Legge Fini-Giovanardi
1. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria fotografa la percentuale di detenuti tossicodipendenti rispetto alla popolazione detenuta globale intorno al 30%. I dati forniti dal ministero dell’Interno a seguito dell’emanazione della legge 49/06 (più nota come legge Fini-Giovanardi) indicano un rilevante aumento delle segnalazioni all’Autorità giudiziaria e degli arresti per detenzione di cannabis nel periodo maggio-ottobre 2006 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In particolare, i dati forniti dal ministro della salute Livia Turco nella sua informativa sul decreto che ha aumentato le dosi detenibili per uso personale al di sopra della quale scatta la sanzione penale, dimostrano che sono aumentati del 10,1% gli arresti per possesso di hashish, mentre gli arresti per possesso di marijuana è aumentato addirittura del 63,9%, e per quelli in possesso di intere piantine di cannabis c’è stato un incremento del 17,85%.
A più di un anno dall’approvazione della legge e a dieci mesi dall’insediamento del governo l’Unione delle Camere Penali non può non stigmatizzarne l’immobilismo in tema di tossicodipendenza: da un lato la logica ideologica e punitiva della legge Fini-Giovanardi continua inspiegabilmente a dispiegare i suoi effetti criminogeni, dall’altro il timido tentativo di modifica delle tabelle sulle quantità delle sostanze ha subito un brusco arresto.
Da molti mesi giacciono poi in Parlamento varie proposte di legge per l’abrogazione della legge 49/06.
In questi mesi di vigenza della legge si è assistito ad un aumento massiccio di ingressi in carcere di consumatori di droghe leggere con effetti devastanti non solo per coloro che, anche se incensurati, sono stati arrestati e ristretti in carcere, ma anche per l’intero sistema.
Nella Commissione Affari Sociali è stata più volte rinviata la calendarizzazione della proposta di modifica della legge Fini-Giovanardi a firma Marco Boato. Il primo firmatario ha più volte citato le parole del programma della maggioranza dove si sosteneva la necessità di superare l’impostazione repressiva che la legge Fini-Giovanardi aveva dato alle politiche sulle tossicodipendenze ricordando le parole utilizzate nel programma dell’Unione che a proposito di droghe diceva “Educare, prevenire, curare, non incarcerare”.
2. Ora, assistiamo al paradosso che il ministro Mastella, mentre dichiara di non poter in alcun modo accogliere la riforma dell’ordinamento giudiziario auspicata dall’Unione Camere Penali Italiane perché, quella che doveva essere la bandiera delle riforme (la parola “abrogazione”, nel lungo e dettagliato programma della maggioranza è usata solo per la legge Fini-Giovanardi e per la legge sull’immigrazione), cioè la riforma epocale di inversione di rotta per le politiche sulle tossicodipendenze, da attuarsi nei primi 100 giorni di governo, è naufragata sotto l’egida della sentenza del Tar del Lazio che ha sospeso il decreto del Ministro della Salute che aveva osato innalzare da 500 milligrammi a 1 grammo la quantità massima di detenzione di cannabis oltre la quale scatterebbero le sanzioni penali.
L’Unione delle Camere Penali Italiane auspica che si arrivi al più presto e coerentemente con quanto proclamato nel programma di governo all’abrogazione della legge Fini-Giovanardi.
Diritti dei detenuti
1. E’ stato affermato che le teorie della giustizia sembrano costituite per mondi ideali ed ipotetici, se non del tutto fittizi.
Le norme in materia di detenzione sono uno dei tanti esempi di tale affermazione, in quanto, scritte da decenni, non trovano rara applicazione. Coloro che dovrebbero beneficiare di quanto in esse stabilito, i detenuti, sono considerati evidentemente soggetti che non meritano alcuna attenzione, nemmeno che venga, per loro, applicata la legge.
I detenuti, siano essi in attesa di giudizio - quindi presunti innocenti - siano essi stati condannati a pena definitiva, non sembrano considerati degni di tutela. Si scrivono regole con riferimento ai principi costituzionali, ben sapendo che esse non saranno rispettate, perché alcun finanziamento viene disposto.
