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Agosto-Settembre/2007 - Articoli e Inchieste
Istituti di pena
Carcere extrema ratio - Nuovo Diritto penale
di Angiolo Marroni - Garante dei diritti dei detenuti del Lazio

Relazione del Convegno del 10 luglio 2007
di Angiolo Marroni, Garante dei Diritti
dei Detenuti della Regione Lazio


In via preliminare sento il dovere di ringraziare la Presidenza del Consiglio Regionale ed il suo presidente avv. Pineschi per la collaborazione offerta in particolare dagli Uffici del Consiglio.
Il mio ufficio ha voluto fortemente la realizzazione del presente convegno per poter fornire un importante contributo al comune sforzo di giuristi, magistrati, avvocati, operatori penitenziari e forze politiche alla realizzazione di un nuovo diritto penale, più adeguato ai nostri tempi e alle esigenze di una società ormai profondamente diversa da quella del 1930.
Nel corso degli anni numerosi sono stati i lavori portati avanti da varie commissioni di studio, al fine di ipotizzare una riforma dell’ormai desueto Codice penale Rocco del 1930.
L’attuale Codice nel corso degli anni è stato, soprattutto nella sua parte speciale, profondamente modificato ed in alcuni tratti stravolto da numerose normative successive, che hanno introdotto nuove e diverse fattispecie punitive (si pensi solo alla legge fallimentare, oggi in corso di revisione, e a tutti i reati in materia ambientale). Tutto questo ha ovviamente modificato, di pari passo con l’evoluzione della società, la percezione delle condotte criminali ritenute meritevoli di essere perseguite dal diritto penale.
A questo sforzo, profuso nel corso di tutta la storia repubblicana, non ha seguito un analogo impegno nel campo del trattamento sanzionatorio. Aldilà di una lunga serie di tentativi, la pena principale è ed è sempre stata solo e soltanto il carcere, la detenzione, anche per condotte che sarebbero state meglio sanzionate con forme diverse dalla mera reclusione. Questo ha prodotto l’unico risultato di riempire le carceri di persone che spesso non avrebbero dovuto esserci, perché espressione di una marginalità sociale che preferiamo non vedere e quindi rinchiuse in luoghi lontani da noi e dalla nostra vita quotidiana.
La gran parte della popolazione detenuta è composta di tossicodipendenti, immigrati e portatori di disagio psichico, per i quali spesso la marginalità e le difficoltà economiche sono la principale causa della scelta di delinquere.
Soprattutto per queste categorie la pura detenzione probabilmente non è la soluzione giusta. Andrebbero immaginate nuove forme di sanzioni, dal lavoro di pubblica utilità alla “probation” intesa alla fase del giudizio, che consentano di meglio modellare il nostro sistema penale ai principi costituzionali, primo fra tutti quello dell’articolo 27 secondo cui le pene debbono essere dirette anche alla rieducazione del condannato.
A tal proposito va certamente nella giusta direzione il progetto, contenuto nel disegno di legge Mastella, di estendere l’affidamento in prova alla fase del giudizio, sul modello di quanto già previsto nella giustizia minorile. Tuttavia una tale intenzione rischia di essere totalmente vanificata dallo strettissimo ambito applicativo a cui essa è rivolta. E’ previsto infatti che a tale misura possano ricorrere soltanto coloro che sono imputati di reati per i quali è prevista una pena edittale non superiore nel massimo a due anni. E’ evidente che un tale ristretto ambito di applicazione porterebbe ad una sua sostanziale inutilità. Un risultato migliore lo si potrebbe ottenere se solo si prevedesse che il limite dei due anni andasse parametrato sulla pena in concreto da applicare e non invece sul massimo edittale. Questo comporterebbe certamente un ampliamento delle fattispecie di reato ricompresse nella misura, anche se i risultati resterebbero comunque piuttosto limitati, in quanto coincidenti con il limite oggi previsto per la sospensione condizionale della pena. Nel diritto minorile, invece, un limite di questo tipo non è previsto dall’art. 28 del D.p.r. 448/1988.
