Il Centro di primo soccorso e accoglienza
dell’isola siciliana non è un lager, non è
una prigione, e neppure un albergo: malgrado
la buona volontà di alcuni, non aiuta
i disperati, ma chi trae profitto su di loro
Navigando su Internet, alla voce Cpt o Csa di Lampedusa si trovano centinaia di contatti, c’è chi parla di “campo di concentramento”, chi di “lager”, chi ancora di “carcere amministrativo”. La descrizione più attenta e verosimile, anche se datata, è la “cover story” di Fabrizio Gatti scritta su l’Espresso.
A distanza di due anni da quell’articolo, sono cambiate molte cose al Centro di primo soccorso ed accoglienza di Lampedusa, non è cambiata la sostanza: il Csa di Lampedusa non rappresenta l’Europa. Ho osservato il centro per 15 giorni, avendo possibilità di accesso illimitate, potrei scrivere di un lager e provarlo con alcune foto, potrei parlare di un hotel a 5 stelle e con un pò di fantasia, potrei provarlo con altre foto, ma ingannerei solo voi lettori, perché Lampedusa non è né l’uno e nell’altro.
Il centro per l’accoglienza degli immigrati è l’inno alla disorganizzazione, alla buona volontà dei singoli, alla poca pazienza di altri, e alla semplice stupidità di qualche benpensante.
Lampedusa è un business, tutti gli attori in gioco ci guadagnano, compresi gli immigrati.
L’inizio della storia: l’arrivo
Di giorno o di notte, appena una barca viene avvistata, è subito presa in consegna da una unità della Guardia Costiera o dalla Guardia di Finanza, accompagnata in porto, in una zona riservata non accessibile ai turisti, viene fatta sbarcare sulla banchina. Qui i clandestini sono accolti e visitati da “medici senza frontiere” e dall’unica crocerossina presente sull’isola. Lo sbarco dei clandestini è emozionante, molti sono spaesati, c’è chi bacia la terra che lo accoglie, chi scende con le gambe ancora tremolanti. Occhi vispi nella notte scrutano le persone in divisa bianca della Guardia Costiera o grigia della Finanza di mare, qualcuno è affascinato, qualcuno intimorito. Un bambino che assomiglia a “Bodo” della serie “Piedone…” non si lascia avvicinare da nessuno che sia in divisa, in Libia ha avuto brutte esperienze con la Polizia, al centro si ricrederà e sarà coccolato (e viziato) a turno, dal Reparto Mobile e dalla Scientifica. Qualcuno ha freddo e viene coperto da fogli di alluminio, una donna sviene, i sanitari la fanno sdraiare a terra, perché la barella è gia occupata. Chi sbarca di notte è assonnato, chi sbarca di giorno è accaldato, qualcuno ha un mancamento ma si riprende presto, fortunatamente i bambini stanno quasi sempre bene, nessuno è disidratato e tutti, dopo qualche ora, ridono e corrono per il centro.
Insieme ad altri 264, arriva una ragazza, è stata ripetutamente violentata in Libia, ha frammenti di vetro, forse i resti di un collo di bottiglia, nella vagina; trasportata d’urgenza in ospedale si salverà. La Lampedusa del mare cristallino, dei frequentatori dell’Isola dei conigli, non si accorge di niente: i vacanzieri di agosto sono concentrati tra lo struscio di via Roma e i discobar sul mare. Si sente parlare di sbarchi di clandestini solo da Sky Tg24 e l’indomani, quando qualche turista curioso, ancora con il cappuccino in mano, stordito dal sonno per la notte spesa a Cala Croce, prova a fare una foto, non trova nulla, nessun segno del passaggio dei disperati. Sono già spariti nella notte. La barca su cui hanno viaggiato, nel giro di poche ore, è stata issata in secco, si dissolve tra le dune, all’interno dell’isola, per essere cannibalizzata.
Il primo approccio
Finite le visite preliminari, i clandestini vengono accompagnati presso il centro d’accoglienza e li ricevono, immediatamente, qualcosa di caldo da bere e da mangiare.
Gli immigrati sono divisi per sbarchi: esiste il primo, il secondo ed il terzo sbarco del giorno “x”, il primo del giorno “y” e cosi via. Appena giunti al centro vengono visitati dal medico, sono sostanzialmente perquisiti e pre-identificati. Da queste prime operazioni ci si rende conto della disorganizzazione. I referti dei “medici senza frontiere” e del centro spesso differiscono. A volte sono differenze di poco conto, altre riguardano una malattia ormai dimenticata: la scabbia. Se qualcuno presenta segni di scabbia sulla pelle, tutte le operazioni sono rimandate, lo “sbarco” è separato dagli altri e le operazioni iniziano dopo 2-3 giorni.
