Si discute e si polemizza su un concetto
di “famiglia” che in realtà nessuno riesce
a definire in maniera chiara e concreta, se non
rifacendosi a una ipotetica “legge
naturale”. Al di là delle ragioni contingenti
di politica interna italiana, il contrasto
tra le diverse posizioni è basato su motivazioni
più profonde che riguardano i ruoli di potere
e di guida della società nel nostro
Paese, e nell’intero Occidente
Le coppie di fatto in Italia sono oggi più di 600mila, oltre il quattro per cento del totale delle coppie. E’ un fenomeno in crescita costante: più che raddoppiato in dieci anni.
Dopo che la Danimarca ha aperto la strada nel 1989, l’Europa conta ormai ben 12 Paesi che hanno dettato una disciplina per le unioni civili. In Italia non è stata ancora approvata definitivamente la legge che dovrebbe regolarizzare la situazione delle coppie di fatto (cosiddetta legge sui Dico). Ciò è dovuto in larga parte alla durissima opposizione della Chiesa cattolica.
Se qualcuno, da parte laica, pensa che questa resistenza all’introduzione di una normativa che legalizza la realtà delle coppie di fatto sia un colpo di coda di una Istituzione che negli ultimi decenni ha visto indebolirsi la sua influenza sulla società italiana, credo che si sbagli. La mobilitazione della Chiesa sul tema dei Dico non è una scaramuccia delle retroguardie di un esercito in ritirata. E’ l’applicazione iniziale di una strategia a lungo termine volta a riconquistare l’egemonia morale e culturale sulla società italiana.
Il terreno prescelto per cominciare ad attuare questa strategia è quello della famiglia. La Chiesa considera il riconoscimento legale delle convivenze di fatto un attacco diretto alla famiglia “regolare”. Poiché la famiglia viene considerata un caposaldo dell’ordine sociale, un indebolimento del suo primato esclusivo costituirebbe di per sé un indebolimento della coesione sociale.
Il catechismo della Chiesa cattolica così recita: “L’ultima comunione di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dal patto coniugale [...]. Dio stesso è l’autore del matrimonio. La vocazione al matrimonio è iscritta nella natura stessa dell’uomo e della donna, quali sono usciti dalla mano del Creatore. Il matrimonio non è un’istituzione puramente umana, malgrado i numerosi mutamenti che ha potuto subire nel corso dei secoli, nelle varie culture, strutture sociali e attitudini spirituali. Queste diversità non devono far dimenticare i tratti comuni e permanenti. Sebbene la dignità di questa istituzione non traspaia ovunque con la stessa chiarezza, esiste tuttavia in tutte le culture un certo senso della grandezza dell’unione matrimoniale. La salvezza della persona e della società umana e cristiana è strettamente connessa con una felice situazione della comunità coniugale e familiare”.
Nel sostenere la centralità della famiglia la Chiesa non è sola. Anche il pensiero laico la riconosce, anche se non le conferisce un carattere sacramentale. Hegel, per esempio, due secoli fa affermava che: “Il matrimonio, ed essenzialmente la monogamia, è uno dei principi assoluti, dai quali dipende l’etica di una comunità; quindi l’introduzione del matrimonio è rappresentata come uno dei momenti della fondazione divina o eroica degli Stati” (“Lineamenti di filosofia e del diritto”, parte terza, sez. prima, par. 167). Il nostro Foscolo più o meno negli stessi anni, esprime una concezione analoga, nei versi famosi, di chiara ispirazione vichiana, dei “Sepolcri”: “Dal dì che nozze, tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui...”. La famiglia, insieme alla religione e alla giustizia, è da lui considerata una istituzione fondativa della civiltà.
Ma la differenza tra il pensiero laico e “storicista” di Hegel e di Foscolo e quello cristiano sta nella diversa importanza che viene attribuita dall’uno e dall’altro alla storia, all’agire umano, in rapporto alla natura. Alla base della concezione del Cristianesimo vi è il presupposto dell’esistenza di un diritto naturale derivante immediatamente dalla volontà divina che nessuna evoluzione storica può cambiare. Per il pensiero laico è il contrario: l’evoluzione storica può modificare in profondità la condizione naturale dell’uomo.
La concezione del diritto naturale, per la verità, risale all’antichità ed è antecedente allo stesso Cristianesimo, ma da esso è stata adottata e rielaborata nel Medio Evo dai filosofi della Scolastica, in particolare da San Tommaso. Nel Rinascimento venne ripreso anche in chiave laica, essendo identificato con la ragionalità umana stessa (Grozio).
