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Aprile/2007 - Interviste
Sport
Nella palestra di Toro Scatenato
di Intervista a cura di Eleonora Fedeli

Intervista a Francesco Paone, proprietario
della A. S. Boxe Ostiamare. Ha praticato vari sport
(ma non il pugilato) e vorrebbe che tutte
le discipline agonistiche trovassero la loro giusta
valorizzazione. Cosa ha portato al disfacimento
del calcio italiano? “Il fatto di essere diventato solo
uno spettacolo, un contenitore vuoto, senza valori”


Da assidua frequentatrice di una palestra di pugilato pensavo che entrare in quella di Francesco Pavone non mi avrebbe fatto nessun effetto, ma di fronte al grande capannone in cui si allenano i ragazzi della A.S. Boxe Ostiamare mi sono dovuta ricredere. Di primo impatto, il contrasto fra i colori del vicino Luna Park e il grigio delle lamiere di questo imponente edificio produce un effetto straniante: sembra di trovarsi di fronte a un container abbandonato e ci si chiede per un secondo se non si sia sbagliato indirizzo. Poi, basta alzare un po’ lo sguardo e salta subito agli occhi una grande insegna azzurra sulla quale si legge nitida la scritta “BOXE”. Allora si prende un respiro e si varca il cancello di ferro, chiedendosi in che razza di posto si sia capitati. Varcata la piccola porta che si mimetizza fra i graffiti, bisogna aspettare un po’ prima che gli occhi si abituino dalla luce pomeridiana a quel buio improvviso. Ma, appena le pupille si adattano, si mette a fuoco un’immagine estremamente suggestiva. La sensazione è quella di trovarsi catapultati in una palestra americana degli anni Trenta (o sul set di Toro Scatenato): le pareti tappezzate di articoli ingialliti e fotografie di grandi pugili, le lampade alogene che illuminano il grande ring al centro della sala, i sacchi penzolanti, i guantoni consumati appesi qua e là. Non c’è traccia di attrezzi né di macchinari all’avanguardia: si ha subito l’idea che qui si badi alla sostanza più che all’apparenza e che la gente venga per combattere, non per smaltire i chili di troppo. Nella grande sala regna il silenzio, rotto ad intermittenze dagli schiocchi di una corda e dalle combinazioni di un ragazzino sui colpitori del maestro.
Francesco Pavone, proprietario della A.S. Boxe Ostiamare insieme a Vito Porena, arriva dopo qualche minuto, dandomi la possibilità di immortalare con la mia digitale questo luogo in cui il tempo sembra essersi fermato. È difficile, per me che non sono una fotografa esperta, catturare con l’obiettivo quello che i miei occhi stanno vedendo, ma ci provo, sperando in un colpo di fortuna. Quando entra in palestra, Pavone mi nota subito. E’ un uomo robusto, con la faccia sorniona e gli occhi furbi di chi sa il fatto suo. Mi chiede cosa penso della sua palestra e io non esito a dirgli che un posto così l’ho visto solo nei film. Mentre ci sediamo, mi confida che la Boxe Ostiamare per questo è diventata famosa in tutta Europa. Allora decido di farmi raccontare tutta la storia, quella che ha accennato in una lettera inviata alla redazione di “Polizia e Democrazia”, nella quale lamentava l’eccessiva attenzione data al calcio a scapito di sport meravigliosi come il pugilato.

Signor Pavone, ho letto nella lettera inviata alla redazione che lei si è occupato di numerosi sport: calcio, tennis, ciclismo, atletica leggera, pugilato. Quale significato ha avuto lo sport nella sua vita?
Per me lo sport è stata la vita, perchè insieme alla cultura è la forza trainante dell’esistenza. Ho sempre creduto molto in questo: sono un autodidatta, leggo molti libri e ho praticato sport di tutti i tipi, diversificando le mie esperienze, non fossilizzandomi mai in una sola. Sono passato dal calcio al tennis, sono stato dirigente della squadra ciclistica Uisp-Casilino insieme a Franco Mealli e Sergio Colombi, punta di diamante della squadra dilettantistica. Dai dilettanti sono passato ai professionisti, insieme a Conti e al commendator Fabretti, proprietario di una fabbrica di biciclette, assorbita poi dalla Bianchi. Ho fatto tante bellissime esperienze ad alto livello.
Da oltre trent’anni è il presidente della A.S. Boxe Ostiamare, è proprietario insieme a Vito Porena di una delle più importanti palestre di boxe d’Italia, ha organizzato numerose riunioni di pugilato, è stato commissario tecnico del Lazio della F.P.I.: quando è avvenuto il suo incontro con il pugilato?