A qualsiasi ora del giorno e della notte, sia che abbiano trascorso in mare 3 giorni, sia che ci siano stati 2 settimane, arrivati al centro, i clandestini sono pre-identificati dal mediatore culturale e dall’Immigrazione. Un lavoro delicato quello del mediatore culturale che deve annotare, per i documenti ufficiali, la nazionalità dichiarata e quella presunta. Gli arabi con perfetto accento tunisino o marocchino, si dichiarano palestinesi o curdi, danno nomi falsi tanto che, quando vengono chiamati con il nome appena fornito, non se lo ricordano e non si voltano neanche. Per i mediatori culturali, tutti arabi, scoprire le provenienze della loro gente è cosa semplice. Diventa difficile con gli africani, in questo caso, la nazionalità dichiarata è sempre anche quella presunta, nessuno parla l’amarico, il tigrino, o l’hausa, è impossibile capire se una persona arriva dall’Etiopia, dall’Eritrea o dal Benin. Nessuno fa domande per scoprire se quello che dice di provenire dal delta del Niger conosce il nome del Primo Ministro nigeriano o il significato di Mend (Movimento per l’Emancipazione del delta del Niger).
A tutti viene assegnato un numero, con il riscontro di una foto e a seconda di chi comanda al momento, immediatamente fotosegnalati (foto ed assunzione impronte). C’è la comprensibile esigenza di identificare sommariamente delle persone, anche a seconda del giorno e dell’imbarcazione di arrivo, per cui per non perdersi uno “sbarco”, gli operatori devono fare una foto che rappresenti un viso associato ad un numero di carta. I clandestini, per confondersi, spesso si scambiano i numeri: ecco spiegata l’utilità della foto.
I braccialetti di sicurezza in gomma, come quelli degli alberghi (che servono per le consumazioni del Bar o per accedere nelle spa), ancora non sono arrivati alle porte d’Europa, sono conosciutissimi dai turisti di mezzo mondo ma mancano al Csa di Lampedusa.
Alle 3 del mattino si possono trovare clandestini ammassati sul marciapiede che sonnecchiano, stremati dal viaggio e poliziotti di Immigrazione e Scientifica che li identificano, tutti hanno le “bisacce” sotto gli occhi a causa del mancato sonno.
Nelle stanze della Scientifica si lavora a ritmo serrato, i 3 “Visascan”, gli apparecchi per l’assunzione digitale delle impronte, accarezzano con i laser centinaia di dita, ogni postazione è in collegamento automatico con il Casellario Centrale d’Identità, in pochi minuti si saprà se la persona fotosegnalata, è stata già identificata altrove, se è gia entrato illegalmente in Italia. Gli immigrati sono affascinati nel vedere le loro impronte apparire sugli schermi di un computer, qualcuno per non farsi segnalare ha inondato le proprie dita con la colla, altri le hanno levigate sui muri, è inutile gli spiegano i ragazzi in camice bianco, l’identificazione riesce ugualmente. Tutto procede senza intoppi, se solo non fosse per l’odore di una settimana di viaggio, attaccata a disperati stremati, che ancora devono fare una doccia.
Intanto si è fatta mattina e cambia il turno.
La vita del centro
Andare a recuperare persone nella bolgia del centro è esperienza difficile, la fanno i mediatori culturali a voce alta, perché non esistono altoparlanti, nelle camerate e per i bagni, i clandestini arrivati con lo stesso sbarco vengono messi in fila ed avviati nelle varie fasi della permanenza.
Ricevono materiali da toletta, nuovi vestiti ed una tessera telefonica da 5 euro. L’unica cosa di qualità è la tessera che è “Telecom” e le sigarette “Ms”: tutto il resto e di provenienza cinese. Scarpe in vera plastica e tute ginniche dello stesso materiale, i pannolini sono di una marca sconosciuta anche ad occhi super-esperti come i miei.
Ogni clandestino è chiamato genericamente “maifrend” se uomo e “sister” se donna: è l’inglese del centro, si tramanda come un linguaggio nativo. Non è buona o cattiva accoglienza, è impreparazione; solo un paio di persone, mediatori culturali compresi (solo una conosce a buon livello l’inglese), in tutto il centro, parlano l’inglese di Oxford, gli altri si arrangiano come possono.