Questioni analoghe solleva il protocollo siglato tra Comune e Tribunale di Roma per la destinazione a lavoro di pubblica utilità ex art. 54 d.lgs 274/2000 (per i reati di competenza del giudice di pace). La evidente importanza di una misura di questo tipo rischia di essere limitata nella sua efficacia dalla ristrettezza dell’ambito di applicazione di tale istituto a reati di minore importanza.
E’ dunque necessaria una significativa fase di innovazione anche nel campo del diritto punitivo.
Per queste ragioni il principale destinatario del convegno è la Commissione Pisapia, che ha il compito di redigere un testo per un nuovo Codice penale, che risponda alle esigenze appena delineate. Il progetto, appena varato nella sua parte generale e attualmente all’esame dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, si muove verso la giusta direzione con l’abolizione dell’ergastolo, ma deve fare di più.
Occorre anzitutto estendere il campo di azione alla parte speciale del Codice, rimodulando completamente il tariffario penale, sulla base di nuove e diverse sanzioni previste nella parte generale. Il nostro sforzo vuole essere proprio in questa direzione, nel suggerire agli estensori del Codice e ovviamente a tutti gli operatori e a coloro che poi dovranno valutarne il valore, possibili innovazioni ed integrazioni.
Oggi vogliamo soprattutto offrire un luogo di incontro tra tecnici del settore che, discutendo tra di loro e mettendo a frutto le diverse esperienze di ciascuno, possano per questo fornire un utile spunto di riflessione sul tema delle pene alternative.
E’ per questo che tra i relatori non vi sono esponenti politici: perché la nostra intenzione è appunto quella di parlare alla classe politica, di fornire dei suggerimenti al Ministro, ai Sottosegretari, al Parlamento e a tutti coloro che saranno chiamati a valutare il progetto. Della mancanza di uno spazio per le relazioni politiche ci scusiamo, ma abbiamo ritenuto che questo modello del “simposio” tecnico fosse più efficace ed utile proprio per la dirigenza politica e per le decisioni che i nostri governanti saranno chiamati a prendere.

Il carcere extrema ratio
E’ sempre sulla base di questa idea di incontro tra addetti ai lavori che non abbiamo voluto dare un orientamento preciso alle relazioni, che saranno tra di loro autonome. Nella scelta dei relatori abbiamo infatti cercato di coinvolgere le voci degli esperti del settore: magistrati, operanti sia nella fase del giudizio che in quella dell’esecuzione, avvocati, professori universitari, rappresentanti degli uffici preposti all’esecuzione penale esterna.
Abbiamo poi cercato di fornire degli spunti di riflessione su possibili soluzioni alternative ed in quest’ottica abbiamo suggerito due possibili modelli cui ispirarsi: la giustizia minorile in Italia e la legislazione degli altri Paesi europei. A tal fine le relative relazioni saranno molto utili e potranno rappresentare un elemento di profonda riflessione e di spunto per una proficua discussione.
E’ evidente però che tutti i relatori muovono comunque da un unico punto di partenza che è quello di un modello di Diritto penale in cui il carcere non debba essere l’unica soluzione e che cerca di ipotizzare dei nuovi modelli di punizione.
L’idea del Garante è proprio quella di immaginare un sistema penale dove non soltanto vi sia meno carcere, inteso nel senso di ridurre al minimo la detenzione, ma che consenta di parlare di un nuovo carcere per chi comunque dovrà subire, anche nel futuro da noi prospettato, una detenzione nella metodologia ordinaria.
Tanto per rendere chiaro il nostro modello di detenzione, appare adeguato in questa sede ribadire la mia personale contrarietà alla pena dell’ergastolo ed al regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario.
Per il primo la recente mobilitazione di numerosi ergastolani, che si sono rivolti direttamente al Capo dello Stato, ha reso più nota al pubblico la situazione di centinaia di persone condannate ad una pena che, oltre a prevedere delle restrizioni trattamentali tali da rendere quasi impossibile un cammino riabilitativo proficuo, entra in pesante conflitto con i principi costituzionali di rieducazione della pena.
