Lo shock emotivo provocato dal combattimento
è uno stress di intensità tale da provocare
l’esaurimento delle capacità di reazione
e di adattamento psicofisico da parte
dell’organismo: i sintomi richiedono
un immediato trattamento
In tutte le guerre finora combattute, comprese quelle in atto in Iraq ed Afghanistan, è emerso che il problema principale, sia nei militari che nella popolazione civile, è la reazione dello stress mentale agli orrori che una guerra inevitabilmente comporta. Negli ultimi secoli, lo sviluppo delle moderne modalità con cui vengono condotte le attività belliche, ha esposto in modo sempre maggiore anche la popolazione civile ai disagi ed ai traumi psicologici della guerra, generando reazioni psichiche da stress in percentuale sempre maggiore.
Tuttavia è solo dalla I Guerra Mondiale che gli studiosi della mente hanno iniziato ad esaminare i disturbi mentali reattivi alla guerra in modo scientifico e sistematico. I dati che sono stati raccolti depongono per un progressivo incremento delle persone affette, sia militari che civili, da disturbi mentali che continuano ad essere sempre gli stessi: disturbo acuto da trauma psichico e disturbo cronico post-traumatico da stress. Non è possibile quindi separare quadri clinici osservati nei soldati dai quadri clinici osservati nei civili, sono essenzialmente dello stesso tipo.
E’ stato osservato che le reazioni psicopatologiche agli eventi connessi con le attività di guerra possono essere suddivise in tre tipologie: le reazioni individuali; le reazioni collettive; le reazioni di massa.
Le reazioni psicologiche individuali non sono sostanzialmente differenti dalle reazioni osservate in chi attraversa una situazione difficile della propria vita, come, ad esempio, la morte di un parente stretto o di un amico, oppure l’improvvisa perdita della casa o dei propri beni.
Le reazioni psicopatologiche ad un evento negativo di tipo collettivo o di massa sono reazioni di vasta portata che possono colpire più persone di uno stesso gruppo o di una popolazione intera. In questi casi c’è una reazione collettiva in cui le persone manifestano la suggestione di un reciproco scambio di forti emozioni. Queste persone, al verificarsi dell’evento negativo, sviluppano una identificazione reciproca che amplifica le reazioni individuali a livelli molto elevati, vale a dire a livelli che singolarmente non avrebbero raggiunto. Questo accade in gruppi omogenei come i colleghi di lavoro o gli appartenenti ad una stessa squadra militare. Alcune ore dopo l’evento negativo inizia a manifestarsi una reciproca identificazione per cui al disagio personale si somma il disagio dell’amico, del vicino, del parente, del commilitone. Più è omogeneo e coeso il gruppo colpito più è forte ed intensa la reazione emotiva collettiva, fino a poter inglobare una reazione emotiva che comprenda una intera popolazione di una cittadina e provocare una reazione di massa, incontrollata ed irrazionale, come quelle che si osservarono in Croazia nel 1994, quando intere popolazioni in preda al panico si gettarono in un fiume e morirono annegate.
Sia nel singolo che nel gruppo si osservano una serie di fasi che si sviluppano a partire dall’evento negativo:
fase di shock – la reazione emotiva immediata, spesso accompagnata da stupore ed inibizione di fronte ad un evento inatteso, imprevedibile e che segna un punto di rottura che una vita precedente;
fase di ritiro – quando, passato il momento di grave pericolo, la persona si ferma ed inizia a prendere consapevolezza degli eventi e della portata di questi nel prosieguo della vita;
fase di adattamento – quando inizia ad agire per trovare le risposte agli eventi intercorsi ed adattarsi alla nuova realtà che si è determinata.
Quando queste fasi non evolvono in modo naturale e completo si struttura una patologia di tipo mentale che inabilita il soldato al pari di una lesione fisica. Una fase di shock non superata o di ritiro intrapsichico non risolta è equiparabile ad una perdita, poiché impone lo sgombero del militare ed il trattamento in strutture sanitarie di tipo medico o psichiatrico.
Le perdite per malattie psichiatriche sono state registrate a partire dal 1860 fra i soldati americani che venivano inviati a combattere in Europa. E fra di loro iniziò ad emergere anche la problematica del suicidio, arrivando a toccare la percentuale del 6% fra tutti i soldati inviati in occidente. Nel 1905 per la prima volta fu chiamato uno psichiatra al seguito delle truppe americane in Europa ed anche i Russi chiamarono degli psichiatri per assistere i soldati dello zar che andavano a combattere contro i giapponesi. Sono stati gli psichiatri militari russi a parlare per primi di “sordomutismo da guerra” per quei soldati che dopo il combattimento non riuscivano più a parlare né ad udire. Anche i medici inglesi e francesi lo osservarono nella I Guerra Mondiale, tuttavia parlarono di “shock da bomba” in quanto erano conseguenza di una vicina esplosione e si pensava a lesioni cerebrali o del timpano. Oggi sarebbero inquadrate come reazioni emotive al combattimento e diagnosticabili come sintomi nevrotici di conversione.