2. L’Italia ha un Ordinamento ed un Regolamento Penitenziario che possono essere considerati un valido strumento per il rispetto della dignità della persona-detenuta. La loro parziale applicazione rende ancora più mortificante la vita dietro le sbarre e delude coloro che, pur liberi, continuano a credere che la legge vada sempre e comunque applicata.
La punizione per chi ha sbagliato deve consistere esclusivamente nella privazione della libertà (pena estrema, dolorosa e devastante), ma la dignità, la psiche, gli affetti, la salute, la speranza, devono continuare a vivere nell’essere umano, che non deve essere trasformato in un oggetto, ma deve continuare a meritare rispetto, a vedere tutelata la sua dignità, condizione necessaria affinché egli possa “vivere” e, forse, migliorare.
Le condizioni di vita dei detenuti
La pena deve essere certa ed è importante che tale principio sia rispettato, affinché si nutra fiducia nella giustizia. Ma divenuta “certa” essa deve essere anche “giusta”, cioè scontata con il rispetto delle norme in materia.
La lettura degli articoli dell’Ordinamento Penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354 - emanato 32 anni fà) e del Regolamento (D.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 - in vigore da circa 7 anni) sul “trattamento” all’interno degli istituti e confrontarli con la realtà, è sconcertante. Mai violazione di legge è stata così eclatante, così certa e da tutti conosciuta per tantissimi anni, senza un intervento concreto di chi avrebbe il dovere d’intervenire.
a) L’igiene non è considerata un bene primario. Circa il 90% dei detenuti non ha doccia nella propria cella. Sono effettuati dei turni, che in alcuni istituti sono settimanali. Circa il 70% non ha acqua calda in cella, mentre circa il 60% delle detenute non ha il bidet (fonte Antigone 2005). La toilette nelle celle, a volte, non ha separazione ed è composta da water e lavabo. La maggior parte dei detenuti cucina e mangia in cella, lavando e preparando gli alimenti nello stesso angusto spazio che serve da toilette. Gli alimenti vengono accatastati nelle stesse celle.
b) I rapporti con la famiglia sono sottetti a limitazioni che rendono disagevoli le relazioni tra gli internati e coloro che vengono a trovarli, alimentando un allontanamento fisico ed a volte affettivo. In più della metà degli istituti non sono consentiti colloqui in spazi all’aria aperta. La maggior parte dei colloqui (uno a settimana) avviene in enormi stanzoni, dove i detenuti parlano, o meglio urlano, ai familiari - posti dall’altro lato di un tavolo - i loro affetti e le loro esigenze, per un tempo che è di circa un’ora. La riservatezza è garantita dall’enorme frastuono.
c) Il settore sanitario penitenziario subisce continui tagli dei finanziamenti. I medici penitenziari, lo scorso mese di gennaio, hanno protestato davanti al carcere di Bologna contro la Finanziaria “che ha messo in ginocchio l’assistenza sanitaria ai detenuti”. Nel 2007 per le cure ai detenuti sono previsti 13 milioni di euro in meno a livello nazionale. Un taglio di quasi il 15% rispetto al 2006. Gli spazi pro-capite dovrebbero essere pari a 9 metri quadrati, ma i detenuti “vivono”, quasi sempre, “ristretti”, senza alcuna possibilità di poter effettuare movimenti significativi, in celle sovraffollate, con un’ora d’aria la mattina ed una il pomeriggio. Circostanza che genera evidenti patologie ed aggrava quelle esistenti. In alcune celle non è possibile accendere le luci dall’interno, in quanto gli interruttori sono situati solo all’esterno. La luce naturale, a volte, non è sufficiente in quanto vi sono schermature alle finestre. Nel 2005 sono stati 57 i detenuti che si sono tolti la vita. I suicidi nel carcere di Napoli-Secondigliano sono stati 11, in meno di sei mesi (fonte Antigone).