Il susseguirsi di numerose normative, spesso frutto di reazioni a casi di cronaca particolarmente efferati, ha fatto sì che quasi tutti i reati puniti con l’ergastolo comportino l’esclusione dai benefici trattamentali previsti dall’ordinamento penitenziario, con la conseguenza di rendere la detenzione esclusivamente un momento di retribuzione pura, con assoluta esclusione di ogni elemento rieducativo.
Allo stesso modo l’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, impone una nuova riflessione. La sua trasformazione ad opera della legge 279/2002 da misura eccezionale e transitoria a definitiva, ha sollevato particolari perplessità circa la legittimità di tale normativa, che fa prevalere in maniera pressoché assoluta le esigenze di sicurezza su quelle trattamentali.
La stessa Corte Costituzionale ed il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa, pur non dichiarandone apertamente la legittimità, hanno più volte sollevato dubbie perplessità circa questa misura, che comporta delle fortissime restrizioni sia per quanto riguarda l’accesso alle misure alternative, sia in relazione alle modalità di esecuzione della detenzione.

Il falso contrasto tra sicurezza e reinserimento
Generalizzando però queste osservazioni e cercando di trarre da esse un comune denominatore, dobbiamo giungere alla questione centrale, che probabilmente sta dietro a questa ritrosia verso l’aumento del numero delle misure alternative alla detenzione e che giustifica la conservazione di sanzioni come quelle appena delineate. Vi è una diffusissima concezione secondo cui vi sarebbe una sorta di conflitto insanabile tra sicurezza e reinserimento, tra emenda e retribuzione. Vi è l’idea che la sanzione detentiva sia l’unico tipo di pena veramente afflittiva e che le misure alternative siano in realtà solo degli sconti e delle forme di lassismo, rivolte a chi si è macchiato anche di gravi reati.
Si ritiene in buona sostanza che uno Stato che voglia far rispettare le sue leggi ed il principio di legalità e che voglia effettivamente garantire la sicurezza dei propri cittadini, non può prescindere da sanzioni dure, esclusivamente di tipo detentivo e senza possibilità alcuna di conclusione anticipata della pena. Questo modo di pensare è spesso sintetizzato nel binomio, spesso ambiguamente ed erroneamente associato, tra principio di legalità e certezza della pena.
In quest’ottica s’inserisce la feroce polemica contro l’approvazione del recente indulto e le continue polemiche anche sull’abolizione dell’ergastolo, prevista proprio dalla Commissione presieduta dall’on. Pisapia.
So bene che in questa sede, affollata di tecnici del settore che vivono quotidianamente il mondo del carcere, questa tesi può trovare opposti sostenitori, ed è quindi il caso di dire qual è la realtà dei dati che il carcere ci offre.
Possiamo dire, senza timore di essere smentiti, che non è affatto vero che tanto maggiore è il ricorso a forme premiali e a quelli che vengono definiti “sconti di pena” tanto più elevata sarà l’insicurezza dei cittadini legata all’aumento del numero dei reati. Si può anzi affermare che è vero l’esatto contrario e che cioè più è elevato il ricorso alle misure alternative, maggiore è la probabilità che i destinatari di tali benefici non commettano di nuovo reati. Anche questo argomento sarà affrontato dai relatori e quindi non entrerò troppo nei dettagli. E’ qui sufficiente ricordare che il tasso di recidiva è infinitamente più basso tra i beneficiari di misure alternative e premiali che non tra coloro che hanno trascorso integralmente la loro pena nella forma tradizionale della detenzione.
Allo stesso modo è altrettanto inesatto affermare che l’approvazione dell’indulto avrebbe significativamente aumentato il numero dei reati commessi. I dati, anzi, dimostrano l’esatto contrario e cioè che chi ha beneficiato dell’indulto, è incorso nella recidiva in un numero minore di casi. Mentre infatti il tasso medio di recidiva è pari al 68% dei casi, il numero di coloro che sono rientrati in carcere dopo l’indulto è pari al 12% dei casi, mentre la recidiva tra coloro che hanno beneficiato di misure alternative alla detenzione è pari al 19%.
