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Maggio-Giugno/2007 - Articoli e Inchieste
Ecologia
La discarica del Pianeta
di Eleonora Fedeli

L’avvento dell’hi-tech
sembrava coincidere con una
rivoluzione verde dell’industria.
Sgonfiato il sogno della tecnologia e del
progresso puliti, però è rimasta solo una
montagna di rifiuti che di virtuale ha ben poco.
E che finiscenei Paesi del Terzo Mondo


Oltre ai brani che scarichiamo da Internet e alle foto delle nostre vacanze, i computer contengono numerose sostanze tossiche: dai metalli pesanti come piombo, mercurio, alluminio e cromo alle plastiche di vario genere trattate con ritardanti di fiamma bromurati e ftalati. La maggior parte di questi elementi, se non correttamente smaltiti o riciclati, procurano gravi danni alla salute dell’uomo e dell’ambiente. I ritardanti di fiamma a base di bromo, ad esempio, possono alterare il sistema ormonale (in particolare quello tiroideo), mentre il piombo e gli ftalati possono causare danni cerebrali a livello infantile e problemi al sistema riproduttivo.
La Raee (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed Elettroniche) in Italia cresce ogni anno di circa 5 milioni e 500mila pezzi , pari a 200mila tonnellate alle quali ognuno di noi contribuisce con circa 20 kg l’anno. Hard disk, telefonini, monitor, televisioni, toner e quant’altro si accumulano in una montagna che, a causa dell’alta tossicità delle sostanze in essa contenute, costituisce uno dei pericoli ambientali più gravi. Ma, una volta tolti dalla scrivania, che fine fanno i nostri computer e le nostre stampanti?

Dalla via della seta
alla via dei veleni
Una delle rotte più percorse è quella che dagli Stati Uniti e dall’Europa approda in Cina. Più precisamente a Guiyu, una cittadina nella provincia del Guangdong, dove, con la scusa del riciclaggio, arrivano navi cariche di rifiuti hi-tech. Il recupero di questi materiali, in realtà, avviene senza alcuna regola o controllo per l’ambiente né per la sicurezza e la salute di chi ci lavora. Gli operai, infatti, smembrano a mano, senza guanti, occhiali, maschere o altre protezioni, i nostri “avanzi” tecnologici, riducendo ogni apparecchio nelle sue componenti principali. Così, dai fili elettrici viene recuperato il rame, dai circuiti stampati immersi in un acido vengono estratti i metalli preziosi (oro e palladio) e la plastica si recupera o si brucia per separarla dai pezzi di metallo. Le parti non riciclabili vengono bruciate all’aperto, mentre i monitor in attesa di essere smaltiti sono depositati sulle rive del fiume Lianjiang; i residui dei toner vengono raschiati a mano dalle stampanti, producendo nuvole di polvere sottilissima. I corsi d’acqua di Guiyu sono neri e pieni di rifiuti: c’è addirittura chi sostiene che contengano una quantità di acido tale da sciogliere in poco tempo una moneta di rame. Ma tutto questo non vieta ai pescatori di gettare le loro reti, davanti a cartelli che vietano di immergere per motivi igienici qualsiasi cosa nell’acqua.
Riciclare i rifiuti hi-tech dell’Occidente ha permesso alla popolazione della zona di arricchirsi: alla realtà di piccoli artigiani si è sostituita una vera e propria classe media, proprietaria di ampie officine che utilizzano i lavoratori che provengono dalle province rurali del Sichuan, dell’Anhui e dell’Henan. Per 1,5 dollari al giorno questi operai - spesso bambini - mettono in serio rischio la loro salute. In molti casi gli abitanti di Guiyu riscontrano un’altissima concentrazione di piombo nel sangue, danni alle ossa, gastriti, ulcere intestinali, vertigini e mal di testa frequenti.
In realtà, la legge cinese proibisce l’importazione di scarti elettronici e Pechino è fra le città firmatarie della Convenzione di Basilea del 1989 (non ancora sottoscritta dagli Stati Uniti), che proibisce l’esportazione di rifiuti pericolosi nei Paesi in via di sviluppo. Nonostante ciò i Paesi benestanti (con il beneplacito del governo cinese) continuano a fare il loro comodo. Esportare rifiuti all’estero, infatti, costituisce un risparmio non indifferente: se il prezzo medio per lo smaltimento di una tonnellata di rifiuti tossici nei Paesi Ocse va dai 100 ai 2.000 dollari, in Africa va dai 2,5 ai 50.
Come il resto del mondo, anche l’Italia è chiamata in causa come responsabile di un danno ambientale che sta assumendo proporzioni preoccupanti. Se nello smaltimento dei rifiuti urbani è decisamente indietro, ancora di più lo è in quello che riguarda i rifiuti hi-tech. Il decreto Ronchi del ’97 promuoveva un accordo tra Comuni e produttori per la raccolta differenziata e il riciclaggio dei Raee e stabiliva una cauzione da pagare all’acquisto di ogni nuovo elettrodomestico. I produttori di beni tecnologici, però, non si sono messi d’accordo, la cauzione non è stata inserita e tutto si è dissolto nel caos. Oggi, solo alcuni Comuni garantiscono la raccolta differenziata e il riciclaggio dei cosiddetti “beni durevoli”; esistono anche piattaforme pubbliche e private in grado di raccogliere i rifiuti elettrici ed elettronici, il cui riciclaggio, se effettuato correttamente, sarebbe una cospicua fonte di guadagno, oltre che un modo per salvaguardare l’ambiente. La realtà è che ancora la maggior parte dei nostri elettrodomestici e degli apparecchi elettronici giace nelle discariche e brucia negli inceneritori. Oppure è ammassata su un’imbarcazione che, dalle nostre coste, la scaricherà su quelle di un Paese del Terzo Mondo.