Il dott. Sebastiano Ardita - responsabile della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dap - dichiarando che “siamo consapevoli di versare in una situazione di grave, perdurante, quanto involontaria ed inevitabile divergenza dalle regole, per il fatto di non essere nella materiale possibilità di garantire a causa del sovraffollamento, quanto previsto dalle normative vigenti e dal recente Regolamento Penitenziario”, a propostio della salute dei detenuti, ha affermato che “non è solo un problema politico e neanche solo una questione tecnica o medico-legale. E’ molto di più. E’ il luogo privilegiato per valutare le politiche sociali di uno Stato. E’ una questione di politica criminale. E’ il banco di prova della pena costituzionalmente intesa” (fonte Ansa, 1° marzo 2006).
Gli strumenti di cui dispone
il “cittadino-detenuto”
per chiedere che vengano
rispettati i suoi diritti
1. L’art. 35 dell’Ordinamento Penitenziario e l’art. 75 del Regolamento prevedono il “Diritto al reclamo”. Il detenuto può rivolgere istanze orali o scritte, anche in busta chiusa, al direttore dell’istituto, al direttore del Dap, al ministero della Giustizia, al magistrato di sorveglianza, al Capo dello Stato.
L’art. 35 (Diritto di reclamo) e l’art. 69 (Funzioni e provvedimento del magistrato di sorveglianza) sono stati dalla Corte Costituzionale, con sentenza dell’8-11 febbraio 1999, n. 26, dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale. Scrive la Corte Costituzionale: “L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti... La restrizione della libertà personale, secondo la Costituzione vigente, non comporta dunque affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla sua esecuzione... Al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi ad un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale... Da tutto questo si trae che il reclamo di detenuti o internati, ancorché volto al magistrato, non si distingue da una semplice doglianza, in assenza di alcun potere dell’interessato di agire in un procedimento che ne consegua. Ciò che si presenta senza necessità di alcun’altra considerazione, contrario alla garanzia che la Costituzione prevede nel caso della violazione dei diritti... Pertanto, fondata essendo la questione di costituzionalità relativamente al difetto di garanzia giurisdizionale... non resta che dichiarare l’incostituzionalità della omissione e contestualmente chiamare il legislatore all’esercizio della funzione normativa che ad esso compete, in attuazione dei principi della Costituzione”.
2. A tutt’oggi - dopo 8 anni - la questione non è stata ancora affrontata ed il principio di umanizzazione della pena e del suo fine rieducativo continua a restare senza un’effettiva tutela. Difficilmente potrà realizzarsi, se non trova uno strumento giurisdizionale di controllo che ne assicuri l’effettiva realizzazione. L’impianto previsto dalle norme in vigore, infatti, così come evidenziato dalla Corte Costituzionale, non garantisce la doverosa censura che dovrebbe essere mossa alle attuali condizioni di vivibilità nelle carceri. La magistratura di sorveglianza che dovrebbe esercitare “la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti” (art. 69, comma 2), ed “approva, con decreto, il programma di trattamento di cui al terzo comma dell’art. 13, ovvero se ravvisa in esso elementi che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell’internato, lo restituisce, con osservazioni, al fine di una nuova formazione; approva, con decreto, il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno. Impartisce, inoltre, nel corso del trattamento, disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati o degli internati” (art. 69, comma 5), in realtà decide sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità, solo in occasione della trattazione delle misure alternative e non ha, di fatto, un potere d’incidenza diretta e comunque significativo sul trattamento penitenziario.
Come l’indulto abbia mutato
le condizioni di vita dei detenuti
1. La situazione di evidente ed innegabile degrado c’è da chiedersi se l’emanazione del recente indulto ha, in qualche modo, migliorato le condizioni di vivibilità negli istituti di pena.