L’idea di fondo è che vi sia una “legge di natura” a cui gli uomini devono uniformarsi: le leggi degli Stati non possono entrare in contrasto con essa. Papa Wojtila così riassumeva questo ben noto ed antico punto di vista: “La legge stabilita dall’uomo, dai Parlamenti, da ogni altra istanza legislativa umana, non può essere in contraddizione con la legge di natura cioè, in definitiva, con l’eterna legge di Dio”. Questo nonostante che la antropologia abbia segnalato che è quanto meno problematico, se non impossibile, definire sulla base dell’esame comparativo delle diverse civiltà, i tratti di una “legge di natura” comune a tutte.
La difesa intransigente della famiglia tradizionale da parte della Chiesa non viene giustificata solo in nome di una preoccupazione religiosa, ma con l’intenzione dichiarata, prettamente etico-politica, di difendere la società civile occidentale del tardo capitalismo dalle pulsioni nichilistiche che la spingerebbero verso la propria disgregazione.
E’ in base alla esigenza di salvaguardare la “essenza”, la “natura umana” così come Dio l’ha creata, che la Chiesa riafferma la necessità di non introdurre provvedimenti legislativi che possano anche solo indirettamente costituire un’alternativa “artificiale” alla famiglia tradizionale. Il vero nocciolo della sfida della Chiesa al predominio del laicismo sta qui: essa si pone come baluardo del pensiero delle certezze eterne contro il pensiero laico umanistico, il quale viceversa ritiene che tutto - e l’uomo stesso - sia in mutamento.
Uno dei maggiori esponenti dell’Umanesimo, Pico della Mirandola, nella sua orazione “Sulla dignità dell’uomo” immagina che Dio rivolga all’uomo queste parole: “La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà di consegnerai. [...] Non ti ho fatto né celeste né terreno. Né mortale, né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e scolpissi nella forma che avresti prescelto”.
Tale concezione, che sta alla base della ispirazione laica moderna, si trova da tempo sottoposto all’attacco concentrico del pensiero religioso tradizionale da una parte, dall’altra dello scientismo, che minimizza l’importanza della cultura e della storia e intende ridurre l’uomo semplicemente alla vicenda dei suoi geni e della sua evoluzione biologica. Se da una parte l’attacco proveniente dalla parte religiosa bolla con l’accusa di nichilismo questa concezione dell’uomo che si plasma da sé, dall’altra lo scientismo dissolve la cultura e la storia umana nella “biologia”.
Se questo avviene oggi, delle ragioni ci sono: per almeno tre secoli l’Occidente ha creduto che si potesse “umanizzare l’uomo” attraverso l’educazione, la cultura, la politica. Ora pare che questo tentativo abbia lasciato sul terreno solo macerie e che l’avventura faustiana intrapresa dalla Modernità abbia condotto l’umanità in un vicolo cieco. In gioco è lo stesso presupposto umanistico che si è affermato faticosamente attraverso i secoli nella nostra civiltà, la cui inadeguatezza pare peraltro ormai storicamente evidenziata. Alla luce di ciò si tratta di ripensare a fondo il cammino dell’uomo occidentale e di fare di questo ripensamento, se ne siamo capaci, la base di una prospettiva nuova di esistenza nella “mondialità” in cui siamo ormai irrevocabilemtne immersi. L’interrogativo è in sostanza questo: per l’uomo è la natura prevalente sulla storia? In che modo la storia può prevalere sulla natura senza distruggere le basi naturali su chi si edifica?
Di fronte alle difficoltà connesse a questi interrogativi, può essere forte la tentazione di tornare indietro, di rinunciare alla centralità umana, e di affidarsi alla stabilità rassicurante di “leggi naturali eterne”, anche se l’esperienza che ormai abbiamo del mondo e di noi stessi dovrebbe spingerci a rilevare in ogni campo - come non mai prima - la complessità e la enigmaticità del nostro esistere, e a rifuggire dalle soluzioni facili e rassicuranti.
Non è dunque da prendere sotto gamba, come si dice, la querelle che si è sviluppata intorno alle questioni di bioetica e dei Dico. Ciò che essa solleva è l’interrogativo più grande: su chi siamo - come uomini - e cosa vogliamo essere.
