Quali prospettive dopo
i tragici fatti di Catania? Forse sarebbe
opportuno educare allo sport autentico
tutti, dai ragazzi ai genitori, dai giornalisti
alle Società, spesso ostaggio dei violenti,
e ai “cascatori” in area di rigore. In fondo
il calcio è solo un gioco
Durante il Derby “Catania-Palermo” del 2 febbraio 2007, un Ispettore Capo, Filippo Raciti, è stato colpito da un sasso, successivamente da un petardo e da una bomba carta mentre era in macchina con un fermato. I soccorsi che avrebbero forse potuto salvarlo, sono arrivati in ritardo a causa degli scontri tra tifosi e Forze dell’ordine. Filippo Raciti lascia moglie e 2 figli.
Immediatamente dopo il fatto, il Commissario Figc Pancalli ha sospeso “a tempo indeterminato il gioco del calcio in tutta Italia. Dalle parti politiche ed istituzionali, piovono messaggi di cordoglio, tutti solidali con le Forze dell’ordine, tutti a cercare di capire il perché di tanta violenza, proprio ora che i dati del ministero dell’Interno davano le violenze in trend negativo.
I tifosi attempati affermano che, ai loro tempi, queste cose non succedevano, dimenticando gente come Vincenzo Paparelli, laziale, morto per un razzo sparato dalla curva opposta. E’ ancora sulla bocca dei romanisti, per vari, macabri, sfottò. In pochissimi sanno che dall’inizio del gioco del calcio moderno (per cui tra il XIX ed il XX secolo) di morti, per scontri tra tifoserie, nei vari campionati di tutta Europa, ce ne sono sempre stati e in numero sorprendente. Lungi dal proclamare l’ineluttabilità degli eventi, credo però sia giusto prendere realmente coscienza del problema. Per “realmente” intendo che bisognerebbe vivere dall’inizio la vita nel mondo del calcio, giocato e tifato, altrimenti non si centra il problema.
L’esperienza della violenza non inizia in serie “A” o “B”, con l’adolescenza, col bisogno di appartenenza (tanto cara a sociologi e psicologi, quelli che allo stadio non ci sono mai stati) o con il degrado socio-culturale; inizia nei “pulcini”: la più giovane categoria di giovani calciatori.
Provate a mimetizzarvi tra i genitori di bambini di 9-10 anni che, per la prima volta, calcano il rettangolo di gioco. Sentirete grida di approvazione per un bel dribbling, di gioia per un gol, qualche invettiva all’arbitro e qualche accidente, al bambino avversario che ha appena fatto un fallo ad uno della propria squadra.
Cambia categoria e si passa agli esordienti e qui cambia musica. Qui i bambini di 11-12 anni sono già “uomini” ed il genitore tifoso lo sa. Cambiano le aspettative di allenatori e genitori e spesso si sentono dei materni slogan tipo: “ammazzalo bello de mamma!”. Non è un’esagerazione, ho avuto la “fortuna” di sentirlo più volte, nella mia esperienza di campi della città di Roma. Si sentono più invettive violente, ad una partita di giovanissimi o di allievi, che in un campionato italiano di Karatè.
Dagli esordienti fino ai professionisti, è un crescere di imprecazioni contro l’arbitro, i giocatori dell’altra squadra o i suoi tifosi.
Nei campionati minori, anche quelli affini al calcio, come, ad esempio, il calcetto, le squadre ospiti con tifosi al seguito sono spesso seriamente minacciate. Chiedete ai vostri amici, quelli che giocano in “eccellenza”, o in serie “D” di calcetto, quanto è difficile giocare fuori casa, magari nei paesini. E’ sempre una partita ostica, non per il fantomatico “effetto campo” quanto per l’effetto paura dei giocatori e tifosi locali che spesso rendono difficile stare in campo per l’estrema violenza dei loro messaggi. Guai a vincere, l’uscita dallo stadio e dal paesino potrebbe essere poco agevole.
La violenza nel calcio inizia alle elementari, quando i bambini vengono alle mani perché uno porta la maglia della Roma e uno della Lazio ed i loro genitori invece di censurare comportamenti devianti, li giustificano, perché tanto, quell’altro “è daa Lazio” (o viceversa). Parafrasando la pubblicità di una bevanda, iniziamo da bambini, ha respirare calcio, vivere il calcio, vestire il calcio: il calcio rappresenta un’esperienza di sport ma anche come un’esperienza di vita, come non combattere per esso?