I media sono stati solerti ad informare sugli effetti del provvedimento “fuori le mura”, caricando l’indulto di valenze negative, che vanno ben al di là della sua portata. Il provvedimento di clemenza è stato indicato, con titoli ad effetto, quale causa di una criminalità violenta, in realtà sempre esistita, ignorando del tutto se, a fronte di tante scarcerazioni, vi sia stato un reale e concreto beneficio nelle carceri.
La situazione purtroppo non è mutata. In più istituti, dopo l’indulto, sono stati chiusi dei reparti e i detenuti continuano a vivere come prima: 11, o 10, o 9 in una cella di pochi metri quadri, per 22 ore al giorno, con un unico stanzino per i bisogni corporali, che funge anche da cucina. La Polizia Penitenziaria, con lo sfollamento e la chiusura dei reparti, ha potuto diminuire i turni di lavoro. E’ necessario allora riflettere sulle altre, e non dette, ragioni che hanno giustificato l’emanazione dell’indulto: la possibilità di tagliare le spese e ridurre le ore del personale.
Benefici ve ne sono stati solo per chi ha riacquistato la libertà, ma i benefici reali per la popolazione detenuta sembrano davvero pochi. I detenuti continuano ad essere privati dei loro diritti e non si intravede - dopo 7 mesi dal provvedimento di clemenza - una politica giudiziaria che possa modificare questa situazione ed evitare un nuovo intollerabile sovraffollamento.
2. L’indulto, invece, può rappresentare un’occasione unica per modificare il sistema, con urgenti riforme del sistema penale e di quello penitenziario.
Fino ad ora non ci sono i presupposti perché avvenga un cambiamento in un settore giustizia dove non vi è il necessario per celebrare i processi, i detenuti sono l’ultima preoccupazione per i politici, i magistrati e, purtroppo, per la stessa opinione pubblica.
L’Unione delle Camere Penali intende occuparsi delle problematiche indicate affinché in tempi brevi vengano affrontate le riforme necessarie per la tutela dei diritti dei detenuti.
Le proposte
1. Le proposte più urgenti sono:
- l’immediato intervento legislativo per una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale, secondo quanto disposto, ormai da 8 anni dalla Corte Costituzionale;
- la modifica immediata di alcune sanzioni (tipologia e quantità) nel Codice penale;
- il miglioramento del servizio sanitario penitenziario;
- gli interventi strutturali negli istituti esistenti;
- la costruzione di nuovi spazi pensati a misura d’uomo;
- l’aumento del personale amministrativo;
- l’incremento di educatori e psicologi;
- l’applicazione concreta della legge Smuraglia del 2000;
- l’esclusione dal circuito carcerario dei bambini figli di madri detenute;
- l’istituzione di centri di accoglienza per le pene alternative degli extracomunitari;
- l’istituzione a livello nazionale della figura del “Garante dei Diritti dei Detenuti”.
2. La battaglia da combattere è politica, ma anche e soprattutto culturale, perché è necessario far comprendere all’opinione pubblica che una vera opera di prevenzione del crimine non può prescindere da una nuova visione del sistema carcerario e che il rispetto dei diritti civili passa anche attraverso il rispetto delle persone detenute.
I circuiti differenziati di pena
Art. 41-bis
1.In un momento storico in cui si dubita, a livello internazionale, della legittimità e correttezza di forme di detenzione differenziata finalizzate a contrastare la nuova emergenza del terrorismo internazionale, l’Ucpi ritiene di dover porre nuovamente con forza all’attenzione degli organi politici il problema dell’art. 41-bis l. Ord. Pen.
Dal 1992 numerosissimi detenuti (alcune migliaia) sono stati e sono attualmente sottoposti al regime detentivo speciale che allo Stato, con l’applicazione automatica che se ne fa, non sembra che trovare giustificazione (se mai l’ha avuta) in situazioni emergenziali di lotta alla criminalità organizzata, ma si concretizza in uno strumento di coercizione psicologica e meramente punitivo. Nel tempo, all’evoluzione normativa e giurisprudenziale in termini di riconquista di spazi minimi di dignità giuridica, si è contrapposto un indirizzo di politica giudiziaria, nell’applicazione del regime del “carcere duro”, che ha finito per condizionare l’autonomia giurisdizionale (si pensi alla sollevazione politico-mediatica contro la magistratura di sorveglianza in occasione di interpretazioni normative con le quali si erano annullati alcuni decreti applicativi del regime dell’art. 41-bis).