Il tempo scorre tra le file ai telefoni, l’identificazione ed i pasti. In 15 giorni non ho visto altro che pasta al sugo, bastoncini di pesce, patatine fritte, verdure cotte e una specie di spinacine, tutta roba da super discount. Per gli immigrati era sempre tutto buono, per come sono abituati a mangiare speziato, gli sarà sembrata una poltiglia informe senza sapore ma non si sono mai lamentati. Il resto è noia: devono passare 2, 3 giorni prima dell’aereo che li porterà via, in un Cpt vero.
Le ore passano tra qualche rissa interetnica o dettata da motivi economici sedata da un paio di poliziotti, e qualche accapigliamento tra eritree e nigeriane per l’ultima bottiglia d’acqua (come se non gliene fornissero a volontà), risolta, alzando (tanto) la voce, da un papà disgustato di “Lampedusa Accoglienza”, perché, nel tafferuglio, nessuno ha avuto riguardo per i “picciriddi”. Passano le notti con persone sdraiate all’esterno su materassini di gomma piuma, perché le camere sono troppo calde o troppo maleodoranti. La mattina, non di rado, poliziotti dal cuore tenero gonfiano i guanti di lattice per farne palloncini, per far giocare i più piccoli, mentre le mamme vengono “segnalate” dalla Scientifica. Il centro non fornisce palloncini colorati ai bambini.
Qualche musulmano prega in una specie di moschea improvvisata, qualche cristiano chiede un prete per confessarsi e per una messa, ma non gli viene concesso. Partono gli aerei, il centro per qualche ora si svuota, arrivano subito nuovi ospiti, neanche sapessero che ci sono nuovi posti.
Gli operatori
Il centro è tutto un movimento di gente. Il “core” è rappresentato dalla cooperativa “Lampedusa Accoglienza” che gestisce il campo, i rifornimenti e le esigenze dei clandestini, compresa l’assistenza sanitaria. Si danno tutti da fare ma strutture e equipaggiamenti sono di pessima qualità, scelti senza una strategia. Non ha senso fornire di scarpe chiuse (rigorosamente senza lacci) e tute acetate quando la temperatura media è di 40°, come non ha senso non montare delle panchine nello spazio riservato alla pre-identificazione, costringendo le persone ad attendere seduti o sdraiati sui marciapiedi.
Sono solo alcuni esempi, tutta la struttura sembra nata senza senso.
L’altra parte sempre presente sono le forze dell’ordine, i Carabinieri “per motivi d’opportunità” sono relegati all’esterno della struttura, mentre la Polizia di Stato, divisa tra Immigrazione, Scientifica, Squadra e Reparto Mobile lavora all’interno, per identificazione e gestione della posizione degli immigrati. Ruotano anche l’Organizzazione mondiale della migrazioni e l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu, parlano, ascoltano, danno dei volantini con indicazione dei diritti del rifugiato. Presente anche l’Arci, qualche volta un rappresentante dialoga con gli immigrati, qualche volta con la direzione del centro. Tutti guadagnano, se non ci fossero gli immigrati alcuni guadagnerebbero di meno, altri niente. L’unica a non percepire soldi per questo lavoro è la crocerossina, che si lancia dalla banchina del porto, al centro, notte e giorno, per tentare di alleviare qualche sofferenza, in compagnia della mediatrice culturale della Croce Rossa Internazionale.
Un lager? Una prigione?
Un albergo a 5 stelle?
Se volessimo vedere il Csa di Lampedusa con delle lenti “politiche” potremmo dire tutto ed il suo contrario.
Se per lager intendiamo un luogo dove si attua un comportamento disumanizzante da parte degli operatori o un trattamento disumano degli ospiti, siamo lontanissimi dalla definizione. Non ho mai visto violenza, anche solo psicologica, gratuita. Ho visto gente che lavora in condizioni pietose, senza strumenti idonei, senza alcuna possibilità di incidere sul benessere degli ospiti, inventando e reinventando per far sì che arrivi qualcosa a tutti.
Il Csa non è una prigione, un luogo dove tentare di scavalcare vuol dire farsi sparare addosso, dove è tutto un tintinnio di chiavi e lucchetti; al centro non ci sono né lucchetti né chiavi, le porte sono “guardate” dai Carabinieri ma si aprono anche dall’interno, ci sono reti di delimitazione ma niente cemento o guardie armate sulle torrette. Esiste un confine esterno, delimitato dalle reti con l’aeroporto e il paese. C’è un confine interno, tra la zona alloggi, mensa e ritrovo e la zona degli uffici, delle cucine e infermeria. Donne e minori sono ospitati in zone separate ma attigue alla zona degli uomini. Le persone girano liberamente nelle aree loro assegnate, negli uffici sono accompagnati a piccoli gruppi.
Il centro non è un albergo a 5 stelle, se lo fosse entrerebbe nel Guinnes dei primati come l’albergo più schifoso del mondo.