Da allora è passato un secolo, tuttavia la stima effettuata allora che il 50% dei soldati inviati al fronte manifestava o subito o successivamente una reazione psicopatologica vale ancora oggi. Durante la seconda guerra mondiale iniziò a definirsi la reazione di shock e ritiro intrapsichico come “breakdown mentale” e, non disponendo gli psichiatri delle conoscenze psicopatologiche di oggi, spiegarono tale evento come conseguente ad una debolezza mentale del soggetto cui si associava anche la vigliaccheria. Molti soldati dei vari fronti, compresi gli italiani, arrestati mentre fuggivano in preda allo shock emotivo, sono stati condannati e giustiziati nei vari tribunali militari con l’accusa di vigliaccheria e di codardia. Solo recentemente il Ministero della Difesa inglese ha riabilitato i militari giustiziati per codardia e vigliaccheria affermando che non si trattava di vigliacchi ma di ammalati psichiatrici. Non si trattava quindi di debolezza mentale e codardia, bensì delle naturali conseguenze della guerra.
Il breakdown mentale risulta essere, secondo gli studi attuali, la patologia di più frequente riscontro nella popolazione militare impegnata nelle attività di combattimento e si stima che in un conflitto condotto con armi non convenzionali o nucleari arriverebbe a comprendere una quota di militari pari a circa l’80%.
Il breakdown mentale gioca un ruolo sempre più importante nelle guerre moderne, non a causa delle debolezze psicologiche del fattore umano, bensì al sempre crescente grado di distruttività e di stress psichico che accompagna le guerre moderne. Nel 1945 uno psichiatra militare americano scriveva che “la chiave per capire i problemi mentali sta nel semplice fatto che il pericolo di morte o di invalidità determina una pressione psicologica così forte da far crollare le persone”. Era sufficiente, per questo psichiatra, osservare i volti sconvolti dei soldati che fuggivano dal fronte e che esprimevano una grande disperazione e poi tremavano e singhiozzavano terrorizzati e parlavano di bombe e di compagni feriti ed uccisi. Non c’è alcun modo per abituarsi a questo ed ogni esplosione o compagno ferito o ucciso ricorda che il prossimo a morire potrebbe essere lui. La forte pressione psicologica che la vicinanza con la morte viene a determinare e la continuità nel tempo dell’esposizione al pericolo arrivano a far crollare anche il più forte e combattivo dei militari. Questo è il “prezzo” più alto che la guerra fa pagare a chi la combatte: non sono i dollari, non sono i cali di produttività delle industrie né la distruzione di case e nemmeno il numero dei feriti e dei morti. È un prezzo che non viene mai indicato anche perché come potrebbe essere calcolata la sofferenza degli uomini in divisa e della popolazione civile?
Possiamo affermare comunque che il breakdown mentale è la voce più costosa di un bilancio di guerra.
Nei lavori scientifici più recenti al termina di breakdown mentale si stanno sostituendo due altri termini: reazione al combattimento e reazione allo stress da combattimento. Con questa terminologia si intendono tutti quei disturbi mentali che si manifestano nel corso del combattimento o immediatamente dopo ad esso.
Entrando ora nelle dinamiche psicologiche che sono alla base del breakdown mentale e delle altre forme psicopatologiche, possiamo osservare che l’uomo, al pari di tutti gli altri animali, al pericolo ed alla minaccia reagisce con tre modalità: il combattimento (la lotta), l’evitamento (la fuga) o lo svenimento (l’inibizione e la simulazione della morte). Una volta passato il pericolo le reazioni tendono a scomparire e l’equilibrio psicologico e fisico della persona tornano alla normalità. Tuttavia se la situazione del pericolo o della minaccia dura a lungo, come nell’attesa del combattimento, l’organismo umano permane in uno stato di forte tensione e di allarme che impedisce il recupero del fisiologico equilibrio psicofisico e vengono ad instaurarsi delle patologie sia fisiche che psichiche.