2. La nuova formulazione (intervenuta con la legge n. 279 del 2002) della norma ha introdotto un fondamentale ma trascurato passaggio, per il quale la sospensione del normale trattamento penitenziario è possibile (sempre quando ricorrano i gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica) “nei confronti di detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale terroristica o eversiva”. Evidente, allora, che tali elementi debbano “esservi” (e cioè risultare attualmente ed in positivo) e non possano in alcun modo essere presunti. La diversa opzione interpretativa sarebbe invece possibile a fronte di una disposizione di legge che consentisse o imponesse il particolare regime “...a meno che non vi siano elementi tali da far escludere la sussistenza di collegamenti...”.
3. E’ palese come le due differenti situazioni determinino una differente distribuzione dell’onere della prova dell’esistenza, ovvero dell’inesistenza, dei collegamenti in questione. L’interpretazione attuale, ormai purtroppo univoca, dei decreti applicativi è quella di essere inspirata alla pretesa “massima d’esperienza” per la quale il mafioso-camorrista rimane tale fino a prova contraria. Una tale prova diabolica non lascia spazio ad argomentazioni difensive che per arrivare a dimostrare la non “mafiosità” dell’assistito dovrebbero passare attraverso l’insussistenza stessa delle ipotesi delittuose che giustificano lo stato detentivo. Tutto ciò genera un autonatismo nell’applicazione dell’art. 41-bis che vanifica l’istituto del reclamo giurisdizionale. Ciò conduce, talvolta, a situazioni paradossali, che sono state segnalate, quali la conferma del regime del “carcere duro” in ragione della perdurante pericolosità di un soggetto nelle more scarcerato in virtù dell’indulto. Nessuna fiducia si può riporre in un vaglio giurisdizionale che non controlla neanche la posizione giuridica dell’istante. Nella situazione normativa attuale, quindi, anche il detenuto non gravato di gravissimi reati in contesti associativi, o magari con un unico procedimento a carico ancora nella fase delle indagini preliminari, che non effettua colloqui con i familiari, che ha la posta sottoposta a censura e per il quale non vi sono concreti sospetti in ordine ad un suo mantenimento di quei collegamenti che in alcuni casi non sono ancora dimostrati da sentenze passate in giudicato, anche per tale soggetto può essere richiesto e pedissequamente applicato il regime previsto dall’art. 41-bis.
4. Neli anni scorsi centinaia di detenuti sottoposti al regime speciale chiesero, tanto formalmente quanto inutilmente, che i colloqui fossero videoregistrati per verificarne il contenuto verbale e “mimico”, con rinuncia scritta ad ogni profilo di privacy (anche da parte del parente ammesso al colloquio, che firmava una “liberatoria” in tal senso). Considerato che la posta di tali detenuti è già interamente sottoposta a censura, la misura avrebbe consentito di azzerare qualsiasi rischio di indebite comunicazioni, consentendo colloqui in numero e con modalità ordinarie; forse proprio per questo, la richiesta non ha mai avuto seguito.
E’ dunque confermato che il regime differenziato è divenuto, nella prospettiva ministeriale, una normale modalità di detenzione e di espiazione della pena per certe categorie di detenuti, indipendentemente dalla reale sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive che ne autorizzano l’applicazione. Ed invero, formule quali l’esistenza di una “azione diffusa ed aggressiva della criminalità organizzata”, la necessità di non allentare la “pressione dello Stato sulle mafie”, o quella di fare in modo che soggetti i quali abbiano partecipato alle associazioni criminali in qualità di capi o di spietati killer “siano impediti dal porre in essere attività di direzione o comunque criminose”, non soddisfano in alcun modo l’esigenza, legislativamente prevista, che l’esistenza dei gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica sia accertata individualmente in capo a ciascuno dei detenuti sottoposti alla disciplina dall’art. 41-bis, comma 2, della l. 354/75, e non collettivamente su tutti costoro. In particolare, nessuno dei fatti esplicitati nei decreti ministeriali e riportati a mero titolo esemplificativo, è attribuito alla responsabilità personale dei soggetti attinti dal provvedimento di rigore.
