Nei nuovi teatri operativi il militare
si trova spesso ad affrontare situazioni
atipiche, di fronte a un “nemico” anch’esso
atipico, che non rispetta regole
di ingaggio: questo può produrre reazioni
impulsive, e comportamenti irrazionali
con effetti psicologici profondi e duraturi
La psicologia militare è una disciplina relativamente nuova. Le sue attuali conoscenze hanno preso l’avvio con la guerra del Vietnam e la recente esperienza americana nei teatri dell’Iraq e dell’Afghanistan non fa che confermare quanto sia già stato in precedenza osservato e registrato. Il compito principale della psicologia militare è di occuparsi del benessere emotivo e psicologico dei soldati impegnati nelle operazioni militari. L’obiettivo è di ridurre il più possibile gli effetti dello stress acuto da combattimento ed evitare che questo si trasformi in un cronico e permanente disturbo post-traumatico da stress. Per scongiurare questa progressione è necessario che lo psicologo militare intervenga prima possibile, subito dopo l’esposizione allo stress acuto, e per fare questo deve trovarsi a ridosso delle linee di combattimento o di conflitto ed intervenire il più vicino al luogo di esposizione allo stress acuto. Le numerose fotografie scattate nei vari contesti bellici del XX secolo ci hanno sempre mostrato militari o civili con delle lesioni fisiche e noi in genere siamo portati ad associare alle lesioni da guerra delle ferite sanguinanti. Tuttavia ci sono delle lesioni ben più invalidanti e devastanti delle ferite fisiche e che riguardano gli effetti sulla mente, sulla personalità, sul benessere psicologico e sull’identità personale che vengono ad essere compromessi per sempre.
Gli effetti psicologici del combattimento si possono vedere già nell’immediatezza dello stress acuto attraverso una modificazione brusca della personalità del militare, una modificazione delle relazioni con i commilitoni e con la comparsa di comportamenti anomali e particolarmente aggressivi con la popolazione civile inerme. Nella prima Guerra Mondiale, la Grande Guerra, la neonata branca della psicopatologia ancora non riusciva a comprendere le reazioni psicotiche, isteriche, di inibizione psicomotoria o di fuga davanti al nemico o al momento dell’assalto alla baionetta. Non comprendendo la radice psicologica di tali comportamenti, l’inquadramento che veniva fatto da parte degli ufficiali d’arma era di “codardia” di fronte al nemico, per cui le conseguenze erano il Tribunale militare e la fucilazione. Sigmund Freud ebbe in cura alcuni di questi soldati austriaci, gli sconfitti della Grande Guerra, e dalla loro osservazione è scaturito il primo concetto di “nevrosi da guerra” che si è successivamente sviluppato fino all’attuale “combat stress” degli autori americani.
Secondo gli psichiatri militari americani il “combat stress” insorge quando la situazione che si viene a creare nel teatro delle operazioni impone al militare di modificare il proprio comportamento ed il nuovo comportamento impone delle ulteriori modificazioni adattative cognitive (del suo pensiero), fisiologiche (del suo corpo) ed emotive (della sua affettività). Ogni militare in linea di massima viene selezionato, addestrato e formato per affrontare queste situazioni e rispondere a questa esigenza. Tuttavia i teatri operativi degli ultimi decenni non espongono il militare a situazioni prevedibili, tipici del combattimento classico con altri militari e secondo delle specifiche “regole di ingaggio”. I nuovi teatri operativi lo espongono a situazioni atipiche, imprevedibili, e ad un combattimento con un nemico atipico, che spesso non indossa alcuna divisa e che non rispetta alcuna regola di ingaggio conosciuta. Il militare impegnato in questi contesti non utilizza quindi gli insegnamenti del proprio addestramento e non affronta situazioni attese. Affronta situazioni imprevedibili, nuove, improvvise e, soprattutto, “non attese”. Il fatto di essere in una situazione “non attesa” non permette al militare di elaborarla cognitivamente (con il suo pensiero) in tempo ed in modo utile. Il militare si trova a vivere una situazione di forte impatto emotivo, con paura, terrore e marcato stress, senza avere alcuna possibilità di poterla elaborare, comprendere, e quindi senza poter rispondere in modo adeguato. In genere le risposte che vengono fornite in queste circostanze spaziano dall’immobilismo per inibizione psicomotoria fino alla fuga improvvisa ed irrefrenabile, passando attraverso reazioni impulsive dette a “corto circuito” in cui la mente “scarica” improvvisamente una reazione comportamentale che sfugge a qualsiasi forma di controllo, di consapevolezza e quindi senza la possibilità di essere ricordata. Il militare quindi può bloccarsi, rimanendo imbambolato, oppure può sparare in modo compulsivo verso tutto ciò che lo circonda oppure può scappare in modo irrazionale ed in preda al panico.