Il calcio: moderna religione
Condanniamo i terroristi islamici perché ammazzano in nome di Dio e poi noi, gens civile, ammazziamo in nome di una maglia da calcio. Non è il degrado, non è la voglia di appartenere, è altro quello che forma la mentalità violenta che non necessariamente, è ultras.
Occorre precisare che, gli ultras sono una specie di supertifosi ma non tutti sono violenti, come non tutti i violenti sono ultras. Il tifo calcistico è un mondo a parte che deve essere capito e per farlo, bisogna prima capire, per intero, la nostra società.
La cultura ultras non è qualcosa che nasce dal nulla, è un modo di esprimersi, di sentire e di combattere. Non sono degli idioti. Idioti siamo noi a pensare che lo siano. Sono persone che hanno una fede. Non accetto la loro “fede”, come non accetto le spiegazioni surreali che mi vengono date da sociologi, psicologi, opinionisti e giornalisti, puntualmente recensite dagli stessi ultras come “pippe mentali” (cfr. http://www.asromaultras.it/pippementali.htm).
A volte si leggono o vengono dibattuti nelle università, degli studi sterili che non hanno mai visto la fase “sul campo”, fatti da studiosi che confondono fuoricampo con fuorigioco e pensano che un paio d’interviste “fatte ad arte”, la visione di riprese televisive e la giusta bibliografia, siano sufficienti per uno studio scientifico. Non lo è. Però, “gli studiosi” devono fare “la pubblicazione” e spesso scrivono cose senza senso. Non è dall’esterno e con le statistiche che si capisce il fenomeno del tifo e ancora meno di quello violento ma con l’osservazione partecipante (quella che non fa più nessuno), solo così dei fenomeni inspiegabili, diventano intelligibili.
Gli ultras non sono diversi dai gruppi politici o religiosi, a volte i gruppi ultras sono politicamente trasversali, a volte molto politicizzati, hanno però una precisa identità. Combattono la “repressione poliziesca” e la “diffida”, cercano l’aiuto delle telecamere contro la “violenza ingiustificata delle polizia”, lanciano sassi e sprangano il comune nemico. Hanno perciò, in comune con gli altri gruppi, l’auto-percezione, la cultura di gruppo, gli obiettivi, l’ideologia, il metodo di lotta e sopravvivenza civile ed anche il nemico.
Gli ultras non sono strategicamente ed organizzativamente diversi dai gruppi antagonisti, dai gruppi di destra e sinistra o dai no-global. Non sono idioti loro, come non lo sono gli altri. Non sono ragazzi che vivono necessariamente una qualche forma di disagio sociale. In mezzo agli ultras si ritrovano laureati e illetterati, gente di collina Fleming (ricco e nobile) e gente di San Basilio (povero e degradato). Il figlio dell’operaio, del medico e del poliziotto. Tutti insieme per una “fede” comune. Grazie a questa, forse, sopperiscono ad una qualche frustrazione, oppure trovano un senso alla loro vita.
Il nemico comune
Se alcuni attori delle violenze di piazza cambiano, a volte sono di destra, a volte di sinistra, a volte anarchici, a volte sono ultras; altri attori non cambiano mai: i poliziotti sono sempre gli stessi.
I custodi dell’ordine pubblico però, una volta sono dipinti come macellai (G8 di Genova) una volta delle vittime (gli scontri di Catania). Sembra un’ipocrisia.
I poliziotti fanno sempre, esattamente, lo stesso lavoro, con la destra o con la sinistra al governo, da Luino fino ad Agrigento, allo stadio ed alle manifestazioni. I governi possono indirizzare la politica della Polizia, promovendo o sostituendo qualcuno, comprando più o meno mezzi, ma in piazza, quando c’è da caricare o da indietreggiare, non è una scelta politica, è una scelta tattica, imparata dopo anni di esperienza, consuetudine e dalle tecniche di ordine pubblico. Per cui: o i poliziotti sono sempre bravi, o non lo sono mai.
Qualche volta il singolo o la squadra di 5-6 persone, esagera ma il comportamento collettivo dei 2-3000, impegnati nell’ordine pubblico, è sempre lo stesso.
Sono i giudizi dei politici e della stampa schierata, a far impressione, se la polizia interviene sugli ultras fa bene, se lo fa sul gruppo politico fa male. Sia chiaro, la polizia interviene per ristabilire l’ordine pubblico e lo fa indipendentemente da chi ha di fronte. I singoli poliziotti e l’istituzione non ha nemici ma un lavoro da fare.