Se questi sono i dati si può affermare che se vogliamo effettivamente ridurre il numero dei reati e favorire una maggiore sicurezza non occorre diminuire il ricorso alle misure alternative, ma al contrario aumentarlo sensibilmente.
Non vi è dubbio che tra sicurezza e rieducazione non vi sia conflitto ma anzi una stretta correlazione, perché è evidente a tutti che se il processo rieducativo e riabilitativo è svolto con successo vi saranno minori possibilità di recidive. Così come è assolutamente falso e infondato il concetto dell’incompatibilità tra funzione retributiva della pena e funzione rieducativa. Non vi è chi non capisca infatti che una sanzione per un male prodotto ha senso solo se giusta e immediata nel tempo. Nel nostro Diritto penale, invece, per una goffa reazione alla pressione dell’opinione pubblica - spesso deviata da sbagliate campagne politiche e di stampa - vi è stato uno spropositato aumento delle pene detentive, oggi attestate su livelli altissimi.
Solo per fare un esempio basti pensare alla recente riforma in materia di tossicodipendenza e al significativo aumento di pena prevista per il reato di cui all’art. 73 D.p.r. 309/90.
La pena base per lo spaccio di sostanze stupefacenti si attesta infatti su di un livello altissimo, che va da un minimo di 6 ad un massimo di 20 anni di reclusione (salvo i casi di lieve entità). E’ evidente l’assoluta sproporzione di una pena di questo genere - che non è nemmeno destinata ad associazioni criminali volte allo spaccio - per le quali è previsto uno specifico titolo di reato - e che ad esempio punisce in modo più grave tale condotta che un sequestro di persona o la violenza sessuale.
Queste pene assai dure vengono poi irrogate a distanza di moltissimi anni dal momento della commissione del fatto, con la conseguenza di essere percepite non più come una giusta punizione per un errore commesso, ma come una forma di irrazionale vendetta da parte di uno Stato che non è in grado di garantire un processo in tempi ragionevoli. Interessanti in questo senso sono anche le proposte che verranno illustrate relative ad un’anticipazione delle pene alternative alla fase del giudizio.
In buona sostanza occorre, per riformare effettivamente il nostro sistema sanzionatorio, tornare al titolo dell’attuale convegno: il carcere deve essere una extrema ratio da riservare solo ad alcune condotte meritevoli di punizione.
Importanti sono state in questo senso le parole del Presidente della Repubblica, pronunciate nella sua recente visita al carcere di Rebibbia. In quell’occasione il presidente Napolitano affermò che la pena detentiva andava riservata ai soli reati che destavano maggiore allarme sociale. E’ però importante chiarire cosa s’intende per allarme sociale.
Se si fa riferimento a reati indicativi di una pericolosità sociale talmente elevata da non consentire il ricorso a misure alternative (come ad esempio per l’omicidio, il sequestro di persona, l’associazione a delinquere di stampo mafioso, la violenza sessuale e quant’altro) siamo certamente d’accordo. Diverso sarebbe se invece per sicurezza sociale si volesse intendere anche tutti quei piccoli reati come i furti o gli scippi che creano il maggiore timore nella popolazione.
Anche su questo sarà opportuno chiarirsi e questa potrebbe essere la giusta occasione.

Una nuova idea di carcere
Il carcere dunque, così come oggi è concepito, non garantisce nessuno. Le vittime del reato si sentono abbandonate dallo Stato a causa di una scarsa attenzione loro riservata, sia durante il processo che nella fase dell’esecuzione; il comune cittadino vede aumentare il proprio senso di insicurezza, e il detenuto spesso si sente abbandonato al proprio destino in carcere, vedendo aumentare le proprie difficoltà ed il proprio disagio.