Il Csa di Lampedusa è un centro di primo soccorso e accoglienza. Ai miei occhi è uno schifo e potrebbe essere mille volte meglio, solo se fosse più organizzato, se avesse più fondi, o se magari quelli che ci sono fossero spesi meglio, ma questo non lo devo giudicare io.
Agli occhi di molti immigrati il centro non sembrava poi cosi male. Per alcune mamme scoprire i pannolini usa e getta invece dei “triangoli e sorrisi” o il latte in polvere, è sembrato un sogno; per altri invece, è stato uno shock vedere che le scarpe ginniche fornite, erano un volgare fac-simile delle “Nike” originali con cui sono arrivati.
Il Csa di Lampedusa sta chiudendo, nel momento in cui si va in stampa, sarà definitivamente chiuso. Il nuovo centro è più bello, più grande e con qualche “optional” in più (ogni stanza è climatizzata), sempre poco per essere il primo punto d’accoglienza in Europa.
Perché Lampedusa
I clandestini che sbarcano a Lampedusa, arrivano nell’isola siciliana dopo un viaggio che per alcuni dura anni.
Gli africani, dal Paese di provenienza arrivano in Sudan, poi in Libia dove aspettano mesi prima del grande salto in Italia. Vivono in grandi campi ai margini delle città o in zone desertiche, pagano in dollari per qualsiasi cosa: per non essere arrestati, per non essere picchiati, per poter bere o mangiare, col pericolo di essere investiti di notte per strada, solo perché la gente laggiù li odia. Alcuni lavorano come schiavi per poter guadagnare qualcosa, perché i soldi non bastano o perché l’organizzazione ha cambiato il prezzo del passaggio.
Le uniche a non pagare sono le future prostitute, perlopiù nigeriane, lavoreranno due anni per riscattare il prezzo del viaggio. Nel frattempo sollazzano chiunque abbia soldi.
Dai colloqui avuti con i clandestini appare chiaro che, la tratta non è in mano ad organizzazioni criminali invisibili, ma, come è evidente che sia in una dittatura come quella di Gheddafi, è gestita direttamente da apparati governativi. I clandestini sono l’arma con cui la Libia impone alcune “concessioni” all’Europa. Gli equipaggiamenti italiani, tolti alle nostre Forze dell’ordine sono arrivati alla Polizia libica che li usa per spillare soldi ai clandestini, ma che in compenso ne centellina le partenze.
Gli arabi arrivano sia dalla Tunisia che dalla Libia, alcuni ci provano più volte a distanza di circa un anno, il tempo medio perché, una volta avuto il foglio di via, spariscono per essere fermati in giro per l’Italia, ben oltre il canonico limite temporale di 5 giorni. Solo allora, forse, vengono rispediti a casa.
Il traffico è organizzatissimo, evita con cura Malta, perché è un’isola da cui si può solo essere ricacciati subito indietro e perché il trattamento è sicuramente peggiore di quello ricevuto in Italia. Ogni barcone, gommone, rete per tonni in funzione trasporta-clandestini, tenta di arrivare il possibile vicino alle coste italiane. A volte neanche troppo vicino. La nostra Marina Militare è l’unica che soccorre i clandestini praticamente in tutta l’area sud del Mediterraneo, dai confini delle acque di Malta, a quelle libiche o tunisine. I clandestini devono solo farsi notare, una volta fuori dalle acque territoriali ed aspettare: una nave italiana arriverà.
A volte sono gli amici di ospiti del centro di Lampedusa, ancora in mare, a telefonare con il cellulare: l’ospite, anch’esso fornito di cellulare, avvisa un poliziotto o un operatore, il quale comunica alla Guardia Costiera la posizione del gommone, esce una nave e il salvataggio è compiuto.
La pessima organizzazione aiuta anche gli scafisti, a Lampedusa manca un apparato di giustizia, nessun giudice, nessun pm, mancano le stanze di sicurezza, è tutto ad Agrigento, a dieci ore di nave. Il tutto si trasforma in impunità.
Il dilemma
Si racchiude nell’esempio di Lampedusa tutto il problema dell’immigrazione, tra far entrare tutti gli stranieri in Italia come vorrebbe qualcuno, a cacciarli tutti indietro come vorrebbero altri, si è scelto di farli diventare tutti sostanzialmente clandestini, grazie a cattiva organizzazione, lungaggini burocratiche, poca professionalità di chi dovrebbe prendere decisioni coraggiose.
Le attuali regole non sono efficaci ed in questo modo non aiutiamo i disperati ma solo chi trae profitto su di loro. Noi compresi..
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