Anche se possono esserci ragioni contingenti di politica interna italiana, come più di qualcuno ha ipotizzato, a spingere la Chiesa verso questa intransigenza, la vera motivazione è ben più profonda. La posta in gioco è il suo ruolo di orientamento dell’etica pubblica, appannato in Italia in questi anni, ma non perduto. Se dovesse perdere questo, essa sarebbe ridotta a quella posizione politicamente marginale in cui si trovano le chiese dei Paesi in cui lo spirito laico ha definitivamente prevalso, come è, per esempio, il caso della Chiesa Anglicana, o di quelle nordiche luterane. Senza il ristabilimento del suo ruolo guida in Italia, le possibilità della Chiesa di avere - di tornare ad avere - un ruolo centrale in Europa e nel mondo riguardo alle grandi scelte che si impongono all’umanità sarebbero molto scarse.
La chiesa ritiene di poter giocare un ruolo da protagonista in quanto portatrice di verità incrollabili in un tempo di incertezze profonde. Essa fa riecheggiare, con la suggestione prodotta dalla distanza dei secoli, le parole di San Tommaso d’Aquino: “Ogni legge umana deve essere derivata dalla legge naturale che è la prima regola della ragione”.
Dopo le grandi mete indicate nel secolo diciottesimo e diciannovesimo dai pensatori laici (Rousseau, Hegel, Marx, Comte, Stuart Mill, Nietzsche, ecc.) - le cui idee sono sostanzialmente quelle che ancora girano nelle nostre teste - la forza di penetrazione del pensiero laico si è infiacchita. Il ventesimo secolo, in una certa misura, si è limitato a porre in pratica le idee del XIX. Ora queste idee, nel secolo XXI in cui ci troviamo ormai saldamente entrati, sembrano riecheggiare da un passato ormai troppo lontano.
Il punto di stallo del pensiero laico sta in questo: non avere più un grande progetto per l’uomo, come accadde nell’epoca dell’umanesimo, quando propose che egli diventasse artefice di se stesso, nell’età dell’Illuminismo, quando espresse l’ideale della libertà e della eguaglianza universale, e nel corso del secolo XIX, quando indicò nel superamento dell’alienazione e dello sfruttamento la grande meta dell’umanità.
Oggi il pensiero laico è largamente diffuso e, si può dire, cominante, ma è diventato senso comune, “pensiero pigro”, ovvietà conformistica. In un certo senso le parti si sono rovesciate. Mentre fino a pochi decenni fa si poteva parlare di “cristianesimo pigro”, nel senso di una religione conformista praticata senza slancio né convinzione dai più, oggi si deve denunciare l’esistenza di una laicità (o, se si vuole, di un laicismo) altrettanto superficiale e conformista.
Per questo il pensiero laico fatica a reagire, soprattutto per la sorpresa di essere chiamato a combattere battaglie il cui esito riteneva essere ormai sostanzialmente scontato.
Nessuno - e giustamente - tra i laici ha voglia di rispolverare il vetusto anticlericalismo. Si dava per certo che la Chiesa si fosse rassegnata alla condizione di minoranza garantita in un Paese divenuto ormai essenzialmente laico. Che insomma si limitasse a parlare al suo gregge, rinunciando alla pretesa di rappresentare l’umanità intera. Invece ecco che la Chiesa esce dai confini che la concezione laico-liberale le ha assegnato, pretende di orientare non solo la coscienza dei suoi fedeli, ma anche di disporre di un diritto di veto nei confronti di quelle leggi dello Stato che siano da lei ritenute incompatibili con una “legge naturale valida, a suo avviso, in quanto tale per tutti gli uomini, a prescindere dal loro orientamento religioso e morale.
Ma nel momento in cui la Chiesa esce dall’ambito delle motivazioni religiose, il dibattito assume un profilo essenzialmente laico. L’esistenza di un “diritto naturale” è “argumentum fidei”, non si può pretendere perciò che tutti la accolgano. Da un punto di vista strettamente antropologico non è affatto certa. Se è così non discutiamo del giusto o dell’ingiusto, ma di ciò che è socialmente opportuno o inopportuno. Si devono porre allora interrogativi pratici. E’ vero che l’introduzione dei Dico, istituzionalizzando soluzioni diversificate di convivenza, avrebbe conseguenze catastrofiche per la coesione sociale? In primo luogo bisogna precisare di che cosa parliamo quando ci riferiamo alla “famiglia”.
Non si può ragionevolmente affermare che la famiglia mononucleare, composta cioè da un uomo, una donna e dai loro figli rappresenti il modello della “famiglia tradizionale”. E’ vero il contrario. Se ovviamente la coppia composta da un uomo e una donna è stata (fino a poco tempo fa, ora non più) la condizione imprescindibile della riproduzione, la famiglia in passato non si è quasi mai identificata esclusivamente con questa funzione.