C’è quindi bisogno urgente di una radicale rivisitazione del sistema penitenziario. Occorre far diventare il carcere un luogo dove poter svolgere tutte quelle attività di recupero e reinserimento sociale del detenuto, essenziali per il successo dell’intero nostro sistema punitivo, attraverso un radicale cambiamento di impostazione che ponga al centro la persona del detenuto.
Solo così infatti la detenzione potrà trasformarsi in un’occasione per poter avviare un processo di reale riesame critico della propria condotta, che consenta di evitare nuove recidive. Occorre poi sfatare il mito della certezza della pena che, ben lungi dal garantire la sicurezza dei cittadini, non fa altro che acuire le problematiche tipiche del nostro sistema penale. La pena deve diventare l’occasione per l’avviamento di un processo trattamentale. Non si dovrà più parlare di pene certe, se non nella loro durata massima, per ovvie ragioni di garanzia del detenuto. La effettiva durata della pena deve invece essere correlata ad un progetto di reinserimento, e deve andare di pari passo con i progressi fatti nel trattamento.
Il ricorso a forme alternative alla detenzione deve diventare quindi sempre più massiccio, per consentire quel graduale reinserimento in libertà che aiuta il detenuto e favorisce il suo recupero.
Importante è anche cercare di coinvolgere le vittime del reato di nuovi modelli di giustizia riparativa, in cui la pena sia maggiormente calibrata e modellata sul tipo di condotta posta in essere. L’esperienza europea della mediazione penale potrebbe essere un utile strumento cui fare riferimento.
Questo massiccio ricorso a forme alternative alla detenzione consentirebbe inoltre di liberare numerosi spazi all’interno degli istituti penitenziari, per effetto della naturale riduzione della popolazione detenuta. Questo avrebbe la ovvia conseguenza di veder migliorate le condizioni di vita di chi si trova a dover scontare la pena tradizionale della detenzione. Le strutture, infatti, non più sovraffollate, potrebbero essere adeguate e adattate alle esigenze trattamentali, oggi purtroppo molto spesso sacrificate per problemi di sovraffollamento. Gli operatori penitenziari, da parte loro, si troverebbero a dover seguire un numero minore di detenuti, con evidenti maggiori possibilità di poter fronteggiare in maniera più adeguata ed efficace le numerose situazioni di disagio ancora presenti.
Un parallelo processo di massiccia depenalizzazione, consentirebbe poi di far uscire dal carcere tutte quelle forme di disagio che, lungi dall’essere espressive di una volontà criminale, sono frutto di una situazione di esclusione sociale e di marginalità, che andrebbero affrontate con forme più adeguate rispetto alla pura detenzione.
Un carcere liberato dalla impropria funzione oggi attribuitale di contenitore di tutte le forme di disagio sociale, potrebbe infatti divenire un luogo dove effettivamente si pongono in essere tutte quelle forme di rieducazione e riabilitazione che gli vengono attribuite dalla nostra Carta costituzionale.
La riduzione del numero dei detenuti consentirebbe poi di affrontare con minori difficoltà il problema della salute in carcere, con un passaggio alla gestione delle Regioni meno difficoltoso. Al riguardo molto importante è l’esempio fornito dalla Regione Lazio che con la recente approvazione della legge Nieri ha posto un altro importante tassello in questa direzione.

La volontà politica
E’ ovvio però che un modello così costruito, per essere adottato, ha bisogno di un forte sostegno da parte delle forze politiche, che certamente non possono immaginare che un lavoro di queste dimensioni possa essere svolto senza risorse adeguate.
Molte sono le difficoltà in cui ancora oggi versano sia gli istituti penitenziari che gli uffici di esecuzione penale esterna; le carceri sono ancora strutturalmente inadeguate e necessitano quindi di maggiori risorse e di un impegno significativo. Occorrerà inoltre potenziare di molto le dotazioni ed il personale destinato all’esecuzione penale esterna, che vedrà significativamente aumetare il numero dei soggetti a loro affidati e che dovrà sempre più diventare il vero centro del sistema penitenziario.