Bangalore, la Silicon Valley
dei rifiuti
La città di Bangalore, capitale dello Stato del Karnataka, si trova sull’altipiano del Mysore a 920 metri di altezza, a 1000 chilometri a sud di Bombay. E’ una delle più importanti città dell’India, al secondo posto per indice di alfabetizzazione, al primo per il tasso di sviluppo economico grazie alle sue industrie e agli istituti di ricerca nel campo scientifico. Il suo nome è legato all’Information Technology, tanto da essere definita la Silicon Valley dell’India. Eppure, Bangalore rischia di autodistruggersi proprio per l’inadeguato smaltimento dei rifiuti tecnologici.
Per i “detriti” della modernizzazione, infatti, non esistono impianti di smaltimento adeguati: le imprese che se ne occupano utilizzano perlopiù sostanze chimiche altamente tossiche ed inquinanti per estrarre dai rifiuti hi-tech le sostanze da riutilizzare e rivendere. Gran parte dell’hardware (la parte fisica del computer) dismesso dalle aziende e dai privati viene bruciato a basse temperature, liberando nell’aria sostanze dannose come la diossina. Tonnellate di materiale tossico finisce anche nelle discariche abusive che circondano la città: l’infiltrazione nel terreno di sostanze inquinanti raggiunge i massimi livelli.
Si calcola che nel corso di un anno la produzione di rifiuti hi-tech comprenda 1000 tonnellate di ferro, altrettante di plastica, 350 di rame, 300 di piombo, 43 di nickel e 0,23 di mercurio. Sono numeri in continuo aumento, dovuti non solo allo sviluppo del distretto tecnologico di Bangalore, ma allo smaltimento del cosiddetto e-waste (la spazzatura elettronica) prodotto dagli Stati Uniti. Infatti, sebbene l’India abbia firmato il trattato di Basilea, la mancata adesione degli Usa non impedisce l’importazione di questi materiali.
Il quadro è assolutamente preoccupante. Le conseguenze sulla salute di sostanze come il berillio, il piombo e il mercurio liberate nell’ambiente e nelle acque sono ormai note. Senza una politica ambientale adeguata, nel giro di pochi anni la Silicon Valley indiana rischia di trasformarsi in un deserto di rifiuti.

Il riciclaggio
dei
“cartoneros”
In Argentina, una legge anacronistica impedisce di fatto ai Comuni di riciclare i rifiuti. La fame e la miseria, però, hanno inaugurato un nuovo lavoro, quello del cartonero che, frugando a mani nude nei cassonetti e nei sacchi della spazzatura, raccoglie la carta da vendere alle cartiere. Impedendo, in tal modo, che circa 17mila tonnellate di rifiuti al giorno finiscano nelle discariche della capitale.
I cartoneros partono di mattina presto dalle periferie di Buenos Aires. Dalla stazione Josè Leòn Suarez salgono sul cosiddetto “tren blanco”, che un’impresa della città ha messo a loro disposizione, creando vagoni speciali in cui possano viaggiare con il loro carico senza disturbare gli altri passeggeri (chiaramente pagando un abbonamento). I più fortunati hanno carretti che riescono a trasportare fino a 300 chili di carta, mentre altri devono accontentarsi di semplici carrelli del supermercato.
Arrivati nei quartieri più agiati della capitale, i cartoneros aprono i sacchi della spazzatura e li smistano: quelli più abili riescono addirittura a distinguere il contenuto della busta solamente usando il tatto. Divisi i rifiuti, scelgono quello che venderanno per pochi pesos. E, se la fortuna è dalla loro parte, hamburger o resti di cibo ancora in buono stato saranno il loro probabile unico pasto.
In un Paese con tre milioni e mezzo di poveri e un tasso di disoccupazione che ha raggiunto cifre record, il mestiere del cartonero è destinato a diffondersi sempre di più, riempiendo le tasche dei grossisti e degli intermediari che riforniscono le grandi industrie della carta e del vetro, locali e straniere.
Per ogni chilo di cartone si guadagnano 41 centesimi di pesos, 20 per un chilo di bottiglie, 14 per la carta bianca e 10 per quella di giornale. In media un cartonero riesce a guadagnare tra i 15 e i 20 pesos al giorno, pari a 3,5 euro.
______________________________
In rete:

www.svtc.org
Il sito della Silicon Valley Toxis Coalition si presenta come uno dei più completi in materia di impatto dell’alta tecnologia sulla salute e sull’ambiente

www.ban.org
L’organizzazione Basel Action Network si occupa dei movimenti di rifiuti, non solo tecnologici, tra i Paesi.

www.apat.gov.it
www.peacelink.it
www.rifiutilab.it
www.legambiente.it
www.ecomondo.it
www.minambiente.it

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