La famiglia tradizionale contadina o nomade - che organizzava fino a pochi decenni fa la grande maggioranza della popolazione mondiale - è patriarcale, cioè composta non da una ma da parecchie coppie monogamiche consanguinee sotto l’autorità del “patriarca”.
La famiglia patriarcale, come è ancora oggi nelle società che conservano tratti tradizionali, è l’orizzonte entro cui si svolge interamente la vita dell’individuo e della coppia. Essa “decide” tutto per l’individuo - spesso gli impone perfino il coniuge - gli garantisce identità, sicurezza, assistenza. Ma la famiglia patriarcale contadina non è certo da rimpiangere. Era anche un’organizzazione sociale oppressiva, in cui il potere maschile si esercitava in modo talvolta sfrenato, che poteva giungere fino all’omicidio e all’incesto, con una sua giustizia arcaica e crudele.
La famiglia mononucleare è effetto dello sviluppo economico e sociale grosso modo di questi ultimi due secoli di industrializzazione e di inurbamento. Di pari passo, molte delle funzioni della famiglia tradizionale sono state assunte da parte dello Stato.
La dissoluzione dei legami e delle gerarchie tradizionali di sangue e di solidarietà ha influito profondamente sull’evoluzione dell’etica comune. Se la coppia viveva un tempo saldamente collocata entro la grande famiglia patriarcale, e tutti i momenti del rapporto di coppia - anche quelli più intimi - avevano risvolti “pubblici”, ora che questo contesto è venuto meno, il rapporto di coppia è sempre più vissuto come un fatto soggettivo e privato, per il quale dunque vi è minore necessità di una sua formalizzazione ufficiale e pubblica, quale è quella costituita dal matrimonio.
La odierna organizzazione sociale obiettivamente favorisce la privatizzazione, la soggettivizzazione e la “sperimentalità” dei rapporti. La società contemporanea, insomma, è quella che in assoluto nella storia dell’umanità offre le condizioni forse meno favorevoli alla stabilità della famiglia: è fatta soprattutto per individuo che vivono una socialità fluida e instabile. Questo vale tanto più oggi, in quanto l’atomizzazione, la precarizzazione del lavoro per le giovani generazioni non favoriscono certo lo sviluppo armonico e la stabilizzazione delle loro relazioni affettive.
Ma si dice, in Italia la famiglia è in ripresa. E’ vero, ma solo in un certo senso. Un certo tipo di persistenza della famiglia, più che segno della sua salute come istituzione, è sintomo di una crisi sociale profonda e in fondo della famiglia stessa. I giovani che stanno in famiglia fino a ben oltre i limiti della loro giovinezza biologica certamente mostrano di contare su di essa, ma anche, allo stesso tempo, di non potere o volere crearne una.
La famiglia oggi è chiamata a dare risposta a molti dei problemi che la società avanzata ha creato e che non riesce da sé a risolvere: precarietà del lavoro, salute, assistenza, difficoltà effettive, ecc. Molto spesso funziona da autentica camera di decompressione in cui vengono a stemperarsi le inadeguatezze dell’organizzazione sociale. Da lontano la famiglia appare come un punto di riferimento e di rifugio certo, ma vista da vicino è anche una sorta di microcosmo di tensioni e conflitti, tanto più acuti, quanto spesso compressi e soffocati entro la ferrea logica delle abitudini e delle ipocrisie. Appare insomma, più che un punto di autentica forza, una somma di debolezze. E’ vero che la devozione al principio della famiglia è stato spesso la molla dell’attivismo della borghesia. Le grandi dinastie industriali e finanziarie, e anche quelle nuove che nel nostro Paese come nel resto del mondo si sono formate, hanno consentito che le imprese potessero vivere più a lungo dell’arco della esistenza del loro fondatore, venendo ampliate da figlie e discendenti. Ma nella fase “matura” è generalmente più appropriata una gestione manageriale, che tenga distinti gli interessi dell’impresa da quelli spesso complessi e problematici di una famiglia ormai da più generazioni abituata a vivere nel lusso, in una sorta di deformate gabbia dorata.
Una famiglia è come un organismo formato da diversi individui, che persiste nel tempo ma ha una sua durata temporale. In senso forte esiste fino a che rimane viva la memoria e gli effetti delle azioni del suo capostipite, o fino a che vi è una proprietà comune da gestire. E’ questo il principio aristocratico della continuità di sangue che si è applicato anche alle agrandi famiglie borghesi, come ad esempio i Buddenbrook, rappresentati nell’omonimo romanzo di Thomas Mann, i Rockefeller, i Rotschild, i Krupp, gli Agnelli, i Pirelli in Italia, ecc.
