La legge costituzionale nr. 2 del 1999 novellando, con l’aggiunta di cinque commi, l’art. 111 della Costituzione ha prodotto la fondamentale riforma del giusto processo o meglio del diritto per tutti ad un processo equo e questo come necessario recepimento, nel dettato costituzionale, dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950), nonché dell’art. 14 del patto internazionale sui diritti civili e politici (approvato dall’assemblea generale dell’Onu il 16 dicembre 1966).
Per comprendere la portata di tale riforma occorre ricordare che, secondo l’opinione dominante, nell’ordinamento italiano comunque già risulterebbero vigenti ed applicabili le fondamentali garanzie processuali (cosiddetto giusto processo), riconducibili alle norme ricavabili dagli art. 24, 25, 101, 102, 104, 111, 112 e 113 Cost. e consistenti nei principi generali dell’eguaglianza e del contraddittorio delle parti dinanzi ad un giudice, nella precostituzione per legge del giudice naturale, nella soggezione del giudice soltanto alla legge, nel divieto di istituzione di giudici straordinari o speciali, nell’indipendenza e imparzialità degli organi giurisdizionali.
Una definizione assai puntuale del principio del giusto processo, nei suoi due aspetti fondamentali, relativi alla posizione e alle funzioni del giudice ed alla posizione e ai diritti delle parti, si poteva rinvenire già nella sentenza n. 131 del 1996.
In tale decisione, la suprema Corte rilevava che in esso “si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine… ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo”, precisando che essa “comprende l’esigenza di imparzialità del giudice: imparzialità che non è che un aspetto di quel carattere di terzietà che connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice, distinguendola da quella di tutti gli altri soggetti pubblici, e condiziona l’effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio”.
Tuttavia, ed ecco il punto, la giurisprudenza costituzionale successivamente applicava tale principio alla regola del contraddittorio fra le parti in maniera riduttiva. Nonostante che il (nuovo) Codice di procedura penale del 1988 si fondasse su un modello accusatorio, basato sulla formazione delle prove nel dibattimento, con il diretto contributo delle parti, gli interventi del giudice costituzionale hanno invece, volta a volta, ampliato le possibilità di utilizzare gli elementi di prova raccolti nelle fasi predibattimentali, argomentando e giustificando ciò sulla base del principio di non dispersione della prova (tra le altre sentenze Corte Costituzionale 24, 254, 255 del 1992; 60 e 381 1995).
In tal modo si era modificato profondamente il senso della regola del contraddittorio applicabile al processo penale: non più come metodo di formazione dialettica della prova, ma quale possibilità per il soggetto accusato di confutare le dichiarazioni accusatorie già comunque acquisite nelle fasi precedenti al dibattimento.
Al fine di recuperare il ruolo centrale del dibattimento e del contraddittorio nella formazione della prova, il legislatore (L. 7 agosto 1997 nr. 267) modificava l’art. 513 C.p.p., limitando l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dai coimputati durante le indagini preliminari. Tuttavia un nuovo intervento della Suprema Corte dichiarava incostituzionale detta disciplina (sentenza nr. 361 del 1998), ribadendo che non si può escludere la possibilità di acquisire in dibattimento elementi di prova raccolti nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare. Da ciò emergeva una concezione del processo penale radicalmente differente da quella che sembrava essere stata la volontà parlamentare. Detta contrapposizione culminava con l’approvazione della legge costituzionale, 23 novembre 1999, nr. 2, (già citata in precedenza) novellante l’art. 111 della Costituzione, il quale, nella nuova versione, scolpiva definitivamente nella Carta costituzionale i principi voluti dal Parlamento sovrano e cioè che: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo (traduzione del termine equo processo utilizzato in ambito Ue) regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore, sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.
La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.
Dal punto di vista applicativo, la riforma costituzionale non ha certo risolto tutte le difficoltà, specie per l’esigenza di dover essere completata a livello legislativo, anche al fine di determinare l’applicabilità temporale delle nuove regole costituzionali.
A ciò ha provveduto prima il d. l. nr. 2 del 2000, convertito nella L. 35/2000, e poi, più organicamente, la legge 36/2001.
Su tale disciplina si è pronunciata nuovamente la Corte Costituzionale, questa volta applicando e recependo i principi del nuovo art. 111 Cost. non solo al processo penale (da ultimo sentt. n. 32, 120, 195 e 335 del 2002), ma anche a tutti gli altri tipi di processo (sentt. n. 305, 336, 444, 447 e 513 del 2002). I principi del giusto (equo) processo sono quindi ora doverosamente applicabili in tutte le giurisdizioni.
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