Se il militare sopravvive non avrà un chiaro ricordo cosciente di quanto è accaduto, però la sua mente ha registrato in un unico ricordo la paura, il panico, l’angoscia, la fuga, la morte, il sangue, il terrore, … e tutto quello che la sua mente avrà registrato tornerà più e più volte a materializzarsi davanti ai suoi occhi in modo improvviso, inaspettato, terrifico, sia di giorno che di notte, spingendo la sua mente verso la depressione, l’alcol, la violenza, le droghe, il suicidio. Il quadro clinico che si viene a concretizzare si chiama appunto “disturbo post traumatico da stress” ed è una condizione irreversibile, permanente, invalidante che accompagnerà il reduce per il resto della sua vita.
Il passaggio fondamentale quindi tra il “combat stress”, la risposta acuta, ed il “disturbo post traumatico da stress”, la risposta cronica, è l’attesa o la non attesa dell’evento stressante. Se l’evento è atteso la mente lo sa gestire, lo sa razionalizzare, lo sa condurre fino alla fine e se anche per affrontare tutto questo il livello di stress è comunque altissimo, il fatto di averlo gestito e condotto ad un termine lascia la mente con un senso compiuto di efficienza, di soddisfazione e di autorealizzazione che accresce l’autostima e l’efficacia del militare. A parità di evento traumatizzate, in un gruppo di militari si avrà che qualcuno, avendolo affrontato in situazione di attesa, ne uscirà con un senso di efficienza aumentato, mentre qualcun altro, avendolo affrontato in situazione di non-attesa, ne uscirà con un senso prolungato di paura e di terrore che lo porterà ad ammalarsi psicologicamente e fisicamente.
Lo stress emotivo e la continua paura che i militari occidentali hanno affrontato e stanno affrontando in Iraq ed in Afghanistan è un problema che da sempre accompagna l’uomo nelle operazioni militari e che anche le legioni romane ai tempi dei vari imperatori avevano già osservato ed affrontato. Tuttavia rispetto al passato c’è il fatto nuovo dell’asimmetria della condizione bellica per cui da una parte c’è un soldato super addestrato e tecnologicamente ben equipaggiato, mente dall’altra parte c’è un avversario che non porta alcuna divisa, non dichiara le sue intenzioni di attacco, non mostra di avere delle armi e che spesso si cela dietro il sorriso di un bambino o gli occhi dolci di una donna. Ed anche le operazioni che deve compiere non sono più quelle classiche dell’attacco militare, bensì si tratta solo di controllo del territorio, di pattugliamento, di controllo delle auto e delle case, operazioni più vicine alla cultura professionale della Polizia che all’addestramento militare di un soldato. E’ l’attesa di un attacco che non si sa se, come e quando arriverà a far salire la tensione emotiva del militare fino all’ansia patologica ed alla sua impossibile gestione: un militare è addestrato ad agire, è formato all’azione e non riesce a sopportare l’attesa, l’immobilismo, l’impotenza di non poter far nulla e di non poter prendere delle iniziative.
