Dopo nove anni di esilio dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 1992, avvisaglia alla rivoluzione accusatoria che si sarebbe di lì a poco verificata, il divieto di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni imposto ai funzionari di Polizia dall’art. 195, comma 4 C.p.p., recupera la collocazione materiale che gli era stata assegnata dal legislatore del 1988. Il nuovo comma 4 dell’art. 195 C.p.p., introdotto dall’art. 4 della legge n. 63 del 2001, si distingue dal suo predecessore solo nella parte in cui limita il divieto di testimonianza alle dichiarazioni acquisite “con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b)” negli altri casi, puntualizza la norma, “si applicano le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo”.
Il precedente articolo (comma 4, art. 195 C.p.p.) era stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale per contrasto con l’art. 3 della Costituzione A giudizio della Corte, le disposizioni dichiarate incostituzionali contenevano una deroga sfornita di ragionevole giustificazione alla regola generale che attribuisce ad ogni persona la capacità di testimoniare (art. 196, comma 1 C.p.p.).
A fondamento di tale deroga non si sarebbe potuto addurre, infatti, né una pretesa minore affidabilità dei funzionari di Polizia giudiziaria rispetto al cittadino comune, né la necessità di salvaguardare il principio di oralità, dal momento che, con tale principio, non solo non si contrasterebbe ma anzi si conformerebbe pienamente la testimonianza degli appartenenti alla Polizia giudiziaria su fatti conosciuti attraverso dichiarazioni loro rese da altre persone, con particolare riferimento a taluni casi limite come le dichiarazioni raccolte nell’immediatezza del fatto-reato (si pensi ad un teste, ferito gravemente, che rende dichiarazioni prima di morire a causa delle lesioni subite).
Il nuovo comma 4 dell’art. 195 C.p.p. è la risposta alle tante perplessità avanzate dalla miglior dottrina in merito alla sentenza n. 24/1992 della Corte Costituzionale. Come detto, questo si distingue dal testo previgente per il fatto di vietare la testimonianza del funzionario di Polizia solo quando abbia ad oggetto dichiarazioni testimoniali acquisite “con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b)”: clausola introdotta dal legislatore nella convinzione che soltanto il richiamo alle precise fattispecie di cui agli articoli suddetti avrebbe reso giustificabile e non contrastante con i principi affermati dalla Corte Costituzionale il ripristino del divieto probatorio. Il riferimento all’art. 351 C.p.p., chiarisce, innanzitutto, che agli operatori di Polizia è inibito deporre non solo sul contenuto delle sommarie informazioni assunte dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini dell’indagine, ma anche sul contenuto delle informazioni assunte dalle persone imputate in procedimento connesso o collegato.
La conclusione dovrebbe valere sia per le dichiarazioni provenienti dai soggetti di cui all’art. 197, let. b) C.p.p. che abbiano deciso di assumere l’ufficio di testimone, sia per le dichiarazioni provenienti dai soggetti di cui all’art. 197, lett. a) C.p.p. cui è tuttora preclusa l’assunzione del predetto status. L’esplicito riferimento al solo art. 351 C.p.p. potrebbe creare incertezze in altre ipotesi alle quali non v’è dubbio che il divieto, per identità di ratio, dovrebbe estendersi. Si pensi alle informazioni testimoniali assunte dalla Polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero (art. 370 C.p.p.) oppure alle informazioni assunte direttamente dal magistrato ex art. 362 C.p.p. alla presenza del funzionario di Polizia.
Quanto alle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui all’art. 357, comma 2, lett. a) e b), nulla questio in ordine al divieto di testimonianza sul contenuto delle denunce, querele ed istanze presentate oralmente; la prova costituita dal verbale non può più essere surrogata dalla disposizione del verbalizzante. Il disposto dell’art. 195, comma 4 C.p.p. non fa che prendere atto delle evidenti affinità strutturali tra la querela o la denuncia presentate oralmente e le sommarie informazioni di cui all’art. 351 C.p.p.