Dirigo questa palestra, divenuta mitica anche in Europa, insieme a Vito Porena. Il pugilato è stata sempre una mia passione. Negli anni Sessanta, quando praticavo calcio e tennis, seguivo anche le manifestazioni di boxe, ma dall’altra parte, quella del pubblico. Poi ho voluto provare l’esperienza dall’interno e dal 1968, insieme agli altri sport, mi sono occupato anche della dirigenza pugilistica. Ho avuto questa opportunità ad Ostia, sono entrato in questa gloriosa società e ci sono rimasto fino ad oggi.
Cosa l’ha fatta innamorare di questo sport che a tanti appare una gratuita manifestazione di violenza?
In generale lo sport individuale ha un fascino particolare. Io ho giocato a calcio, le partite sono belle, ma una vittoria ottenuta da soli non ha paragoni. I mass media dovrebbero esaltare questo aspetto. Atleti come il centometrista, il lanciatore del disco, il ciclista si allenano tutti i giorni con immani sacrifici per migliorare pochi decimi di secondo. Lo stesso vale per i pugili. E’ in palestra che si fanno i sacrifici, il footing, la corda, gli addominali, la dieta: il match non è niente, perchè il ragazzo arriva preparato, non va incontro a burrasche. Nulla a che vedere con gli allenamenti di un giocatore di calcio, non c’è paragone. Il pugilato non è solo uno sport, ma una scuola di vita che ti insegna valori fondamentali come il sacrificio, l’abnegazione, l’amore per quello che fai. E’ un’arte nobile che ha affascinato poeti, scrittori, registi: e poi penso che l’abbraccio alla fine di un match sia una delle cose più sublimi, perchè dopo esserti battuto ad armi pari e aver dato tutto non puoi provare rancore nei confronti del tuo avversario. Mentre due pugili fuori dal ring si vanno a fare la doccia insieme, i calciatori a fine partita si ammazzano di botte negli spogliatoi.
Lei lo ha anche praticato?
No, non l’ho mai praticato, ormai era troppo tardi. Però mi sono tolto tante soddisfazioni. Ho lavorato con pugili come Sabatini, Spagnoli, Bianchini, Ballarati, Morasca; sono stato vicino a personaggi incredibili e a grandissimi maestri come Nissau, Panaccione, Gennari e tanti altri. L’elenco è lungo.
Cosa le ha dato in tutti questi anni l’esperienza nel mondo del pugilato?
Ho fatto delle esperienze indimenticabili. Tutte queste persone mi hanno insegnato tante cose: l’umiltà, la modestia, il ragionare, il saper perdere, accettare la sconfitta. Sono cresciuto molto stando vicino a questi grandi personaggi. Io non ero niente. Ho rubato a tutti qualcosa, ho avuto la fortuna, per anni e anni, di avere la loro stima. Ho cresciuto insieme ai loro maestri ragazzi eccezionali, dai fratelli Branco ai Nardiello, a Di Napoli e Morbilli, guidandoli dal livello dilettantistico ai titoli mondiali ed europei.
Million dollar baby, Cinderella man, Rocky VI: negli ultimi due anni anche qui in Italia i film sul pugilato hanno riempito le sale cinematografiche. Perchè invece, secondo lei, gli incontri di boxe non hanno la stessa risposta di pubblico?
I film sono spesso una mitologia. Sinceramente io non li vado a vedere. Ho visto il primo Rocky, Toro Scatenato con Robert De Niro (devo dire che questo mi è piaciuto molto di più). Sono solo film, il pugilato è un’altra cosa. La gente li va a vedere perchè sa che è tutto finto, perchè è spettacolo. Ma sport e spettacolo sono due cose ben diverse, secondo me.
Cosa si può fare per promuovere questo sport, per sradicare dall’immaginario comune i pregiudizi che l’accompagnano e metterne in luce gli aspetti che la rendono una nobile disciplina?
C’è una sola cosa da fare: chiudere la Federazione Pugilistica Italiana per due anni e ricominciare letteralmente da zero. Bisogna ricominciare dai ragazzini. Chi abbiamo oggi in Italia? Rosi ha cinquant’anni, Branco ne ha trentanove, Parisi trentasette: sono tutti ex atleti che hanno vicino un’organizzazione che trova gli avversari ad hoc, spesso mezze cartucce. Vendono un’immagine falsa del pugilato e il pubblico se n’è accorto, per questo diserta le arene. Non si fa più un match vero. Pensiamo all’ultimo incontro fra Nelson e Cantatore. Nelson è un pugile vero, Cantatore un atleta di modesta levatura.