Le famiglie che non possono identificarsi con gesta memorabili dei loro antenati, che non hanno grandi imprese o proprietà da gestire, tendono ad avere un’identità meno duratura nel tempo e meno marcata.
La famiglia non dà di per sé garanzia di costituire un beneficio per la coesione sociale. Anzi, in certi casi la famiglia “egoista” può avere una funzione antieducativa e ruolo antisociale. Non è un caso, ad esempio, che le grandi organizzazioni criminali, come la mafia, siano organizzate in “famiglie”. Egoismo familiare, anche quando non giunge ad essere criminale, e individualismo antisociale coesistono, ansi si potenziano l’un l’altro in modo pericoloso, o anche solo come fattori di vischiosità e stagnazione sociale. La famiglia chiusa e “contro tutti”, come è spesso intesa specie da noi, non costituisce nemmeno un luogo in cui le personalità possano armoniosamente maturare. La certezza ed indiscutibilità dei rapporti creata dalla comunanza di sangue può essere ragione di una staticità psicologica e culturale, di persistenza di immaturità individuali.
Molti dei difetti della famiglia tradizionale si ritrovano anche negli insiemi amicali che nella realtà di oggi talvolta l’hanno sostituita. Stesse tendenze a formare reti di complicità, stesse ritualità e pigrizie affettive, stessa tendenza alla mimetizzazione nel gruppo e alla deresponsabilizzazione individuale, stessa propensione sociale al favoritismo e al clientelismo. Segno che, se l’individuo deve formarsi in una comunità affettiva, è solo assumendo l’identità e l’etica del cittadino che può raggiungere la sua piena maturità umana.
Forse nemmeno Hegel aveva ragione quando affermava che “Il matrimonio, ed essenzialmente la monogamia, è uno dei principi assoluti dai quali dipende l’etica di una comunità”. Forse il presupposto che la famiglia (o il gruppo affettivo) sia il fondamento della relazione sociale va rovesciato. Una volta compiuto il processo formativo, è l’etica della responsabilità sociale che può più positivamente ispirare anche le relazioni familiari personali dell’individuo.
Dal punto di vista cristiano la famiglia sarebbe una “cellula di eternità” nel tempo, l’ambito in cui fiorisce l’uomo come “persona”, l’alternativa alla massificazione, all’anonimato, alla disperazione individualista o talitaria. Ma nel Cristianesimo vi è anche una concezione diversa, dell’individuo come “singolarità” assolutamente responsabile della propria salvezza, che si riconosce nelle parole di Cristo: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuova dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Sono venuto a portare la guerra tra padre e figlio, tra marito e moglie...”. Inequivocabilmente il Vangelo intende il rapporto uomo-Dio come prevalente e superiore ad ogni rapporto umano, anche a quello familiare. La “carità”, che è il sentimento cristiano che deve ispirare la socialità, è amore universale per l’uomo: non è identificabile in nessun modo con il culto della famiglia.
Se torniamo a guardare alla realtà di fatto, nella famiglia prevale spesso una etica blanda e accomodante, sostanzialmente conformistica, grazie alla quale - come si dice - è consentito lavare tra le mura domestiche “i panni sporchi”. Spesso - e la cronaca lo conferma continuamente - è proprio nella famiglia tradizionale che più si applica un permissivismo sfrenato ed antieducativo.
Non è affatto dimostrato che nelle coppie di fatto (e per la Chiesa lo sono anche quelle unite dal matrimonio civile) l’educazione dei figli sia in genere meno accurata ed amorosa di quanto lo sia nelle famiglie “regolari”, cioè unite dal vincolo sacramentale del matrimonio. Non vi sono fondate ragioni sociali per impedire che il riconoscimento giuridico di altri rapporti sia di per sé causa di disgregazione sociale, anzi. La stabilizzazione giuridica, le garanzie sociali riconosciute a relazioni diverse da quelle matrimoniali possono contribuire a rafforzare il senso di appartenenza dell’individuo alla società, aiutarlo ad uscire dal ghetto psicologico della diversità, specialmente nelle relazioni omosessuali, aiutarlo ad avere una stabilità affettiva. In ogni caso, la sacralità cristiana del vincolo matrimoniale non è in alcun modo messo in discussine da chi, non essendo cristiano, ha altre concezioni e applica altre formule di unione. La “legge di natura”, il cui rispetto viene invocato per fare opposizione alla introduzione dei Dico, ha un fondamento dogmatico, non, come abbiamo cercato di dimostrare, antropologico. Rispettabile, ma vincolante solo per i credenti.
