Per gentile concessione della rivista
Libmagazine (http://www.libmagazine.eu)
pubblichiamo l’intervista di Giuseppe Nitto a Emanuele Ottolenghi, autore
del libro “Autodafé: gli Ebrei, l’Europa e l’Antisemitismo” prefazione
di Magdi Allam (Lindau, 2007, E 24 - pagg. 382). Emanuele Ottolenghi
già docente all’Università di Oxford, è direttore del Transatlantic Institute
di Bruxelles. Giuseppe Nitto, avvocato, scrittore, giornalista, cura il blog
“inpartibusinfidelium (www.inpartibusinfidelium.ilcannocchiale.it)
ed è fondatore e direttore del Centro Studi Volcei, a Buccino, in
provincia di Salerno (www.centrostudivolcei.blogspot.com)
rofessor Ottolenghi, come nasce il libro Autodafè?
Autodafè nasce da due tipi d'esperienza. Il primo, accademico, si situa nei dibattiti a cui ho spesso presenziato e partecipato, negli ultimi sette anni, su Israele, il conflitto mediorientale e la sua soluzione, all'interno degli ambienti accademici inglesi e internazionali. Il secondo, di tipo polemico e giornalistico, deriva da numerosi contributi sul tema dell'antisemitismo nel contesto del conflitto arabo-israeliano, che ho scritto nel corso degli ultimi anni. Come spiego nella premessa del libro, essi a loro volta sono in parte frutto di ricerca e riflessione, in parte il risultato di osservazioni e a volte esperienze dirette di dibattiti interni al mondo ebraico, dove intellettuali ebrei, prevalentemente di sinistra, si sono sentiti e continuano a sentirsi spesso in dovere di denunciare Israele in maniera definitiva e inappellabile. Tutte queste esperienze, messe insieme, hanno non solo fornito stimolo e causato riflessione, ma mi hanno soprattutto fatto capire la necessità di scrivere in maniera sistematica su quest'aspetto dell'antisemitismo moderno sul quale si concentra il mio libro.
Qual è la tesi centrale del libro?
La tesi centrale del libro è che in un mondo successivo all'Olocausto, l'antisemitismo è principalmente mascherato da antisionismo e che gli antisemiti, per poter esprimere apertamente il loro proprio pregiudizio, ricorrono a due tecniche discorsive: prima di tutto, essi delegittimano coloro che li criticano accusandoli di censura e facendosi scudo dell'idea che la loro partigianeria contro Israele avviene in nome di una battaglia per i diritti umani contro i nuovi “nazisti”. Nel processo di delegittimazione di chi difende Israele quale nuovo nazista, essi ricorrono, a dimostrazione delle loro tesi, a quegli ebrei che, per vari motivi, esprimono non soltanto un dissenso su questa o quella politica israeliana, ma piuttosto una condanna assoluta di Israele come progetto politico, auspicandone la fine quale Stato ebraico.
Il ricorso a ebrei per avvalorare tesi estreme di demonizzazione d'Israele è anzi centrale all'antisemitismo moderno per due motivi: da un lato, la conferma di certe tesi da parte di ebrei serve a sdoganarle e a metterle al riparo dalle accuse di antisemitismo; dall'altra, agli ebrei è mosso un ricatto: la loro denuncia d'Israele è necessaria per sottrarli da abusi verbali o peggio definiti in maniera più rispettabile come 'antisionismo'.
Come contrastare la delegittimazione e la demonizzazione dello Stato ebraico soprattutto quando proviene da ebrei e israeliani?
Non è facile rispondere. L'ebreo o l'israeliano che si autodenuncia, come dicevo, è centrale al fenomeno attuale. Ci sono mille risposte ragionevoli che si possono dare: che quel che conta è la sostanza delle critiche, non l'identità religiosa, etnica o nazionale di chi le formula; e che occorre quindi guardare ai fatti, non a certe insinuazioni che misteriosamente guadagnano di rispettabilità solo perché espresse da ebrei o israeliani. Se essere ebreo dà maggior credibilità a certe tesi, vuol dire allora che la conferma della superiorità razziale dei bianchi, per dire, diventa vera se è avvalorata da un africano? O che la tesi secondo cui le donne sono vittime di violenza sessuale perché si vestono in maniera discinta è vera se ce lo racconta una donna? Ovvio che no! E allora se questo è vero per donne e minoranze di colore, perché non nel caso degli ebrei?
I fatti poi sono importanti. Israele viene spesso paragonato al nazismo, ma anche nei casi peggiori di violazioni di diritti umani da parte d'Israele nel corso degli ultimi sette anni, ogni paragone al nazismo è semplicemente fuori luogo. Nel libro ho un intero capitolo sulla demonizzazione d'Israele dove dimostro questo doppio peso cui si fa ricorso con una certa leggerezza nel giudicare Israele.
Il dato allarmante però, e in questo si spiega la difficoltà, è che con chi pratica la demonizzazione d'Israele, il ricorso ai fatti e ai ragionamenti, non serve. Il pregiudizio che anima la demonizzazione è difficile da sconfiggere perché si fonda su un'ossessione e su un insieme di sentimenti irrazionali.
Come giudica la politica estera del governo italiano?
No comment.
Lei sostiene (in un saggio pubblicato su "Commentary" nel 2005) che i dissidi geopolitici tra Usa ed Europa sono destinati ad acuirsi: l'eventuale elezione all'Eliseo di Sarkozy e i buoni rapporti che la Merkel ha ristabilito con Washington potrebbero temperare i dissidi?