C’è quindi un contesto nuovo, quello del conflitto asimmetrico, ed una operatività diversa, quella tipica delle Forze di polizia. Contesto ed operatività che chiedono al militare un adattamento a cui da solo potrebbe non arrivare senza l’aiuto di uno psicologo militare, di un qualcuno che raccolga i suoi stati d’animo, i suoi vissuti, le sue emozioni e le sue esperienze restituendole poi elaborate, razionalizzate, raffreddate e quindi utilizzabili come esperienza personale per crescere e per progredire. Per ottenere questo lo psicologo militare deve essere lì, vicino al soldato, fianco a fianco nello stesso contesto ed accanto alla sua operatività. I tempi di un eventuale “sgombero”, di un rimpatrio o di una presa in carico a distanza di qualche settimana non consentirebbero di ottenere dei risultati positivi come una rapida regressione del quadro psicopatologico acuto ed il mantenimento del militare nel gruppo e nel teatro di operazioni. Ed anche gli strumenti psicologici da utilizzare devono essere in grado di ottenere risultati efficaci nel breve termine, come ad esempio quelli offerti dalla terapia cognitivo-comportamentale, anche senza dover ricorrere alla terapia psicofarmacologica. Già nella prima Guerra Mondiale si era visto che se il militare affetto da “combat stress” veniva portato nelle retrovie, difficilmente sarebbe tornato in teatro di operazioni e facilmente avrebbe sviluppato una psicopatologia, mentre se veniva “trattato“ a ridosso delle linee nemiche quasi sicuramente tornava nel proprio reparto, tornava a combattere, sostituiva il ricordo dello stress con altre esperienze migliori e non sviluppava alcuna psicopatologia.
Le guerre atipiche ed i conflitti asimmetrici che vedranno impegnati i militari occidentali nei prossimi decenni rappresentano quindi delle situazioni in cui molto forte è il rischio di sviluppare una reazione da “combat stress” oppure un “disturbo post traumatico da stress”. La riduzione dell’impatto e dell’incidenza di queste due situazioni sia in acuto che nei tempi lunghi della cronicizzazione, molto invalidanti sull’operatività e l’efficienza dei soggetti che ne saranno affetti, dipenderanno dalla presenza sul campo dell’assistenza psicologica e dalla qualità terapeutica che sarà in grado di offrire. L’esperienza del Vietnam inoltre ha insegnato che l’assistenza psicologica deve essere effettuata anche dopo il ritorno in patria e proseguita per molti anni in modo da permettere al reduce di costruirsi una buona famiglia, di procurarsi un adeguato lavoro e di allontanare le facili scorciatoie di falso benessere rappresentati dall’alcol e dalle sostanze stupefacenti.
La grande lezione, inoltre, che le guerre, conflitto dopo conflitto, continuano ad impartirci è che, sia per chi la fa che per chi la subisce, le guerre non finiscono mai. (cannavicci@iol.it)
__________________________________________________
Le ferite psicologiche
degli americani
In un articolo pubblicato il 2 agosto 2006 sul “Journal of the American Medical Association” (Jama), l’equipe di neuropsicologia del Suotheast Louisiana Veterans Healthcare System e della Tulane University School of Medicine di New Orleans riporta che i soldati americani che sono stati impiegati in Iraq presentano un quadro neuropsicologico compromesso.
I reduci presentano una riduzione significativa nei compiti che richiedono una attenzione sostenuta, nell’apprendimento verbale e nella memoria visuo-spaziale. Presentano inoltre un incremento degli stati di tensione emotiva e di confusione mentale. La validità scientifica dello studio consiste nel controllo preventivo e prospettico di 961 soldati appartenenti ad una unità che avrebbe potuto partire per l’Iraq, cui sono stati sottoposti dei test neuropsicologici. Di questi, sono stati poi inviati in Iraq 654 soldati, mentre 309 sono rimasti in patria e sono stati utilizzati come gruppo di controllo. Sia ai soldati rimasti in patria che a quelli inviati in Iraq, durante la missione, sono stati ripetuti i test neuropsicologici.
I primi risultati dimostravano che i soldati in Iraq riportavano un peggioramento globale su molte scale di valutazione, rispetto sia alle prestazioni precedenti che ai colleghi rimasti in patria, tranne che in un aspetto: la velocità di reazione. Ciò dimostra che quando si vive sotto minaccia si scatenano autonomamente delle risposte fisiologiche che ci preparano all’azione. Si modificano i livelli di adrenalina e noradrenalina nel sangue e si modificano diversi parametri ormonali, come ad esempio l’incremento del cortisolo e l’abbassamento dei livelli degli ormoni sessuali. Per effetto di queste modificazioni neurobiologiche la velocità di reazione aumenta, tuttavia aumentano anche i tempi di “esauribilità” di altre funzioni cognitive (come l’attenzione, la concentrazione, la memoria) che peggiorano le loro performances in tempi molto più brevi rispetto alla norma. Avere tempi di reazioni più veloci conduce sicuramente a risposte più rapide che in talune occasioni possono anche salvare la vita, tuttavia aumenta sensibilmente il tasso di errore in quanto sono risposte impulsive, imprecise e spesso irrazionali. Il militare potrebbe ritrovarsi a sparare in modo impulsivo ed irrazionale non contro un nemico, ma contro dei civili, dei bambini o anche degli “amici”.