Ma il pensiero laico - si dice - fino ad oggi pare essere stato in grado di proporre alternative che si sono rivelate o si stanno rivelando totalitarie o aristocratiche. Nella migliore delle ipotesi, si dice,non è un “pensiero per tutti”.
Ma anche la Chiesa non ha saputo fare di meglio. Il limite della sua proposta sta nel fatto che essa ritiene di ristabilire la sua guida sulla società approfittando della debolezza attuale per pensiero laico, del bisogno diffuso di rassicurazione, non per la forza intrinseca del proprio messaggio.
Chi vuole davvero conquistare i cuori non impone divieti, ma indica mete più alte, alle quali di solito non si osa aspirare. Questo significa che piuttosto che proibire la regolarizzazione di rapporti di coppia già in atto si dovrebbe dimostrare coi fatti - se se ne è capaci - che la famiglia cristiana è infinitamente più bella e umanamente ricca di qualsiasi altro tipo di relazione, in modo che molti siano invogliati a realizzarla. Se, come effettivamente è, l’essenza del Cristianesimo è il “martirio”, cioè - in senso strettamente etimologico - la “testimonianza” (in greco “màrtyr” vuol dire “testimone”), questo - dell’esempio - è il terreno su cui il Cristianesimo può davvero sfidare il pensiero laico.
Gli uomini sono in ogni caso attaccati alla vita: possono viverla anche se per loro è senza valore. Ma una vita senza valore è fatalmente vissuta male, con rancore ed inimicizia verso sé e gli altri. Ciò che dà valore alla vita sono principalmente le speranze, le prospettive aperte, la convinzione di contribuire a fare qualcosa di importante. E’ di queste aperte prospettive che oggi si sente la mancanza. Perciò non abbiamo tanto bisogno di chi sbarra strade, ma di chi ne apre di nuove.
Quanto al pensiero laico, oggi è diventato superbo e superficiale: si è gonfiato fino ad esplodere, come il re dei ranocchi raccontato da Fedro. Preso dalla retorica della potenza e della tecnica, non sa più rapportarsi in modo autentico alla condizione umana. Poiché - sembra credere - pensare per tutti ha portato al totalitarismo, allora tanto vale pensare solo per sé.
Manca oggi un progetto laico di una socialità nuova entro la quale l’individuo possa valorizzarsi, che lo sostenga quando ne ha bisogno, senza impacciarlo o impedirgli di esprimere sé stesso.
Forse noi non abbiamo più bisogno di certezze prestabilite. Forse la certezza che ci basta è quella che ci dà il nostro stesso cercare e sperimentare. Essendoci lasciati alle spalle un’età della nostra storia, e ogni certezza in quella maturata, non possiamo più veramente tornare indietro. Non abbiamo perciò che da seguitare la nostra ricerca, e avere sempre più chiaro, con una chiarezza che cresce insieme a quella, il senso della straordinarietà dell’avventura che, come umanità, come creature “fatte né celesti né terrene” - per usare la formulazione di Pico - stiamo vivendo. Non è il nostro andare alla cieca, senza una meta, anche se ora la meta non la vediamo. Il carattere dell’esperienza che stiamo facendo è tale che il fine a cui aspiriamo noi stessi non lo sappiamo: non ci viene concesso prima, ma ci si manifesta quanto più gli ci avviciniamo.
La ricerca, la sperimentazione, anche nell’ambito sociale, non può essere mai, se è veramente tale, superba, né può essere solo umile. La rappresentazione laica dell’uomo prometeico che sfida l’universo è retorica, dunque sostanzialmente falsa: appartiene anch’essa ad un passato in cui una minore consapevolezza della nostra condizione e dei nostri compiti nel modo ci portava facilmente a cadere nell’enfasi e nell’esagerazione. Ma il “pànta tolmetéon”, il “bisogna osare tutto”, l’apertura totale all’azione e all’esperienza che già Platone indicava come compito dell’uomo, resta valido. Deve essere vissuto e praticato con modestia, cioè - in senso etimologico - con “misura” (modus). Con quella pazienza e tenacia grazie alle quali il passo del viandante è in grado coprire tragitti lunghi e accidentati. E questo è già l’essenziale.
E’ già tutto.
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