Con il suo ritorno televisivo, dopo tre anni di silenzio, alla vigilia dell’11 settembre, seguito da un secondo messaggio esaltante uno dei terroristi delle Twin Towers, Osama bin Laden ha ovviamente voluto ricollocarsi al centro dell’attenzione, quasi paventasse di diventare una figura sbiadita, dotata di un impatto più simbolico che concreto. Per raggiungere questo risultato, lo Sceicco Nero – ringiovanito da una barba più corta dell’usuale, e visibilmente tinta – ha imbastito un monologo di 30 minuti improntato come sempre a megalomania, mitomania e fanatismo, e reso attuale da riferimenti politici ed economici recenti, tanto per togliere il dubbio che si tratti di materiale riciclato. Con l’aggiunta di un appello (ironico?) a una conversione globale alla religione coranica perché, ha assicurato, “nell’Islam non si pagano le tasse”.
In realtà Osama (che per la sua educazione e per l’ambiente dal quale proviene ha una buona conoscenza dei meccanismi propagandistici) sembra aver voluto lanciare una sorta di contro-messaggio nascosto tra le pieghe del suo vaniloquio, e soprattutto delle sue bugie. Osama bin Laden ha esortato gli americani a ritirarsi dall’Iraq, lasciando intendere che in quel tormentato Paese il grande avversario è lui, il leader di al-Qaeda. “La cosa che non sono mai riuscito a fare completamente è stata quella di spiegare ai miei concittadini il legame che esiste fra guerra in Iraq e guerra ad al-Qaeda”, ha lamentato George W. Bush nel libro intervista uscito nel settembre scorso. Una difficoltà oggettiva, visto che, dai rapporti della Cia di prima della guerra a un’ultima inchiesta del Senato Usa di alcuni mesi fa, l’Iraq di Saddam Hussein era l’unico Paese del Medioriente dal quale Osama e la sua “base” fossero tenuti rigorosamente lontani. Come le fantomatiche armi di distruzione di massa, i legami del tiranno di Bagdad con il terrorismo fondamentalista erano una panzana allestita dallo staff del vicepresidente Dick Cheney, che voleva quella guerra a tutti i costi. E al-Qaeda ha potuto fare il suo ingresso in Iraq solo dopo che le truppe americane e britanniche hanno invaso e occupato l’Iraq.
Una prima considerazione: Osama bin Laden ha ritenuto utile per il suo prestigio personale, e per quello della sua organizzazione, avallare la tesi del Presidente, fornendogli così l’occasione di affermare che, “per proteggere la nostra gente”, l’unica valida scelta in Iraq è mostrarsi “più risoluti”. Perché, conclusione di una logica fin troppo elementare, se il capo supremo del terrorismo islamico chiede che gli americani lascino l’Iraq, vuol dire che per combattere il terrorismo gli americani devono invece restare in Iraq.
Proseguendo imperterrito sulla strada della smaccata menzogna, Osama ha fatto appello alla “resistenza dei musulmani”, minacciando di “far pagare occhio per occhio e dente per dente gli assassini dei fratelli in Allah”. Anche qui, approfittando della confusione che il Presidente fa spesso fra terroristi alqaedisti (una minoranza di mercenari stranieri, secondo i rapporti dei militari statunitensi) e i ribelli sanniti e sciiti (in lotta tra loro e con gli occupanti), lo Sceicco Nero è ben lieto di mettere, a parole, il suo turbante sull’intero conflitto iracheno. Fingendo di dimenticare che tra gli “assassini dei fratelli in Allah” i suoi seguaci, con i quotidiani attentati contro la popolazione civile, sono in prima fila.
L’ipotesi di un Osama bin Laden che non si rende conto di fare il gioco del suo avversario è poco verosimile, e del resto è contraddetta dalla realtà della situazione in Iraq. In un Paese ormai in piena guerra civile, che trova occasionalmente qualche oasi di relativa tranquillità solo a prezzo di sanguinose operazioni di pulizia etnica, solo una presenza militare americana può fornire agli uomini di al-Qaeda una qualche copertura “ideologica”. Chiedendo a gran voce che gli americani lascino l’Iraq, Osama bin Laden si augura che, al contrario, restino lì ancora a lungo. Anche perché l’impegno militare in Iraq rallenta per forza di cose l’azione in Afghanistan, dove al-Qaeda, sulla scia dei suoi alleati talebani, ha potuto recuperare alcune posizioni.
D’altra parte, pur se probabilmente a questo punto anche George W. Bush sa che la guerra in Iraq non ha nulla a che vedere con la lotta al terrorismo islamico, non può dirlo apertamente. Il Presidente si trova invischiato in un conflitto anomalo che nessuno sarebbe in grado di vincere. Neppure i paragoni con il Vietnam risultano davvero validi: in Indocina il repubblicano Richard Nixon, e il suo successore (dopo l’impeachment per il Watergate) Johnson, decisero e realizzarono un ritiro che allora sembrò disastroso, ma nei fatti servì a stabilizzare quella regione. Un altro Nixon potrebbe fare la stessa operazione oggi in Iraq? No, ma Nixon non sarebbe mai andato in Iraq.
Difficile restare, difficile ritirarsi: in questa situazione la ricomparsa di Osama bin Laden può alimentare la vaghezza di alcuni toni retorici che servono essenzialmente a nascondere una mancanza di prospettive. Ma la sostanza rimane. Né Bush, né altri sanno indicare una strategia valida per concludere il conflitto iracheno, nel quale il fondamentalismo omicida di al-Qaeda si mimetizza come un parassita in un corpo malato. Nel frattempo la minaccia del terrorismo islamico in Medioriente, in Africa, in Europa, si espande, in gran parte autonomamente dalla centrale dello Sceicco Nero, con una galassia di cellule basate su una gestione autarchica degli strumenti di morte e degli obiettivi da colpire. Detto questo, Osama è indubbiamente ancora la più valida, la più pericolosa icona del terrore, una figura alla quale ogni aspirante terrorista, anche molto lontano dalle montagne della frontiera fra Afghanistan e Pakistan (ammesso che quello sia il suo rifugio), può idealmente riferirsi.
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