Il problema è che in Italia non si disputano match autentici: mettono in palio tutte “patacche”, organizzando il Campionato del Mediterraneo, il Campionato del Golfo Persico, il Campionato di Corsica. In Italia, per esempio, Cantatore e Aurino fanno lo stesso peso. Perchè non si fa un match Aurino-Cantatore? Uno combatte da una parte, l’altro dall’altra: ognuno si gestisce il suo piccolo tesoro. I pugili che combattono oggi dieci o quindici anni fa non avrebbero fatto neanche un match di apertura. Purtroppo hanno ucciso il pugilato non curando il settore giovanile, come si faceva una volta. Oggi in palestra va gente di trentadue, trentacinque anni: a chi interessa? Un dilettante di ventott’anni perde tempo, facesse un altro lavoro. La verità è che oggi il ragazzino non porta denaro, mentre venti, trenta docciaroli alla fine del mese fanno uno stipendio. Una volta se andavi in palestra se non facevi il pugilato ti cacciavano via. Ora accade il contrario: dentro una palestra su cinquanta persone che si allenano solo una o due tirano di boxe. Ecco perchè in Italia c’è questa situazione: non c’è stato un ricambio e oggi andiamo ancora a vedere Cantatore.
Il pugilato è stato considerato a lungo uno sport per soli uomini, tanto che alle Olimpiadi non esistono competizioni femminili (probabilmente saranno inaugurate a Pechino 2008). Negli ultimi anni, però, il numero delle ragazze che si iscrivono nelle palestre di boxe è decisamente aumentato: lei cosa ne pensa?
Io sono contrario, perchè penso che per una donna il pugilato sia pericoloso.
Devo ammettere che in questi ultimi tempi mi sono un po’ ricreduto. Sabato scorso, mentre facevo il commentatore per una televisione locale, ho visto un match tra due ragazze di Fiumicino: una aveva sedici incontri alle spalle, l’altra solo tre. Mi è sembrata una cosa un po’ impari, ma credo che il maestro che aveva la ragazza con tre match sapeva il fatto suo. Sono state molto brave, l’incontro è finito in parità, anche se secondo me aveva vinto la ragazza dei tre match. Però a vedere una donna con i guantoni non ci sono abituato. Qui da me c’erano due ragazze che si allenavano, ma poi non sono più venute.
In Italia sembra esistere solo il calcio: come è possibile fare uscire dall’ombra le altre discipline sportive e i numerosi atleti che le praticano con tanti sacrifici?
I presidenti di Federazione non si devono ghettizzare, devono avere il coraggio di uscire fuori, non devono aver paura di organizzare manifestazioni sportive solo perchè c’è il calcio. In una città di cinque, sei milioni di abitanti come Roma, io non voglio essere scelto dal calcio: con mio figlio voglio poter scegliere dove andare la domenica. Le Federazioni dovrebbero diffondere i loro sport, non nascondersi organizzando le manifestazioni di venerdì o di sabato, in orari in cui è possibile andarci. Del resto l’Italia è l’unico Paese in cui c’è questo bombardamento mediatico sul calcio: tre quotidiani specializzati, servizi televisivi, trasmissioni radiofoniche.
Ci siamo mai chiesti quanti miliardi manovra questa gente e a beneficio di quante persone? Esistono tanti altri sport meravigliosi come la pallavolo e la pallacanestro che vengono puntualmente ignorati. Per non parlare del rugby, uno sport divino in cui c’è il culto della virilità, della lealtà, del non fallo. Tutto il contrario del calcio: ha visto cosa fanno i giocatori durante le partite? Si buttano per terra, sembra che stiano morendo, poi si alzano e corrono più di prima. Io li butterei fuori con il cartellino rosso!
Le morti di Ermanno Licursi (dirigente della Sammartinese) e di Filippo Raciti hanno riacceso la polemica sulla violenza negli stadi: c’è chi punta il dito sulla smodata aggressività degli ultras e chi accusa la poca competenza delle Forze dell’ordine. Lei cosa ne pensa?
Io penso che la responsabilità è soprattutto di chi sta vicino a questa gente e non dice nulla. Anche io sono stato allo stadio e più di una volta mi è capitato di vedere genitori che davanti ai propri figli inveivano contro l’arbitro. Allora mi giravo e facevo notare loro quanto fossero maleducati, mortificandoli davanti a tutti: le assicuro che spesso non li vedevo più allo stadio. Una volta anche mio figlio, mentre giocava una partita di calcio, ha insultato l’arbitro; io mi sono alzato dalla panchina (ero l’allenatore della squadra), l’ho preso per un orecchio, l’ho portato davanti all’arbitro e gli ho detto di chiedergli scusa. L’arbitro è rimasto allibito, non aveva mai visto una cosa del genere. E questo è grave, perchè i primi ad educare al rispetto e alla lealtà dovrebbero essere i genitori.