5. Ulteriore profilo da evidenziare in termini di aberrazione giuridica è costituito dal procedimento che origina dall’annullamento con rinvio che viene incardinato avanti il Tribunale di Sorveglianza quando è ormai intervenuto il nuovo decreto ministeriale che reitera, con motivazioni identiche a quelle dell’anno precedente, il regime restrittivo. Ove il Tribunale ratifichi l’annullamento della Corte di Cassazione constatando l’insussistenza di legittimi motivi di propaganda, e conseguentemente stabilisca la disapplicazione del decreto ministeriale, tuttavia, il detenuto rimane ristretto in regime ex art. 41-bis O. P. in virtù del nuovo provvedimento ministeriale che dovrà essere autonomamente impugnato con esito incerto.
6. Appare chiaro che l’istituto della sospensione delle normali regole trattamentali all’interno dell’istituto di pena di cui all’art. 41-bis O. P., per mantenersi nei limiti imposti dalla Carta Costituzionale, deve rispondere a specifiche e determinate finalità indicate dalla legge, quali la salvaguardia di esigenze di ordine e di sicurezza, e deve essere rivolto ad impedire i collegamenti dello specifico soggetto con l’associazione criminale, terroristica o eversiva d’appartenenza. Allo stato, invece, è prevalsa la concezione di un sistema duramente punitivo, inadeguato ai fini che ufficialmente si propone, ed invece mirante unicamente a provocare la collabrazione del detenuto.
A questo riguardo giova segnalare quanto rilevato dal Comitato europeo per la prevenzione delle torture e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (organo del Consiglio d’Europa): “Considerato attentamente il sistema in questione, potrebbe anche ritenersi che un obiettivo non dichiarato del sistema è quello di porre in essere un mezzo di pressione psicologica al fine di provocare la dissociazione o la collaborazione. A tal riguardo, la Cpt prende nota con preoccupazione della dichiarazione delle Autorità italiane, fatta dall’Orgnizzazione delle Nazioni Unite: ‘Grazie a questa misura speciale, un numero crescente di detenuti ha deciso di cooperare con le Autorità giudiziarie fornendo indicazioni sulle organizzazioni criminali delle quali faceva parte’”. E’ quindi necessario ed urgente riportare il sistema a livelli di legalità accettabili, partendo - almeno - dalla immediata limitazione dei decreti applicativi o di proroga ai casi in cui sia concretamente emersa l’esistenza (o il tentativo) di contatti del detenuto con l’associazione criminale esterna, con il superamento di preconcettuali, indebite ed insuperabili “presunzioni” di segno opposto.
Su questi presupposti l’Ucpi ritiene ormai non più procrastinabile intervenire sull’argomento da un lato invitando gli organi ministeriali ad astenersi dalla redazione di decreti applicativi con motivazioni stereotipate e prive, quindi, di connotati individualizzanti e attuali, nel contempo spronando la magistratura di sorveglianza a riconquistare lo spazio di autonomia ed indipendenza nell’esercizio del potere giurisdizionale attenendosi ai criteri interpretativi più volte enunciati nelle sentenze della Corte Costituzionale e nei provvedimenti di annullamento della Corte di Cassazione.
Regimi differenziati di pena: E.I.V. ed alta sorveglianza
1. Parzialmente diverso è il discorso per gli alti regimi di pena differenziati che, se è vero che sono meno invasivi del 41-bis, sono però, allo stato, privi di tutela giurisdizionale.