C’è chi la pensa differentemente, dopo la morte di Filippo Raciti sono apparse scritte un pò in tutta l’Italia del tipo “morte allo sbirro”, a firma di Acab (acronimo inglese che sta per “all cops are bastards”), “Catania… meno uno”, “Un altro Filippo Raciti, Ultras liberi” e “2/2/2007 vendetta per Carlo Giuliani”. Appare chiaro che sia gli ultras sportivi, sia quelli politici, un nemico ce l’abbiano sul serio.
C’è stato un morto e tutti a parlare di sistema “inglese” di “stewards” e di “tolleranza zero”.
In Inghilterra la violenza è sempre stata principalmente contro i tifosi dell’altra squadra, non contro le Forze dell’ordine, difficilmente lo scontro tra due squadre di calcio è anche scontro tra nord e sud del Paese, chi cade in area si rialza subito e le partite dei dilettanti si giocano nei parchi pubblici senza mai un insulto. Il sistema inglese funziona in Inghilterra, non credo possa funzionare in Italia.
Le ultime due idee, quella di non mandare più i poliziotti allo stadio e di far pagare alle società dei vigilantes mi pare ancora più assurda. La polizia è responsabile dell’ordine pubblico, dovunque ce ne sia bisogno, con sole e pioggia, al sud ed al nord, allo stadio o in piazza, quando c’è pericolo e quando non c’è. Cosa dovrebbero fare i vigilantes o gli stewards picchiare i facironosi? Controllarli? Offrirgli the e biscotti? Alle brutte dovrebbe sempre intervenire la polizia e i vigilantes allora non servirebbero a nulla. Sarebbe più proficuo far pagare alle società di calcio, i mezzi della polizia, così come fa la società “Autostrade s.p.a.” per la Polizia Stradale.
Forse il miglior passo in avanti sarebbe quello di educare allo sport, ad iniziare dai pulcini (e dai loro genitori), fino ai cascatori d’area di rigore e alle società sportive, spesso ostaggio dei violenti. Non sarà l’indotto calcistico, con le centinaia di trasmissioni televisive, con migliaia di articoli giornalistici (compreso questo), con le decine di radio dedicate, con le fanzine, con il gossip, con il merchandising, a stimolare il senso di appartenenza, la voglia di competizione, il “noi contro loro”?
In fondo il calcio è un gioco ma sembra invece, sia diventato una cosa seria, un momento importante nella vita degli uomini.
Concludendo
L’ultimo pensiero và alla vedova ed ai figli di Filippo Raciti, vittima di una guerra, vittima di coloro che volevano liberare un compagno “prigioniero”. Era una guerra da non combattere, perché chi alza le mani o tira una pietra per la “fede calcistica”, non ha capito proprio nulla della vita. Forse ci vuole veramente un attimo di riflessione ma tra un qualche giorno, sarà tempo di un nuovo derby e tutto cadrà nel vuoto.
Piango Filippo Raciti perché era un poliziotto che faceva il suo lavoro, sempre allo stesso modo, trattando tutti allo stesso modo, forse era anche un tifoso ma uno che aveva capito il senso della vita. Lo piango, perché era come 100.000 suoi colleghi che, ogni giorno, vanno al lavoro e qualche volta, non tornano casa. Eppure ogni giorno sono di nuovo nelle vie e nelle piazze di ogni città.
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Un fiore
Vi regalo un fiore, perché dai fiori nasce l’amore;
un fiore, per tutte le volte che venite chiamati sbirri;
un fiore, perché non esistono solo persone che vi disprezzano;
un fiore; perché per guadagnarsi il pane, non basta più solo lavorare;
un fiore, perché le croci di cui è affastellata la vostra memoria recano la dicitura “morti” e non “vittime”;
un fiore, per tutte (le) volte che vorreste reagire ma siete costretti a subire;
un fiore, per tutte le volte che la vostra dignità viene calpestata;
un fiore per tutto l’odio che vi sputano addosso perché indossate una divisa;
un fiore per tutte le volte che non vi considerano semplicemente umani;
un fiore perché purtroppo è il massimo che posso permettermi;
solo un fiore, perché per rendervi l’onore che meritate non basterebbero tutti i fiori del mondo.
3 febbraio 2007
Lettera fatta pervenire sotto la porta del commissariato Politeama di Palermo
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