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Aprile/2007 - Editoriale
Sui rapimenti, meglio essere chiari
di Paolo Pozzesi

Dopo la liberazione di Daniele Mastrogiacomo, l’inviato di La Repubblica rapito in Afghanistan, sono seguite da polemiche e discussioni che in larga misura hanno contribuito a creare confusione attorno a un problema serio, che dovrebbe essere affrontato lucidamente, evitando di lasciarsi andare a posizioni emotive, o ambigue. Un problema serio, e inevitabile. Mentre scriviamo ci sono due cittadini tedeschi sequestrati in Iraq, e due francesi in Afghanistan. E non occorre avere il dono della profezia per prevedere che ve ne saranno altri. Anche italiani? Probabilmente anche italiani. Le cosiddette “zone calde” (e alcune sono caldissime) si moltiplicano al punto che sarebbe difficile enumerarle tutte. E un po’ ovunque vi sono degli italiani: tecnici, giornalisti, rappresentanti di industrie, operatori commerciali, membri di organizzazioni umanitarie, e così via. Senza dimenticare i turisti. Che cosa si deve fare, allora, nel caso che qualche nostro connazionale sia rapito da un gruppo di ribelli, terroristi, indipendentisti, o comunque sia lecito chiamarli? Scegliere la strada della trattativa per cercare di liberarli, o rimanere inerti sperando per il meglio?
Nel caso di Daniele Mastrogiacomo il governo Prodi ha scelto la trattativa, sollecitando l’intervento di Karzai, il presidente afgano. E su questa strada si è mostrato in perfetta continuità con il governo Berlusconi, che aveva dovuto affrontare una serie di situazioni simili in Iraq. Il 13 aprile 2004, il sequestro di quattro contractors, Salvatore Stefio, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana, Fabrizio Quattrocchi, quest’ultimo ucciso. Il 20 agosto 2004, il giornalista freelance Enzo Baldoni, assassinato due giorni dopo il sequestro, mentre era in corso una trattativa condotta dal commissario della Cri Scelli. Il 7 settembre 2004, Simona Pari e Simona Torretta, cooperanti di “Un ponte per”. Il 4 febbraio 2005, l’inviata de il Manifesto Giuliana Sgrena.
Ogni volta il governo italiano ha cercato di individuare, attraverso il Sismi, i canali giusti per trattare con i rapitori, e ha pagato i riscatti. Affrontando difficoltà di ogni tipo (che l’ex sottosegretario con delega per i Servizi segreti Gianni Letta potrebbe ben raccontare, se fosse uno che ama raccontare le cose), incluse le incomprensioni con gli alleati americani. Come ha tragicamente dimostrato l’incidente dell’uccisione del funzionario del Sismi Nicola Calipari a un posto di blocco, quando stava già arrivando all’aeroporto con Giuliana Sgrena da lui appena liberata. Il 16 maggio 2005 in Afghanistan veniva sequestrata, da una banda di criminali la cooperatrice di “Care International” Clementina Cantoni. E il 12 ottobre 2006 il fotoreporter Gabriele Torsello. E il governo di centro-sinistra, come quello di centro-destra, ha continuato a trattare e a pagare.

Le polemiche sono utili, a condizione però di essere chiare. E’ stato detto e scritto che era immorale aprire una trattativa con i taliban - o chiedere al governo afgano di farlo, accedendo alle loro richieste -, mentre nei casi di sequestro di persona in Italia i conti dei famigliari dei rapiti vengono bloccati per impedire il pagamento del riscatto.
In Italia tutte le istituzioni esercitano legalmente i poteri loro attribuiti, e il pieno rispetto della legalità democratica è alla base della convivenza civile nel nostro Paese. E, dato che qualcuno ha voluto riesumare le critiche al “partito della fermezza” (si legga, Dc e Pci) che rifiutò la trattativa con le Br nel 1978, durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro, aggiungiamo che la conduzione di quel rapimento - iniziato con l’uccisione dei cinque uomini della scorta del presidente della Dc - aveva come fine proprio lo scardinamento di quella legalità: in sintonia con quella “strategia della tensione” che, con il sacrificio di molti, è stata vanificata.
L’Afghanistan non è solo una nazione straniera, è un altro mondo (come l’Iraq, la Somalia, la Nigeria, per citare solo quelli di più immediata attualità). Fra un rapimento come quello di Daniele Mastrogiacomo e il “caso Moro” di ventinove anni fa non vi è la minima analogia. E sarebbe stato risibile comunicare ai taliban che il conto corrente del giornalista era stato bloccato, e quindi non potevano contare su nessun riscatto. Ai taliban non interessa un riconoscimento di legittimità implicito in una trattativa: ritengono di essere ancora legalmente al potere, e di fatto controllano circa la metà dell’Afghanistan. Quanto ai riscatti, per la liberazione del giornalista italiano avevano chiesto uno scambio di prigionieri, e questi prigionieri erano nelle mani del governo di Kabul.
Nei giorni del sequestro di Daniele Mastrogiacomo vi era stato un coro unanime, come in tutti gli altri casi, per invocare la sua liberazione, per chiedere al governo di “fare di più”. A liberazione avvenuta si sono però alzate delle voci a sentenziare che “non si tratta con i tagliagole”. Eppure, non si vede con chi altri si dovrebbe trattare se non con gli autori del sequestro. Ed è molto raro che i rapitori siano persone corrette, di sani principi, con i quali sarebbe gradevole discutere davanti a una tazza di tè o a un bicchiere dei whisky.

Sul fronte della politica politicante, le polemiche hanno messo in causa i rapporti internazionali dell’Italia, in particolare con gli Stati Uniti. Certo, le autorità americane, civili e militari, non hanno mai nascosto la loro contrarietà a trattative di ogni tipo nei casi di rapimento nelle zone di conflitto.
Sanno benissimo che alcuni loro alleati, non solo l’Italia naturalmente, si muovono in questo senso: a volte esprimono disapprovazione, ma non si sono mai formalmente opposte, come in fondo potrebbero fare. E’ difficile credere che Karzai abbia effettuato lo scambio di prigionieri richiesto dai taliban senza informare il suo potente santo protettore.
Piuttosto, è giusto chiedersi se in realtà la linea preconizzata dagli americani non sia quella giusta. Ma per decidere in proposito, più che ai governi, passati, presenti e futuri, bisogna rivolgersi all’opinione pubblica, di ogni colore e senza colore. E ai media, che di questa pubblica opinione sono i volenterosi portavoce e sollecitatori (“Che cosa ha provato quando…?).
La scelta del rifiuto pregiudiziale di ogni trattativa significa rinunciare a invocazioni, appelli, manifestazioni, fiaccolate, sit-in. Dichiarare, insomma, che chi, per qualsiasi motivo, si avventura nelle zone a rischio (e in questo caso si dovrebbe renderne noto l’elenco preciso), lo fa a suo esclusivo rischio e pericolo.
Siamo disposti ad assumere, tutti, questa posizione?

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