Molto meno comprensibile è la previsione del divieto di testimonianza sul contenuto delle sommarie informazioni rese e delle dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini.
Tale previsione normativa appare contraddittoria perché configura le dichiarazioni provenienti dall’indagato come una specie del genere “dichiarazioni acquisite da testimoni” ed, altresì, inutile perché detta una regola già contenuta per intero nell’art. 62 C.p.p. Né si può pensare che il legislatore abbia voluto porre un argine alla diffusa prassi di recuperare, attraverso la deposizione del funzionario di Polizia, le dichiarazioni spontanee dell’indagato non verbalizzate. Al contrario, il richiamo all’art. 350 C.p.p. potrebbe avvalorare letture formalistiche volte ad escludere il divieto di testimonianza su tali dichiarazioni.
Per scongiurare simili rischi non resta che ritenere o che il legislatore avesse in mente l’ipotesi del coindagato di reato connesso ai sensi dell’art. 12, lett. a) C.p.p. il quale, dopo aver reso alla Polizia dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri, assuma in dibattimento la qualità di testimone oppure ritenere, più semplicemente, che si sia trattato di un lapsus calami. Nel senso che il legislatore avrebbe voluto in realtà riferirsi all’art. 357, comma 2, lett. c) C.p.p., con il proposito di ribadire che il divieto di testimonianza opera con esclusivo riferimento alle dichiarazioni acquisite in un contesto procedimentale formalizzato.
Definita in positivo l’area di incidenza del divieto, si tratta infine di tentare di individuare quali siano le dichiarazioni acquisite da testimoni il cui contenuto, nel rispetto dell’art. 195, commi 1, 3 C.p.p., può essere tuttora introdotto in giudizio attraverso la deposizione del funzionario di Polizia.
A tale proposito vale la pena di evidenziare che sfuggono alle maglie dell’art. 195 C.p.p. le testimonianze del funzionario di Polizia che abbiano ad oggetto dichiarazioni stragiudiziali non aventi contenuto narrativo o destinate ad assumere rilevanza probatoria nel processo in quanto fatti puri e semplici, anziché in ragione di tale contenuto. Più esattamente deve ritenersi che l’art. 195, C.p.p. non si applichi quando il funzionario di Polizia, testimone de auditu, riferisca dichiarazioni altrui che non contengono la rappresentazione di una esperienza percettiva o la rievocazione di un atto proprio (ad esempio ordini, avvertimenti, consigli, ecc.).
Quando tali dichiarazioni, pur avendo le oggettive caratteristiche di un resoconto testimoniale, servono alla prova di un fatto diverso da quello che ne costituisce l’oggetto.
Tale evenienza ricorre quando la circostanza che qualcuno abbia raccontato in un certo momento una determinata vicenda serve solo a dimostrare, ad esempio, che l’autore della comunicazione era in grado di parlare o sapeva esprimersi in italiano, oppure che il destinatario si era formato una certa opinione in ordine all’episodio descritto. In tal caso non v’è alcuna coincidenza tra il fatto oggetto della dichiarazione ed il fatto oggetto di prova, la circostanza che le vicende narrate siano realmente accadute è irrilevante.
Ciò premesso, gli altri casi ai quali allude l’art. 195, comma 4, C.p.p. sembrerebbero ridursi alle sole ipotesi in cui le dichiarazioni di contenuto narrativo, probatoriamente rilevanti in virtù di tali contenuti, siano state rese dal testimone e percepite dal funzionario di Polizia al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime. Al di fuori, quindi, di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di Polizia giudiziaria, ciascuno nelle proprie qualità (ad esempio le frasi pronunciate dalla persona offesa presente al fatto e nell’immediatezza di esso).
In ipotesi come queste si ritiene generalmente consentita anche la testimonianza sui dicta dell’imputato, riferendosi anche al divieto di cui all’art. 62, C.p.p. alle sole dichiarazioni rese in ambiti processualmente qualificanti.
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