Già oggi infatti, molte sono le difficoltà degli operatori degli uffici di esecuzione penale esterna, sobbarcati di una mole di lavoro enorme che non consente loro di svolgere i propri compiti nel migliore dei modi. Se poi dovessero essere seguite le proposte che noi oggi qui sosteniamo, è evidente che il sistema dell’esecuzione penale ne risulterebbe profondamente modificato nella sua stessa natura.
Gli uffici di esecuzione penale esterna, infatti, diverrebbero il primo ed il principale punto di riferimento per un numero sempre maggiore di condannati. Un tale cambiamento dovrebbe inevitabilmente comportare un adeguamento delle strutture esistenti, che dovranno essere in condizione di affrontare compiti nuovi, legati alle diverse misure che noi oggi immaginiamo e che al momento non sarebbero in grado di sostenere, data la carenza di risorse messe a loro disposizione.
In funzione poi di quali e quante misure alternative dovessero essere ipotizzate nel nuovo sistema penitenziario, si dovrebbe valutare anche la necessità di inserire nuove e diverse professionalità anche all’interno di questa rinnovata struttura. Allo stesso modo occorrerà coinvolgere anche tutti gli Enti locali e la società civile.
E’ evidente infatti che la creazione di nuove pene e misure alternative - tutte incentrate sulla riduzione delle ipotesi di ricorso alle pene detentive - richiederà uno sforzo aggiuntivo da parte di tutte le Istituzioni che operano sul territorio. Il prevedibile aumento del ricorso a pene quali il lavoro di pubblica utilità, la detenzione domiciliare, la mediazione penale, l’ampliamento del ricorso all’affidamento in prova, comporterebbe con ogni evidenza un ulteriore significativo sforzo delle Istituzioni territoriali, dai Comuni alle Province alle Regioni, che dovranno offrire occasioni di svolgimento del lavoro di pubblica utilità e seguire il condannato in tutte le fasi dell’esecuzione penale.
E’ ovvio infatti che i condannati non più detenuti saranno portatori di nuove e aumentate esigenze, quali la casa, il lavoro e i servizi sociali in genere, i cui naturali destinatari sono proprio gli Enti locali, istituzionalmente deputati ad assolvere a queste primarie esigenze di ogni cittadino.
La società civile, da parte sua, allo stesso modo dovrà offrire occasioni per il successo di questa riforma. Le cooperative sociali che impiegano detenuti dovrebbero aumentare in numero ed estendere sempre di più la loro presenza sul territorio; le associazioni dovrebbero parallelamente incrementare il loro ambito di attività e probabilmente adeguare le loro strutture ad un sistema punitivo non più integralmente incentrato sulla detenzione e sul carcere. In altri termini anche l’associazionismo dovrebbe, assieme ai detenuti, uscire dal carcere e spostare le proprie attività nel nuovo mondo dell’esecuzione penale esterna.
In conclusione, possiamo certamente affermare che un cambio radicale nel modo di concepire la sanzione penale e la punizione rappresenta un’occasione preziosa per tutta la società, dai detenuti, ai comuni cittadini, agli operatori, alle stesse Istituzioni, ma è altrettanto ovvio che se si vuole avere successo è indispensabile che tutti noi siamo convinti della bontà e della giustezza di questo modello e che quindi vi sia uno sforzo comune di radicale innovazione, che ci consenta effettivamente di parlare di nuovo Diritto penale e di nuova pena.
E’ ovvio che di tale sforzo dovranno farsi promotori per primi la Commissione Pisapia e - soprattutto - il governo ed il Parlamento. Non potremmo infatti accettare che anche i pregevoli lavori di questa Commissione, come purtroppo tutte quelle che l’hanno preceduta, restino bloccate nelle aule parlamentari senza portare ad alcun risultato concreto. Occorrerà quindi molto coraggio e volontà politica per superare le comprensibili difficoltà connaturate alla rilevanza ed al valore di una così radicale riforma di uno dei cardini di ogni società moderna, qual è il diritto penale.

NELLA FOTO: ANGIOLO MARRONI E, SINISTRA DONATELLA CAPONETTI

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