ampliarsi inevitabile delle presenze e del pluralismo emissivo, in conseguenza dello sviluppo tecnologico delle variegate piattaforme nelle quali si va fortunatamente articolando il mercato.
Ma una cosa tengo a sottolineare: il servizio pubblico deve fare informazione, inchieste e cultura, deve dare ai cittadini sempre più ampi e utili “servizi”, ma deve continuare a fare intrattenimento, fiction, sport, ecc... Almeno per due ragioni: perché, non facendolo, rischierebbe di condannarsi e condannare tutte le sue altre pur pregevoli trasmissioni in uno stato di inessenziale marginalità sul mercato, e perché sappiamo tutti, dal grande sociologo al semplice cittadino, quanta cultura e quanti valori si veicolino proprio con il cosiddetto intrattenimento.
In questo senso, anche le trasmissioni di intrattenimento della Rai dovranno evidentemente avere una cifra, contenuti e un linguaggio che lo qualifichino inequivocabilmente come servizio pubblico.
Ma la RAI è pronta, e disposta, ad assumere il compito di leader civico e culturale? La si accusa di essere pigra, imprigionata in una rete di procedure burocratiche, e, secondo alcuni, addirittura diseducativa.
La Rai è pronta e capace ad assumere il ruolo che le spetta, e di cui il Paese ha assolutamente bisogno, per il proprio progresso economico, la propria evoluzione culturale e la propria vita democratica: un grande, forte servizio pubblico radiotelevisivo, al centro di un sistema della comunicazione articolato sul territorio e politicamente, culturalmente e aziendalmente plurale. Senza più monopoli o duopoli.
Perché questo avvenga, la Rai deve certamente liberarsi dalla rete di procedure burocratiche che la imprigiona e, soprattutto, dagli interessi affaristici, clientelari e microcorporativi che come una massa tumorale ne minano ormai la sopravvivenza. Ma la Rai potrà tentare di farlo se, prima, i partiti avranno fatto due cose: un passo indietro rispetto alla tentazione (e alla pratica) di trattare la Rai come una cosa propria e la riforma del sistema.
Non crede che il periodico appello a “ringiovanimento” dei quadri Rai stia diventando un vezzo conformista? Il problema non sta piuttosto in scelte e idee radicalmente nuove? E queste non sono mai dipese da dati anagrafici.
Sono perfettamente d’accordo. Indubbiamente i giovani portano entusiasmo, novità, capacità di stare nella modernità. Ma altrettanto indubbiamente, per fare qualsiasi cosa, anche e soprattutto un buon servizio pubblico radiotelevisivo, servono esperienza e conoscenze.
C’è però da ammettere che l’unico problema al riguardo, per la Rai, sta nell’accumulo dei vizi del passato che rischiano di annebbiare la capacità di produrre scelte e idee radicalmente nuove.
Per finire sulla Rai, come giudica le varie ipotesi di riforma? Privatizzarla, trasformarla in una fondazione, o che altro?
Sono radicalmente contrario alla privatizzazione, qui ed ora, anche di un solo pezzo della Rai. Presumo che, con lo sviluppo delle tecnologie e con la realizzazione di un ampio pluralismo di offerte, di aziende e di piattaforme emissive, si sdrammatizzerà notevolmente il problema del controllo di tre reti generaliste. E allora, semmai, si valuterà la situazione. Ma oggi vedo in campo solo l’interesse di qualche gruppo finanziario e di potere ad accaparrarsi, a prezzi e a condizioni di favore (come è accaduto per la privatizzazione di altre fruttuose aziende di Stato), pezzi pregiati della Rai.
Se questo avvenisse, mentre rimane in piedi la tv berlusconiana e avanzano nuovi, potenti competitor, per il servizio pubblico - e per l’interesse pubblico a una comunicazione non asservita a ristretti gruppi di potere economico e finanziario - sarebbe esiziale.
Per quello che riguarda la trasformazione in fondazione, i cui sostenitori la giustificano con la necessità di cambiare la “fonte di nomina” dei consiglieri di amministrazione allontanandola dai partiti, non mi convince molto. Anche perché, in una democrazia, non c’è fonte di nomina più alta e trasparente di quella parlamentare, prevista dall’attuale normativa sulla Rai.
Se c’è qualcosa che non funziona a questo livello - e indubbiamente c’è - suggerirei di intervenire non sugli effetti ma sulle cause del fenomeno. E cioè, costringendo i partiti a fare un passo indietro rispetto, prima ancora che alla Rai, all’autonomia e al decoro della massima istituzione democratica del Paese.
______________________________________
Sandro Curzi
Nato nel 1930 in una famiglia antifascista, fin da giovanissimo collabora con L'Unità, quotidiano allora illegale, e al termine della Seconda guerra mondiale si iscrive al Partito comunista italiano. Nel 1957 diventa inviato speciale in Algeria, ed in questa veste darà al suo quotidiano informazioni sulla guerra che la Francia combatteva in quel Paese.
Successivamente sarà capocronista e caporedattore centrale de L'Unità, oltreché responsabile propagandistico per il Pci. Dal 1967 al 1975 è vicedirettore di Paese Sera, e nel 1968 scrive un articolo in favore della contestazione giovanile in atto proprio in quell'anno. Nel 1975 si dimette per entrare come redattore ordinario al Gr Rai, da cui passerà al neonato Tg3.
Condirettore del telegiornale della terza rete dal 1978 al 1984, ne sarà direttore dal 1987 al 1993, confermando la prevalenza dei comunisti nella più piccola rete televisiva nazionale. Dopo la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi (1994), non accetta di far parte della Rai presieduta da Letizia Moratti e si dimette da ogni incarico.
Dopo aver diretto il telegiornale della ormai defunta rete televisiva Telemontecarlo, Curzi avrà un'esperienza a Mediaset come editorialista di Maurizio Costanzo, ma nel 1996 torna in Rai (e più precisamente a Rai Uno) per condurre il programma “I grandi processi”. Nel 1991 aveva nel frattempo aderito a Rifondazione Comunista, di cui sarà candidato per il comprensorio del Mugello (otterrà il 13% delle preferenze, finendo dietro all'ulivista Antonio Di Pietro) e direttore del quotidiano ufficiale (Liberazione) dal 1998 al 2005.
Sandro Curzi, nell'estate 2005 viene nominato consigliere della Rai in qualità di rappresentante politico del gruppo Prc-Verdi: per pochi giorni diventa presidente della stessa, in quanto consigliere anziano, prima di lasciare il posto a Claudio Petruccioli.
|