Io penso che la gente debba avere il coraggio di prendersi le sue responsabilità, non scaricarle sugli altri e nascondersi dietro frasi fatte. Gli ultras non sono altro che una massa di ignoranti, che hanno quello che io chiamo il “coraggio del branco”: quando sono insieme sono coraggiosi, ma presi singolarmente non valgono niente. Basta mortificarli, far capire loro chi sono: a quel punto non ci sarebbe neanche bisogno della Polizia, perchè di gente perbene ce n’è tanta e tutti insieme potremmo emarginarli. Del resto l’indifferenza la fa da padrona non solo allo stadio. Pochi giorni fa sull’autobus ho sentito due ragazzi rivolgersi a una signora anziana in modi sgarbati: sono stato l’unico ad intervenire, nessun altro ha trovato il coraggio di reagire. Questo è il male dei mali.
Spesso sono gli stessi giocatori ad essere protagonisti di episodi di violenza nei confronti degli arbitri e degli avversari: perchè nessuno li chiama in causa, considerato anche il loro ruolo di modelli di riferimento per molti giovani?
I calciatori sono infantili: spesso già dall’età di tredici, quattordici anni non vanno più a scuola, perchè quelli bravi crescono nelle piccole squadre, partecipano ai campionati e ai ritiri, non hanno tempo di studiare. Questi ragazzi non maturano perchè non hanno la possibilità di frequentare la gente al di fuori dell’ambiente calcistico. Quando vedono i primi soldi spesso perdono la testa, diventando anche le prede facili dei truffatori: quanti giocatori che un tempo hanno guadagnato miliardi oggi non hanno più una lira? Non erano preparati alla vita, non hanno saputo amministrare il successo.
Nella maggior parte dei casi la levatura del campione non coincide con quella dell’uomo: le scene che vedo durante le partite e i falli simulati non fanno altro che alimentare l’odio dei tifosi. Con lo spirito del calciatore le partite di rugby durerebbero un quarto d’ora: quelli si fanno veramente male, sono uomini veri, dotati di una forza e di una lealtà che i colleghi del calcio non si sognano nemmeno. Il rugby ha un valore didattico, trasmette degli insegnamenti che vanno oltre la partita. Possiamo dire lo stesso del calcio? I ragazzi non dovrebbero ispirarsi alla figura del calciatore, ma la realtà è che questo è l’emblema del successo facile. Gli atleti veri sono altri. Sono i ciclisti che pedalano sotto la neve e la grandine, rischiando ad ogni curva la vita. Sono i pugili che si giocano mesi di sacrifici in pochi round. Sono i corridori che si allenano ore per guadagnare un secondo. Questi sono atleti degni di questo nome, che faticano una vita intera per una gloria che forse non arriverà mai.
Il calcio appare oggi un rituale svuotato di tutta la sua bellezza e della sua poesia, logorato dagli scandali e dalla violenza: perchè allora è ancora uno spettacolo così seguito? Forse perchè l’unico che ci viene offerto?
Certo, perchè è alimentato in continuazione da questo polverone mediatico. In Italia è tutta una follia; in Inghilterra non esiste un giornale sportivo, in Francia ce n’è uno solo. Noi siamo bombardati da quotidiani, figurine, magliette, trasmissioni televisive: io sono convinto che se si desse lo stesso spazio al ping pong alla fine supererebbe il calcio. Mia moglie mi dice sempre che siamo un branco di scemi che si esalta a vedere ventidue uomini in mutande che corrono dietro un pallone: come darle torto? E’ uno spettacolo che non ti da niente a livello culturale.
Secondo lei cosa ha portato il disfacimento del calcio italiano?
Il fatto di essere diventato solo uno spettacolo, un contenitore vuoto, senza valori. Penso che ormai sia rovinato definitivamente e che gli altri sport piano piano lo rimpiazzeranno. All’estero questo si è già verificato: in Francia il primo sport è il rugby, lo stesso in Inghilterra, in Australia, in America e in generale nei Paesi dell’Europa del nord.
Forse in Italia ci vorrà più tempo. Se pensiamo che oggi, nel 2007, esiste ancora una percentuale di analfabeti...

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