Lo shock emotivo provocato dal combattimento è uno stress di intensità tale da provocare l’esaurimento delle capacità di reazione e di adattamento psicofisico da parte dell’organismo, compaiono quindi sintomi acuti che richiedono un immediato trattamento in quanto oltrepassano le capacità del singolo individuo di farvi fronte. La psicopatologia, dal breakdown iniziale al disturbo acuto da stress e successivamente al disturbo post-traumatico da stress, si viene a sviluppare in quattro fasi:
- nella prima fase, detta dello shock emotivo, che dura circa 5-7 giorni, compare una angoscia molto intensa e la somatizzazione di questa forte tensione conduce il soldato a bere ed urinare molto spesso, l’appetito viene perso, c’è molta sudorazione, il cibo viene rifiutato, c’è una istabilità vasomotoria con oscillazioni molto forti della pressione arteriosa, ed infine c’è un continuo tremore; il soldato non è in grado di eseguire gli ordini che gli vengono impartiti;
- nella seconda fase, che dura circa 2 settimane, permango le reazioni somatiche molto forti e compare un forte bisogno di attaccamento ad una figura protettiva, come il medico, l’infermiere, il commilitone amico, il comandante diretto; in questa fase il soldato è in grado di eseguire gli ordini che gli vengono impartiti;
- nella terza fase, che dura circa una settimana, iniziano a manifestarsi i sintomi del cosiddetto disadattamento (o di “esaurimento” delle risorse psicofisiche), per cui compare una forte astenia, una disappetenza continua e l’insonnia notturna (al pari dei depressi maggiori, il soldato dorme solo di giorno); ricompaiono i sintomi della paura ed evita qualsiasi esposizione a qualsiasi forma di minaccia; è facilmente irritabile ed ha continui scoppi d’ira;
- nella quarta fase, che inizia dopo 5 settimane di permanenza al fronte successivamente all’esposizione ad una trauma psichico, inizia la crisi vera e propria; il soldato inizia a sentirsi disperato, crede che verrà sicuramente ucciso o ferito, non riesce ad eseguire neanche gli ordini più semplici; le funzioni cognitive come l’attenzione, la concentrazione e la memoria sono profondamente alterate o disturbate; in questa fase il soldato può reagire in modo impulsivo a qualsiasi tipo di stimolo, come ad esempio iniziando a correre o verso il nemico o cercando di fuggire.
L’evoluzione psicopatologica del breakdown mentale non dipende dalla fragilità psicologica del soldato, bensì dall’intensità e dalla durata dell’esposizione allo stimolo stressante. Il tipo di personalità può condizionare la presenza e la manifestazione di alcuni tipi di sintomi (stato confusionale, sintomi da conversione, angoscia ossessioni, …), non della presenza o assenza della sindrome da stress. E’ chiaro che la presenza di una sintomatologia psichiatrica, anche nelle forme lievi, riduce o abolisce del tutto la loro capacità di combattimento.
Il soldato affetto da disturbi psichici va immediatamente trattato ed il trattamento deve osservare il rispetto di alcuni principi fondamentali, fra cui:
- il soldato affetto da disturbi psichici va trattato il più vicino possibile al luogo ove si è verificato il trauma psichico;
- i medici devono comportarsi pensando sempre che il paziente tornerà a combattere attivamente;
- i trattamenti devono prevedere, oltre alle terapie farmacologiche, anche procedimenti psicoterapeutici semplici o brevi, finalizzati a recuperare l’idoneità del soldato al combattimento.
(cannavicci@iol.it)
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I soldati americani
nelle guerre del XX secolo
Nella I Guerra Mondiale – nella Grande Guerra, secondo le statistiche del Pentagono, vennero uccisi 116.516 soldati americani, ne vennero feriti 204.002 e 106.000 furono ricoverati negli ospedali militari per un trattamento psichiatrico; di questi ultimi 69.394 (il 65.5%) furono dimessi perché non idonei alla guerra in quanto colpiti da breakdown mentale;
Nella II Guerra Mondiale – durante il secondo conflitto mondiale sono stati 1.393.000 i soldati americani che hanno manifestato problemi mentali che li hanno resi non idonei al combattimento diretto; il 37,5% di loro sviluppò problemi psichici così gravi da farli congedare dall’esercito; il 74% fu trattato per problemi mentali ma non riformato, tuttavia una significativa percentuale di loro ebbe delle ricadute psichiatriche dopo il ritorno in zona di combattimento; dalla prima alla seconda guerra mondiale le perdite per problemi psichiatrici passarono da 9 soldati su 100 a 36 soldati su 100;
Nella guerra di Corea – in questa guerra vennero uccisi 33.629 soldati americani, ne furono feriti 103.284 e 48.002 vennero trattati per problemi psichiatrici; il 17% dei soldati impegnati nel combattimento fu ucciso ed il 24% sviluppò un breakdown mentale; fu calcolato che un soldato aveva il 143% di possibilità di diventare un caso psichiatrico più che rimanere ucciso;
Nel Vietnam – il 16% dei soldati impiegati in combattimento fu ucciso ed il 12% fu congedato per problemi mentali; non esistono dati precisi sulla percentuale di soldati che soffrirono di disturbi post-traumatici da stress dopo la guerra in Vietnam, tuttavia si stimano dai 500.000 ai 1.500.000 casi; i sintomi dei disturbi mentali vennero riscontrati in almeno il 18% e forse anche fino al 54% dei membri delle forze americane impegnate in quella guerra;
Nella guerra dello Yom Kippur (1973) e nell’invasione del Libano (1982) – nella guerra dello yom Kippur il 30% delle perdite di Israele fu a causa dei disturbi mentali, mentre nell’invasione del Libano del 1982, le perdite di Israele dovute a problemi mentali superarono del 150% il numero dei soldati uccisi.
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