Lo studio scientifico riportato sulla rivista Jama conclude che l’11,6 per cento dei soldati americani rientrati dal fronte soddisfaceva i criteri clinici per la diagnosi di “disturbo post traumatico da stress”, mentre il 25 per cento manifestava sintomi clinicamente significativi di depressione. Ulteriori studi sono in itinere in argomento, come quello del controllo dell’integrità neurologica cerebrale dei reduci attraverso delle metodiche di brain imaging.
La conclusione che noi possiamo trarre da questi studi è che nelle guerre atipiche e nei conflitti asimmetrici, anche un soldato ben addestrato, ben equipaggiato e con un’altissima efficienza nell’assistenza psicologica, come quello americano, è esposto a livelli di stress e di tensione emotiva che lasciano il segno.
____________________________________________
I principi fondamentali della psicologia mitare
contro il “combat stress” (U. S. Army)
Gli psicologi militari (U.S. Army) operano per ridurre gli effetti psicopatologici del “combat stress” nei militari che ne sono stati esposti, secondo quattro principi:
1. prossimità – l’intervento sul soldato deve essere il più vicino possibile al luogo di esposizione ed a ridosso delle sua unità di appartenenza;
2. immediatezza – l’intervento sul soldato deve essere il più precoce possibile rispetto al momento dell’esposizione o della cessazione del periodo di stress acuto;
3. aspettativa – l’intervento deve mirare a rendere consapevole che le paure reattive del soldato ed i suoi timori sulle prestazioni future sono eventi attesi, previsti, che verranno superati e smaltiti dal trattamento in corso;
4. semplicità – l’intervento deve essere condotto attraverso delle semplici terapie psicologiche a breve termine (debriefing, defusing) collegate con il riposo, il cibo, l’igiene ed il recupero della regolarità del sonno.
__________________________________________
Gli effetti psicologici
della guerra sugli iracheni
Effettuando delle mirate ricerche sia in generale su “google” che sulle specifiche medline delle più importanti riviste scientifiche del mondo si scopre che non ci sono studi che abbiano rilevato lo stato di salute mentale della popolazione irachena dal 2003 in poi. E’ possibile rintracciare un solo studio che riguardi la popolazione in Iraq, ma risale alla prima Guerra del Golfo. Per analogia possiamo partire da uno studio effettuato sulla popolazione civile algerina durante la guerra di indipendenza dalla Francia condotta nei primi anni ’60. Da questo studio si evince che gli effetti sulla popolazione civile di un conflitto atipico ed asimmetrico riguardano in modo prevalente i bambini, con il riscontro di livelli altissimi di psicosi artistiche, depressioni maggiori e ritardi mentali in coloro che avevano assistito a violenze ed uccisioni di amici e familiari.
Nel 2003 alcuni psicologi canadesi hanno effettuato una serie di interviste ai bambini iracheni delle città di Kerbala e Baghdad: in tutti gli intervistati emergeva molto forte la paura di morire e l’insonnia per i continui risvegli notturni in preda a pavor nocturnus secondario ad incubo. Molto frequenti erano le ansie, le depressioni e le fantasie di suicidio.
Secondo alcuni autori attualmente in Iraq si registra il più alto tasso di suicidi al mondo, con percentuali che vanno da 3 a 5 casi ogni cento persone (mentre in Italia il tasso è di circa 5 casi ogni centomila persone). Tuttavia sono cifre e stime approssimative in quanto in Iraq ancora non c’è un sistema centralizzato di raccolta dei dati. Fra i tassi di suicidio sono compresi anche gli attentati effettuati dai kamikaze, che hanno una frequenza pressoché quotidiana. I dati effettivi sugli effetti psicologici della guerra irachena sulla popolazione civile potranno essere disponibili, in analogia per quanto è accaduto in Algeria ed in Kosovo, solo dopo il cessare del conflitto e delle ostilità. In ogni caso in Iraq deve essere ricostruita da zero una rete di assistenza psicologica e psichiatrica in quanto anche sotto la dittatura di Saddam Hussein i malati mentali venivano o abbandonati a se stessi o richiusi semplicemente in carcere.
|