Solo parzialmente. Prendiamo i tedeschi: tra Stati Uniti e Germania esiste lo stesso problema che esiste sull'Afghanistan con l'Italia, nonostante i colori diversi delle compagini governative: gli europei non vogliono impegnare le loro truppe in combattimento.
Il risultato è che non solo sono gli alleati canadesi, australiani, e inglesi principalmente a subire perdite (insieme agli americani) ma il futuro dell'Afghanistan è tutt'altro che certo. Credo che le differenze - di natura culturale prima ancora che politica (vedi il recente eccellente libro di Andrei Markovits: Uncouth Nation, Why Europe dislikes America, presto tradotto in Italia) - continueranno a rendere la relazione difficile. Temo in particolare serie tensioni sull'Iran, se e quando il corso diplomatico arrivasse a un'impasse. La paura che la crisi irachena si ripeta è non solo ben presente, ma anche giustificata.
L'Iran rappresenta un pericolo reale per Israele e per tutta la Comunità internazionale?
Assolutamente sì. Ma a mio avviso si sbaglia a ritenere che questo sia prima di tutto un problema d'Israele. In realtà lo è prima di tutto per la comunità internazionale. Se l'Iran acquisisse la bomba, la sua ombra si estenderebbe su due regioni fondamentali per il nostro fabbisogno energetico: il Golfo Persico e il bacino del Caspio. Possiamo permettercelo? Non solo, ma l'Iran eserciterebbe la sua rinnovata egemonia regionale acuendo le tensioni tra sciiti e sunniti nelle monarchie del Golfo, destabilizzandone i regimi. Al rischio di una guerra fredda di natura settaria tra sciiti e sunniti si aggiunge anche il rischio di proliferazione nucleare che non sarebbe limitato al Medio Oriente. Infatti, ci si deve aspettare una Turchia nucleare in risposta a un Iran nucleare, cosa che avrebbe ripercussioni negative sull'Europa. Chissà, la risposta potrebbe essere una Germania e una Grecia nucleari il che significa che l'Iran porterebbe a una proliferazione in Europa laddove nemmeno la Guerra Fredda c'era riuscita.
Come vede, in questa lista di preoccupanti possibili scenari, la parola Israele non appare neanche una volta. La minaccia iraniana riguarda l'intera comunità internazionale, non Israele.
La situazione dell'Iraq è certamente grave: come giudica le nuove mosse dell'Amministrazione Bush?
Non sono un esperto militare quindi non sono in grado di giudicare a pieno titolo l'opportunità di aumentare le truppe. Certamente, sembra chiaro che la strategia militare adottata tra il 2003 e oggi, con una presenza militare minima, sia stata estremamente controproducente e occorre ribaltare questa situazione. Andarsene non mi sembra saggio. Nessuno pensa alle conseguenze di una ritirata americana, ma le garantisco che la regione ne uscirebbe molto più instabile di quanto non lo sia già.
L'Iran sarebbe incoraggiato, i radicali imbaldanziti, gli alleati americani sulla difensiva, i venti di guerra si estenderebbero, e le tensioni etniche in Iraq esploderebbero, con il rischio di pulizia etnica su larga scala. Mi sembra che occorra offrire un'ultima chance all'Amministrazione per cercare di cambiare le cose senza uscirne sconfitti.
Le ripercussioni di un ritiro senza avere stabilizzato l'Iraq sono talmente negative che occorre sostenere la decisione di Bush di aumentare le truppe anche per chi è scettico sull'intero progetto Iraq.
Lei ha frequentato nel 2005 come "visiting scholar" l'American Enterprise Institute a Washington, il covo per antonomasia dei Neoconservatives dei quali conosce approfonditamente il pensiero: è d'accordo con quanto sostiene il politologo Ottorino Cappelli (Università Orientale di Napoli) secondo il quale il merito dei Neocons è quello di aver contribuito a ristabilire il primato della Politica (ancorché muscolare, la cosiddetta matchpolitik) per determinare gli assetti dell'ordine mondiale, ribaltando la precedente mission economicista clintoniana?
Pienamente d'accordo, anche se non sono sicuro che il merito vada tutto a loro.
L'ex Neocon Francis Fukujama e altri osservatori hanno decretato il fallimento dell'agenda geopolitica neocons: è d'accordo?
Fukujama ha anche decretato la fine della storia. Credo che le previsioni non siano il suo forte.
Infine Israele: come valuta l'attuale situazione e i contrasti all'interno della società palestinese?
Preoccupanti. Anche se nutro poche speranze in una presa di coscienza della leadership palestinese di quali opportunità e quali limiti gli offra la storia, credo che nessuno guadagni dall'anarchia e dal caos attuali.
Non dico questo per offrire un appiglio retorico a chi sostiene il governo di unità nazionale palestinese negoziato negli accordi della Mecca dell'8 febbraio scorso, ma credo che accanto a uno sguardo realistico ai gravi limiti dell'attuale situazione interna palestinese, bisogna anche sperare che le cose cambino. Il caos a Gaza e nella Cisgiordania rischia di destabilizzare la Giordania, e dare spazio alla duplice penetrazione di Iran e al-Qaeda a un passo da Israele e sul mar Mediterraneo.
Grazie professore e tanti auguri per il suo libro e i suoi studi.
Grazie a lei e tanti auguri anche a Libmagazine.
Tratta da Libmagazine - IV/2007
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