In questo caso non vi è dubbio che sia un legittimo diritto dell’Amministrazione Penitenziaria quello di ritenere maggiormente pericolosi alcuni detenuti rispetto ad altri e quindi creare sezioni differenziate di pena. Del resto la creazione di tali sezioni si verifica regolarmente per i collaboratori di giustizia o per i reati sessuali e ciò è legato a fattori di gestione interna degli istituti penitenziari su cui l’Ucpi in assenza di accertate violazioni di diritti non intende entrare. Nel caso dell’Eiv e dell’As, però, sorgono due diverse problematiche create da un distorto utilizzo nella gestione di tali regimi differenziati di pena.
La prima è legata all’assenza per i condannati ivi ristretti di trattamento sul presupposto di una loro ipotetica pericolosità e quindi di un poco probabile reinserimento nella società usufruendo dei benefici penitenziari senza considerare che il giudizio di pericolosità al fine dell’accesso ai benefici è oggetto di valutazione del magistrato o del Tribunale di sorveglianza attraverso le informazioni acquisite dagli organi di Polizia preposti. La conseguenza è che per risparmiare tempo e lavoro, il più delle volte, si effettuano valutazioni superficiali di condannati condizionate negativaente dal titolo di reato, astrattamente considerato, e dal regime di pena differenziato che si riflettono sulle decisioni del magistrato o del Tribunale di sorveglianza.
2. La seconda è strettamente legata alla prima e riguarda l’assenza di un minimo controllo giurisdizionale in materia. Si sostiene che l’allocazione in un reparto differenziato di pena quale l’Eiv o l’As non comporterebbe una violazione di diritti soggettivi da parte del detenuto sul presupposto della possibilità per lo stesso di essere sottoposto a trattamento penitenziario comunque, con l’unico limite del contatto con i detenuti cosiddetti comuni. Premesso che per ciò che è stato evidenziato sopra la circostanza non trova riscontro nella realtà, l’assenza di un controllo giurisdizionale in materia ha portato ad un’applicazione generalizzata soprattutto del regime detentivo dell’alta sorveglianza nei confronti di tutti coloro per i quali il titolo di reato lo prevede senza possibilità di declassificazione neanche quando la condanna che giustificava lo stesso è risultata interamente espiata.
La recente emanazione di circolari ministeriali sul punto ha riportato la competenza a decidere sulle richieste di declassificazione al Dap limitando il potere delle direzioni degli istituti di pena all’istruttoria nella quale è previsto il parere vincolante degli organi centrali di Polizia sulla richiesta del detenuto.
La conseguenza di ciò è facilmente immaginabile per chi ha un minimo di esperieza: l’istituto della declassificazione è di fatto abolito con l’introduzione del parere vincolante degli organi di Polizia a meno di non ritenere gli stessi capaci di obiettività nelle loro risposte e quindi andare in sostanza contro natura.
3. Più raro nella sua applicazione e quindi difficilmente inquadrabile è l’altro regime differenziato di pena: l’Eiv (Elevato indice di Vigilanza). Per lo stesso valgono ovviamente tutte le considerazioni fatte sopra, con l’unica riflessione ulteriore che tale regime per la sua peculiare natura intermedia tra il 41-bis e l’As sembra destinato a detenuti che in qualche modo hanno creato problemi nella loro gestione all’Amministrazione Penitenziaria ma non hanno i requisiti giuridici perché venga loro applicato il 41-bis.
Proprio in materia di Eiv si deve segnalare un’interessante sentenza della Corte Europea che ha condannato l’Italia in quanto non prevede una forma di ricorso giurisdizionale avverso l’applicazione del regime differenziato di pena.
In tale complessivo contesto l’Ucpi intende promuovere iniziative, dibattiti, convegni, al fine di incentrare sul pianeta carcere tutta l’attenzione necessaria ad aprire una stagione di riforme a tutela dei diritti dei detenuti.
NELLA FOTO: da sinistra, Massimo Pineschi e Antonio Fiorella
foto di Federico Adinolfi
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